domenica 28 dicembre 2014

Il rapporto con i media

“L’ha detto la televisione”, “l’ho trovato su internet”: verità e falsificazione nel mondo  impossibile -  rapporto tra verità e media. Quando Abramo si trovò al cospetto di Dio, che gli comandava il sacrificio del figlio Isacco, era da solo. E quando lasciò i servi ai piedi della montagna, non fece parola con nessuno di quel che Dio gli aveva comandato. Questo perché, secondo il filosofo Jacques Derrida, Dio era stato chiaro nel comandargli il silenzio. “Soprattutto niente giornalisti!”, gli avrebbe detto. Si tratta naturalmente di un paradosso, divertente e insieme acuto: un pretesto per attirare l’analisi sull’uso dei media nel campo aperto della riflessione filosofica e rileggere la prima con gli strumenti della seconda, addentrandosi nel mai esaurito rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione mediatica. “E’ necessario che la prova che ci tiene uniti non diventi una notizia. È  necessario che questo evento non diventi una notizia, né buona né cattiva”. Secondo il filosofo francese il motivo è semplice: tutto ciò che viene detto di un fatto non è più il fatto stesso e, dunque, in qualche misura lo tradisce. Difficile negarlo. In un cerro senso proprio questa presa diretta sulla realtà è ancora più falsante perché il filtro fra noi e lei sembra assottigliarsi fino a scomparire e invece è sempre lì e noi rischiamo di dimenticarcene. la protesta contro la tecnica è uno dei significati principali di questa tecnica che chiamiamo televisione e che sostiene di restituirci la cosa in sé , diversamente da tutti gli altri media che lo fanno in differita. Insomma, quello tra media e verità è sempre un rapporto a rischio, il quale sta innanzitutto nell’ambiguità tra ciò che viene detto o mostrato e la sua aderenza alla realtà. Ambiguità che non solo i media ma gli stessi fruitori alimentano, assegnando a giornali e tv un potere assoluto sulla verità. Un maggior spirito critico dei secondi e un più costante esercizio di  responsabilità nei primi, possono contribuire a rendere un miglior servizio alla verità, e perciò a noi stessi che, ben lontani dall’imperativo derridiano, abbiamo bisogno continuamente di notizie, di qualcuno che ci descriva fatti, che ci riporti opinioni. E, ben sapendo che tutte queste informazioni non costituiscono mai la verità, vogliamo però che le si avvicinino il più possibile. La ricerca della verità passa sempre attraverso una capillare e precisa informazione (cfr Lc 1,1-4).

