martedì 17 aprile 2012

Paolo e il messaggio cristiano.

Paolo e il messaggio cristiano.   

Il primo incontro di Paolo con il messaggio di Gesù avvenne nella comunità di lingua greca. Sicuramente fu istruito ad Antiochia dove Anania prima e Barnaba poi lo resero edotto sugli insegnamenti del Maestro i quali, essendo inseriti in una comunità di lingua greca, purificarono il messaggio evangelico da quelle che consideravano impurità giudaiche come la dipendenza dalla Legge, la circoncisione, la fedeltà ai culti templari. Questo retroterra culturale e la provenienza da una comunità ellenistica segnarono il nuovo pensiero di Paolo e tracce di questa rielaborazione sono evidenti nelle sue lettere. In esse sono presenti materiali più antichi, delle forme arcaiche, risalenti certamente alle comunità ove egli soggiornò e formò il suo pensiero. Gli studi di Kuss hanno evidenziato le difficoltà nel distinguere ciò che Paolo ha ricevuto dal cristianesimo giudeo-ellenistico da ciò che gli è stato tramandato dalle comunità di lingua aramaica[1].
Paolo mostra di conoscere la tradizione relativa all’Ultima Cena (1Cor 11,23-25; cfr Lc 22,19-20) e alla risurrezione (1Cor 15,3;); conosce la prassi battesimale (Rm 6,1-7; cfr At 2,41); i carismi (1Cor 12-14; cfr At 2,4; 10,46; 19,6). Sembra condividere la preferenza di Gesù per il celibato a favore della missione (1Cor 7,26; cfr Mt 19,12) e dell’indissolubilità del matrimonio (1Cor 7,10-11; cfr Mc 10,11).
Inoltre, Paolo sembra ignorare fatti importanti della vita di Gesù quali il suo battesimo, le tentazioni, i miracoli, le parabole,   le controversie con i farisei, non parla della passione pur facendo della morte di Gesù il tema portante della sua teologia. Ancora, pur attribuendo molta importanza alla sua visione di Gesù tanto da indicarlo come l’inizio della sua vocazione apostolica al pari degli altri Dodici, non menziona affatto le varie apparizioni post-mortem ai discepoli. Su Gesù Paolo fa solo affermazioni generiche: Gesù è ebreo (Rm 9,5), il re Davide è un suo antenato (dando prova così di conoscere le genealogie), ponendolo nella dinastia regale (Rm 1,3), è sottoposto alla Legge Mosaica ed ha avuto origine umana (Gal 4,4), Giacomo è il fratello di Gesù ed è a capo della Chiesa di Gerusalemme (Gal 1,19; 2,9.12; 1Cor 15,7), che Gesù ha dei fratelli (1Cor 9,5).[2] Sembra riconoscere a Pietro un ruolo preminente quale capo del gruppo dei Dodici (1Cor 1,12; 3,22; 9,5; 15,5; Gal 1,18; 2,7-14). Una volta menziona Giovanni (Gal 2,9). Paolo afferma che Gesù istituì la Santa Cena la notte in cui venne tradito (1Cor 11,23), che morì in croce (Gal 3,1; 1Cor 2,2ss) e che, dopo essere stato sepolto, risuscitò il terzo giorno (1Cor 15,6).  Ciò che gli studiosi non riescono a spiegarsi è il silenzio di Paolo su particolari importanti della vita di Gesù che ben avrebbe dovuto conoscere e perché non abbia utilizzato la tradizione evangelica che, sebbene agli inizi, era comunque vincolante. Si può ipotizzare una differenza di catechesi tra la comunità di Gerusalemme, di stampo giudaico, e la comunità di Antiochia, di stampo ellenico. L’episodio dell’istituzione dei diaconi narrato dagli Atti degli Apostoli mostra come tra i due gruppi ci fosse qualche attrito[3]. Bisogna dire che tra Paolo e Gesù si inserisce la comunità cristiana primitiva, dunque Paolo ha una conoscenza mediata di Gesù. Egli, non avendo sperimentato il Maestro di persona, non si interessa ai suoi aspetti biografici come invece fanno i  Sinottici; si preoccupa, al contrario, di dare un significato alla sua morte e risurrezione. È anche possibile che la credenza di Paolo nell’imminente fine del mondo, come si evince dalla sua prima lettera ai Tessalonicesi, derivi dalla sua fede nella risurrezione. Infatti i farisei ritenevano che la fine del mondo sarebbe giunta allorché i morti avrebbero cominciato a risorgere; ora Paolo è fariseo e la sua fede nella risurrezione di Gesù lo porta di conseguenza a ritenere prossima la fine del mondo.
Paolo nelle sue lettere riporta varie espressioni liturgiche aramaiche, segno che le ha ricevute dalle comunità di lingua aramaica: αμήν (Rm 1,25; 1Cor 14,16ss); Μαραναθά (1Cor 16,22); Аββά (Gal 4,6; Rm 8,15). Paolo si serve anche di formule utilizzate nelle assemblee comunitarie: alcune sono delle omologie, ossia delle solenni dichiarazioni di fede in Gesù (1Cor 8,6; 12,3; Fil 2,11;); altre sono professioni di fede riguardanti il passato (1Tess 1,9b-10; 4,14a; 1Cor 15,3-5; Rm 1, 3-4; 4,25; 14,9;).
Per quanto riguarda l’inno contenuto in Fil 2,5-11 la sua origine è controversa. La maggioranza degli studiosi ritiene che l’inno sia proprio di Paolo mentre Lohmeyer fu il primo a sostenere l’origine prepaolina di questo brano[4].
b) Paolo e il suo retaggio culturale.
Molti studiosi hanno ravvisato nel pensiero di Paolo influssi provenienti dalle religioni misteriche greco-orientali ove i salvatori, denominati appunto κυριοι, abbondavano. Questi culti erano aperti anche a infiltrazioni di tipo gnostico. Le affinità del linguaggio paolino con terminologie proprie di questi culti favorirebbe tale ipotesi. Il dio salvatore (σωτήρ) era già contemplato nelle religioni pagane; la stessa comprensione dei sacramenti come mezzo per comunicare misticamente alla morte e risurrezione di Cristo trova analoghe corrispondenze nei riti pagani che celebravano la morte e risurrezione della divinità e comunicavano salvezza e immortalità agli adepti tramite il pasto sacro. L’insistenza paolina sull’incarnazione, l’unione mistica con Cristo, i sacramenti, la stessa divinità di Cristo sono concetti estranei al giudaismo e che Paolo prendere a prestito dagli ambienti misterici orientali e greci. Lo studioso Wendland fu il primo a stabilire un nesso tra il pensiero di Paolo e la gnosi orientale e che il cristianesimo può comprendersi solo sulla base di una mistica pagana[5]. Anche in ambito liturgico è possibile una comprensione del culto cristiano solo basandosi sui culti misterici: gli studi condotti dal monaco Odo Casel sono illuminanti sulla questione.
Indubbiamente vi sono profonde similitudini con il pensiero gnostico se molti maestri di questa scienza nascosta elessero l’Apostolo delle genti a loro campione. La teologia della redenzione, tipica di Paolo, offre sorprendenti somiglianze con l’idea gnostica della salvezza tramite una sapienza divina che consente di giungere alla conoscenza del vero io e che permette di risvegliare quella