Io sono la Porta

Le porte si aprono e si chiudono, ovviamente! Indicano l’ingresso ma anche la chiusura, attraverso di esse si entra e si esce. Nella Bibbia, sia nella Prima Alleanza che nel Nuovo Testamento, l’immagine della porta è utilizzata spesso in tutta la ricchezza della sua simbologia. Varcare le porte di Gerusalemme, per andare incontro al Signore nel Tempio, era la più attesa delle aspirazioni di ogni buon israelita (cfr. Sal 122,9). Indicava la gioia profonda di entrare nel luogo del Signore, nella sua Casa, là dove poteva ritrovar la shalom-pace, l’armonia e il perdono. Giacobbe nel famoso sogno della scala raccontatoci in Gn. 28,11-22, fa l’esperienza della presenza di Dio, si affaccia nella sua casa: “Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!” (v. 17). Quel luogo sarà chiamato appunto Betel, cioè la Casa del Signore. In una parola, per incontrare Dio è necessario mettersi in cammino, lasciarsi alle spalle il proprio luogo ed entrare nel suo spazio, nella sua casa, che peraltro ha la porta spalancata. Il NT allarga e, in un certo senso sconvolge, la metafora della porta: non è l’uomo che “per primo” si è messo in cammino (cfr. 1Gv 4,19), ma è Dio stesso che nel suo Figlio Unigenito entra nella storia umana attraversandone la porta. L’uomo è così divenuto lui stesso lo spazio di Dio, il luogo santo, il vero tempio, dove prende dimora e si manifesta la Gloria di Dio. La gloria di Dio è l’uomo vivente (Ireneo di  Lione)! Nella persona di Gesù, Figlio di Dio e figlio di Maria e Giuseppe, l’immagine della porta giunge alla sua pienezza e trova l’inimmaginabile e ineguagliabile coincidenza: per mezzo di Cristo l’Eterno Dio entra nel tempo per venire incontro all’uomo e l’uomo “solo” attraverso di Lui può incontrare Dio: “Io sono la porta; se uno entra per me, sarà salvato” (cfr. Gv 10,1-11). Al di là, dunque, della ricchezza e della pluralità di significato che la Parola di Dio lega all’immagine della porta, il messaggio unificante è che essa in primo luogo indica apertura, possibilità di incontro, disponibilità ad accogliere. Il Signore ha la sua porta sempre aperta, spalancata; con molta onestà dobbiamo riconoscere di non poter dire altrettanto di noi! La chiusura, il rifiuto, la privacy, sembrano definire con più verità le nostre porte. Anzi, spesso proprio noi cristiani teniamo chiuse anche le porte delle nostre chiese e impediamo addirittura al Signore di uscire per strada e andare incontro agli uomini. Qualunque sia la nostra situazione spirituale mettiamoci in ascolto di quanto ancora una volta ci annuncia la nascita del Salvatore: il Natale del Signore ci ricorda il suo umile ingresso nella nostra storia, ci invita ad entrare senza timore nella sua e ci spinge con dolce fermezza ad aprire, a spalancare le tante nostre porte, spesso sbarrate e blindate. Cominciano da quella principale, la porta del cuore!

La benedizione di Aronne

Iniziare la giornata con l’auspicio che Dio ci sia propizio è indubbiamente una bella carica di energia spirituale. Tutto sembra più facile, ogni angolo oscuro della strada è illuminato dalla luce del suo volto e quindi si cammina spediti e senza tentennamenti. Bisogna però arrivare alla sera e talvolta col passare delle ore la luce svanisce e il volto di un Dio propizio sembra scomparire nell’ombra. Il passo allora si fa incerto e si palesa sempre più chiaramente il desiderio di qualche altra formula propiziatoria, magari più efficace di quella con cui è iniziata la giornata. La cosiddetta benedizione di Aaronne (Numeri 6, 24-26) è tutt’altro che una semplice formula propiziatoria. In ebraico è essa si chiama Brirkat Kohanim, vale a dire “Benedizione sacerdotale”. Nell’ambito ebraico con questa benedizione si concludono – ancora oggi – i momenti più solenni della vita comunitaria. Il concetto centrale di questa formula è la pace. Il termine ebraico shalom non esprimere soltanto la prosperità di un tempo in cui si sono spente le grida di guerra. Shalom è la perfetta armonia che nasce dal compimento della volontà dell’Eterno. Una vita all’insegna della perfetta armonia è il più antico e il più grande desiderio dell’umanità intera e di ogni singola persona. In questo senso si può parlare di una grande benedizione (o di una benedizione originale che si contrappone al peccato originale) promessa da Dio. Non di rado succede però che una benedizione liturgica sia intesa come una semplice legittimazione di un desiderio umano. In tal caso siamo di fronte a una pura superstizione. La benedizione di Aaronne non è una certificazione rituale di un desiderio umano. Al contrario: si tratta di un’affermazione solenne di una libera e consapevole sottomissione alla volontà di Colui che è l’unico vero artefice della pace.

venerdì 3 gennaio 2014

L'Italia e i trasporti

La nostra penisola è come una lunga spada con l’elsa appoggiata nell’Europa alpino-germanica e la lama puntata verso l’Africa,  lama che divide il Mediterraneo occidentale in due parti nettamente distinte. Lunga oltre mille chilometri, è morfologicamente tormentata essendo formata da rilievi disordinati che separano nettamente i due bordi marini e, nel suo interno, le differenti porzioni.  Questo «curioso» lembo di terra sembra «naturalmente» non predisposto a facili e comode relazioni tra le sue differenti porzioni ma, qualora la natura non avesse agito in maniera sufficientemente decisa, sarebbero massicciamente intervenute le comunità ivi stanziate con una storia che ha visto frazionarsi in una miriade di unità politiche, sovente contrapposte, le sue differenti porzioni.  Quando la storia ha portato la penisola alla sua unità politica, la classe dirigente del tempo non ha avuto la lungimiranza (o forse non sono state disponibili risorse sufficienti) di fare scelte interconnettive dei differenti gangli urbano-territoriali idonee a porre le basi di un nuovo unitario aggregato territoriale. Questa mancanza di visuale unitaria ha gravato su tutta la storia successiva agli anni dell’unità nazionale e ancora fa sentire il suo peso. Solo dopo l’ultimo conflitto mondiale si è sentita la necessità di porre in primo piano l’esigenza di strutture connettive tra la parte settentrionale e meridionale del paese con la costruzione di un asse autostradale Nord-Sud tirrenico – unito ad un altro molto più tardivo adriatico – ancor oggi approssimativo ed incompleto. Ma l’elemento che emerge è l’assoluta mancanza da parte delle classi dirigenti nazionali, attuali e precedenti, di una visuale strategica che identificasse nella rete delle comunicazioni, sia ferroviarie sia stradali, il momento unificante politico e incentivante sotto l’aspetto economico. Ad onor del vero, a cavallo del XIX e XX secolo, vennero impostate tutte le linee portanti della rete ferroviaria nazionale che rimasero però incomplete. Nel secondo dopoguerra poi venne definitivamente scartata l’ipotesi di cerare un solido reticolo ferroviario pubblico quale fondamentale asse portante della mobilità delle merci e delle persone, puntando invece sul trasporto privato su gomma, purtroppo sovente facile preda di interessi settoriali non limpidi. Si è poi del tutto ignorato un tipo di trasporto interconnesso terrestre-marittimo, che poteva essere una nostra vera specificità e potenzialità nazionale. Le conseguenze di una mancata strategia nel sistema infrastrutturale dei trasporti si fa sentire in ogni settore produttivo. Si è favorito uno sviluppo industriale meridionale senza prevedere sicure possibilità di relazioni con i poli settentrionali, delegando questo aspetto nodale del processo produttivo ad attori privati, lungo direttrici di incerta funzionalità. Identicamente non si sono previste strutture protette, o modalità di trasporto particolari, per la movimentazione e l’approvvigionamento energetico indispensabile al sistema produttivo nazionale. Pensiamo all’importanza strategica che la penisola potrebbe avere, stante la sua ubicazione mediana tra l’Africa settentrionale e l’Europa occidentale. Ancora, pensiamo al turismo che si potrebbe giovare di una rete di linee ferroviarie minori distribuite in aree ad alto valore ambientale e di sicuro interesse paesaggistico. E oggi, in questa mancata preveggenza di una strategia del sistema dei trasporti, ci troviamo di fronte ad una fase congiunturale con forti esigenze finanziarie da destinare all’innovazione con l’impossibilità di intervenire su un sistema di infrastrutture di trasporto incompleto e in parte obsoleto, che avrebbe bisogno di una radicale riconversione. Va tuttavia sottolineato con energia come, nell’attuale fase dello sviluppo economico, un paese che non disponga di reti di trasporto relative a ogni tipologia  di elementi conoscitivi o produttivi corra lo stesso rischio di un corpo umano avente organi perfettamente funzionanti ma con un sistema vascolare ammalato, destinato quindi a subire, prima o poi, un evento traumatico più o meno letale.

L'obbligo della verità

Quando eravamo bambini il problema della verità non era un problema. Bisognava dire la verità e non dire bugie. “Di la verità!”: ed era chiaro ciò che si voleva dire. Le difficoltà erano eventualmente nel rispettare queste regole, nell’evitare l’ambiguità, nell’essere coerenti, ma non nella comprensione di ciò che le regole volevano dire. Poi siamo cresciuti e il problema della verità è diventato effettivamente un problema. La verità non era così univoca e certa come prima credevamo: ciò che appariva vero a me non era considerato tale ad altri, anzi si arrivava al caso limite che certe realtà o considerazioni che a qualcuno sembravano inoppugnabili, per altre erano false e fuorvianti. Alla base di questa  situazione c’è la considerazione che tutti gli uomini sono influenzati dalla propria educazione, dalla propria cultura, dalle proprie scelte ideologiche e tutto questo influenza la percezione della verità. Ne deriva la tentazione di un assoluto relativismo della verità: non esiste una verità assoluta, ma esistono tante verità e ciascuno assume come verità quella che a lui sembra tale. La domanda di Pilato risulta quanto mai attuale “Quod est veritas?”. Questa scelta è ulteriormente rafforzata dalla coscienza che la verità cresce con il tempo e muta anche con il tempo a seguito delle conquiste scientifiche e della riflessione filosofica ed antropologica. In questo relativismo si fa sola eccezione, ma non sempre, per la verità dei fatti, quelli che sembrano inoppugnabili: io oggi sono a Pescara, ho fatto colazione ora sto scrivendo questo articolo… e per queste verità dei fatti esiste la menzogna: se tu dici che io non ero a Pescara, che non ho fatto colazione e che non ho scritto nulla, dici una bugia. Se neghi che la guerra è violenza, che non esiste la povertà nel mondo e che non c‘è nessun problema ambientale, neghi la verità. Ma appena il discorso passa dai fatti alla loro interpretazione si riapre il dubbio sulla verità oggettiva e si legittimano interpretazioni diverse e anche opposte. Non sembra, per molti, esistere un’unica verità cui fare riferimento, cui cercare di obbedire, cui confermare la propria vita ma piuttosto dei valori soggettivi cui adeguare la propria coscienza, o anche, in modo meno nobile, delle convenienze personali. La domanda che a questo punto si pone è se esiste una verità assoluta e come sia riconoscibile e se essa vale per tutti gli uomini, di ogni tempo e luogo, al di là delle differenze di educazione e di cultura, di religione e di politica.
Spesso si è abusato nel far passare come verità assolute affermazioni contingenti e particolari, anche se legittime. Ciò ha ovviamente contribuito a far torto alla verità. Esistono, inoltre, delle verità nell’ordine dei fatti che non possono essere negate se non con la menzogna. Vi è un dovere nel ricercare la verità oggettiva e di darle testimonianza. Utilizzare il relativismo per giustificare la propria pigrizia nella ricerca del vero è un peccato contro l’onestà. Tutto questo, però, con spirito di grande umiltà. Gesù disse: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. Bisogna ricercare queste parole di verità avvertendo che questa verità deve essere al servizio dell’uomo, non come una teoria assoluta che si muove solo nello spazio dell’intelligenza, ma come una risposta che coinvolge il cuore dell’uomo e ne determina l’azione.

La domanda che da bambini non ci ponevamo è venuta crescendo e complicandosi con la vita; in Gesù avviene la saldatura fra verità e amore, tra fede e amore e questo apre lo spazio alla speranza (cfr 1Cor 13). La Verità è nell’Amore e questo illumina anche i comportamenti di convivenza fra gli uomini e le donne. L’Amore è la Verità assoluta e Cristo lo ha testimoniato sempre.

giovedì 2 gennaio 2014

La nostra economia è evangelica?

“Prestate senza sperare di ricevere in cambio” dice l’evangelo secondo Luca. In altre parole,  il Nuovo Testamento condanna il prestito ad interesse. Il vangelo mette l’accento sull’amore e questo, applicato al campo delle relazioni economiche, significa dare la precedenza alla giustizia. Certo, si potrebbe obiettare che nel corso della storia il cristianesimo ha ammorbidito le posizioni nette espresse nel Nuovo Testamento. Si potrebbe ricordare che il Riformatore di Ginevra, Giovanni Calvino, ha permesso il prestito ad interesse. Ma il Riformatore ha differenziato chiaramente due tipi di prestito per usare termini attuali: il credito al consumo e il credito alle imprese. Il credito alle imprese deve esigere un interesse moderato. Invece il credito al consumo è accordato a qualcuno che è nel bisogno: tale prestito deve essere privo di interessi e nemmeno ci si deve aspettare la riconoscenza del debitore. Ritornando al nostro discorso, il sistema speculativo che conosciamo oggi contraddice palesemente l’orientamento evangelico. Basta guardare la speculazione sulle materie prime che aumenta ogni anno il loro prezzo del 15% mettendo in pericolo la vita di oltre un miliardo di persone. Quelle persone, che vivono con meno di un dollaro e 25 al giorno, non sono assolutamente in grado di pagare la differenza e sprofondano dunque nella miseria e nella fame. Come si può giustificare da un punto di vista etico un simile comportamento. Il segretario generale  dell’osservatorio della finanza svizzera, Paul Dembinski, dubita che la speculazione sia destinata a sparire. Anzi, teme che il fenomeno continuerà a crescere. Il risultato è che le banche centrali diffidano delle fluttuazioni del corso della moneta dovuta ad un mercato diventato molto nervoso. Per ristabilire la fiducia molti invocano l’introduzione della cosiddetta “tassa Tobin”, dal nome del premio nobel James Tobin che aveva immaginato una tassa dell’ 1% su ogni speculazione, per calmare il mercato. Ma il principale ostacolo è costituito dall’incapacità o dalla mancanza di volontà dei governi di introdurre contemporaneamente ed ovunque la tassa Tobin. Se dovesse essere applicata solo in alcuni paesi, la speculazione si riorganizzerebbe nei paesi che non rispettano questa legge. L’impressione è che la crisi economica del 2008 non abbia insegnato nulla. O forse ha solamente radicalizzato le posizioni di chi sostiene la speculazione e di chi la combatte. Tutti abbiamo capito che il nostro sistema ha di gravi limiti. Ma da qui a cambiare a fondo le cose il passo sembra essere ancora lungo.

per un giusto governo

Le scene di giubilo -  non tutte di buon gusto -  in piazza del Quirinale in occasione della crisi e delle dimissioni di Berlusconi, pur comprensibili, non sono durate più di un week end. Se infatti la tempestiva decisione del presidente Napolitano di nominare senatore a vita il professor Mario Monti e di affidargli l’incarico di formare un governo per fronteggiare il drammatico indebitamento dell’Italia, ha spazzato via l’inerzia irresponsabile del precedente governo, ciononostante “c’è grande confusione sotto il cielo” e la situazione è tutt’altro che eccellente. Perdurano varie incognite. Basterà il consenso assicurato dai leader di alcuni partiti? Visto che tutti parlano di risanamento delle finanze statali, di riforma del fisco e della giustizia, di sacrifici “lacrime e sangue” ma raramente dicono che cosa concretamente vogliono fare, non sarebbe ragionevole e doveroso esplicitare, nella fase delle consultazioni, 3-4 obbiettivi prioritari del nuovo governo? E sapere se farà anche la riforma elettorale e se l’intenzione è di arrivare a fine legislatura o d andare alle urne al più presto? Ed è verosimile che un governo concentrato su misure di forte impatto economico e sociale si consideri “tecnico” e non  “politico” solo perché i suoi membri non appartengono alla “casta” attualmente in servizio? È probabile che precisazioni su questi temi vengano nei prossimi giorni dal capo del governo, la cui serietà è riconosciuta a livello internazionale. Per il momento possiamo individuare due punti fermi, alla luce dei quali valutare le sue future scelte.
Il primo riguarda il nesso stretto, di simultaneità, che deve esserci tra i sacrifici ed il rilancio dell’economia. Se le risorse limitate dai tagli non verranno investite per creare occupazione in settori strategici (le energie pulite, l’ambiente, la sicurezza abitativa, la ricerca, l’istruzione, la sanità, le infrastrutture di base), l’effetto immediato sarà la contrazione dei consumi e la recessione, cioè più povertà e disperazione fra i giovani e gli altri settori “deboli” della forza lavoro.
Il secondo punto fermo riguarda i sacrifici ed ha vari nomi: equità, giustizia sociale, per alcuni anche misericordia. La Costituzione la chiama solidarietà sociale. Occorre partire da una premessa: per effetto della globalizzazione neoliberista dell’economia – e, in Italia, dell’intreccio tra politica , economia, criminalità – negli ultimi trent’anni sono enormemente cresciute le disuguaglianze. Si è calcolato che se negli anni settanta il rapporto tra il salario minimo operaio e quello massimo di un manager era di 1 a 40, oggi esso è di 1 a 400. A ciò si aggiunga che i ceti ricchi hanno perfezionato, complici molti politici, sistemi di arricchimento legale (elusione fiscale, condoni, depenalizzazioni) e illegale (evasione, fuga nei paradisi fiscali, corruzione, ecc…). Di conseguenza qualsiasi provvedimento “lacrime e sangue” (si tratti di Ici o di patrimoniale o di prelievo) per essere davvero “equo” non può gravare nella stessa misura sul misero e sul miliardario. Il povero non deve fare alcun sacrificio, mentre chi sta meglio o bene deve contribuire in proporzione progressivamente crescente al proprio reddito o patrimonio. Analogamente la riforma delle pensioni per essere equa deve partire dal taglio delle “pensioni d’oro”, pubbliche e private, e dall’abolizione del vitalizio dei parlamentari. Se non vi sarà questa equità (o misericordia, vedi Matteo 25, 34-46), allora sarà anche da noi iniquità e immiserimento di masse crescenti di popolazione, come quello che grandi istituzioni bancarie mondiali con le loro ricette neoliberiste hanno già ampiamente provocato in vaste aree del mondo. Di questo il senatore Monti (membro della Commissione Trilaterale fondata da Rockefeller e tuttora consulente di quella Goldman Sachs che, secondo i dati diffusi da Milano Finanza, avrebbe innescato l’ondata di vendite di Btp italiani, seguita da altri “fonti tossici” americani) è buon conoscitore.

riflessione per il nuovo anno 2

È arrivato il momento della verità. L’Italia è alla presa con una crisi vasta e devastante. La situazione è troppo grave per non essere presa sul serio. Le famiglie sono allo stremo. I giovani guardano al futuro con crescente preoccupazione, l’inflazione, mai così alta negli ultimi anni, erode stipendi e potere d’acquisto di chi fa fatica a mettere anche il cibo sulla tavola. Chi è chiamato a guidare il Paese si trova davanti ad un bivio. C’è un disperato bisogno di una svolta. Occorre un lavoro per i giovani, perché non si sentano precari cronici; la riforma fiscale per la famiglia; la cittadinanza ai lavoratori stranieri e alle loro famiglie. Ma è da chiedersi se davvero si vuole attuare questa svolta. Pare che si continua piuttosto come si ha affrontato la crisi in questi anni. Eloquente è la descrizione del modo in cui si procede che fa Matt King del Citigroup: “L’atteggiamento dei mercati della zona euro è cose se avessi tradito mia moglie e poi sono tornato a lei con un mazzo di fiori, assicurando che l’amavo davvero, e poi ho sbagliato di nuovo e sono tornato con un mazzo più grande, e poi più volte ancora con dei mazzi di fiori ogni volta più abbondanti; il problema è che arriva un momento in cui il mazzo di fiori non è più sufficiente per ripristinare la fiducia… almeno con mia moglie”. Con gli strumenti di sempre si tenta di tamponare la situazione. E in tutto questo si guarda più alle banche, più causa che liberatori di questa “guerra economica”, che alle persone reali. La salvezza delle banche non deve essere necessariamente la salvezza della società. L’evangelo ci chiama ad un impegno per una vita dignitosa per tutte le persone, e questo impegno chiede adesso delle scelte coraggiose. Soprattutto in tre campi: quello dell’economia, dell’immigrazione e dell’ecologia. Un’economia giusta, cioè equo-solidale, un’accoglienza dell’immigrato nel rispetto delle persone, un modo di vivere che non abusa più della terra. In tutti questi tre campi invece regna il fantasma della paura. Paura degli immigrati, paura del crimine, paura di uno Stato invadente, paura di una catastrofe ecologica. La paura non è un buon cosigliere, ci tiene in gabbia, fa si che vediamo le catene che ci tengono fermi come ancore di salvezza. L’evangelo, l’annuncio della libertà, è un messaggio attuale come mai. In Cristo è possibile vivere come queste strutture non avessero più potere su di noi. Siamo chiamati a vivere come esseri liberi, non come esseri paurosi, che vogliono salvare l’esistente senza essere aperti per il futuro.

riflessione per il nuovo anno

Nonostante i venti gelidi della crisi che congelano non solo i sogni ma anche le speranze di vita delle famiglie italiane; nonostante la totale immobilità della politica, preda anch’essa di una crisi soprattutto di valori, idee, onestà; nonostante la valanga di volgarità, furberie ed impunità che sta travolgendo le istituzioni; ciononostante c’è ancora un’Italia sana, che non si arrende. Un’Italia buono non buonista, che non si perde in parole, proclami e false promesse, ma si rimbocca le maniche per salvare il Paese. A cominciare dalla difesa dei diritti dei più deboli. È l’Italia solidale della società civile. A fronte dell’inciviltà dei politici e delle caste, arroccate a difesa dei propri privilegi, da non condividere con nessuno. È l’Italia delle famiglie, degli uomini e delle donne di buona volontà che vogliono più giustizia, equità e condivisione. È l’Italia degli onesti, non delle escort e dei faccendieri. Il rispetto della legalità, in vista del bene comune, è nell’interesse di tutti. Forse, mai come oggi, è necessario il risveglio delle coscienze. Prima che si frantumino, assieme al Paese. E trasformare la crisi in opportunità. Con profondi cambiamenti e stili di vita più sobri. In tutto: dalle parole ai comportamenti. E poi, più partecipazione e meno deleghe. Soprattutto per chi usa il consenso popolare per affari privati e gestisce la cosa pubblica come bene personale. Se i nominati in Parlamento non muovono coda senza ordini dall’alto ben vengano dal basso iniziative e proposte di legge. Il popolo è sovrano. Ma sempre, non a corrente alternata o a convenienza. Sono campagne di giustizia e solidarietà. Come “L’Italia sono anch’io” in favore della cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia. Oppure “Vogliamo zero”  dell’Unicef contro la mortalità infantile. O la provocazione delle Famiglie numerose, che si sono incatenate a Roma per dire “Basta!” ad una politica bugiarda per le tante promesse non mantenute. Mentre la nave affonda, i timonieri continuano a sollazzarsi. Nel complice silenzio di chi li copre, perché nulla cambi nei privilegi delle caste. Ma ora c’è bisogno di più etica pubblica e privata. E di nuovi protagonisti in politica. Gente onesta e preparata delle più diverse ispirazioni in Italia ce n’è. Andrebbero individuati al più presto, attraverso un movimento di partecipazione, che nasca il più possibile dal basso e punti su esperienza, competenza e serietà. Non è più tempo di stare a guardare o di tenersi lontano dalla politica, col pretesto di non sporcarsi le mani. Si sporca chi cede al compromesso, non chi si mette al servizio degli altri.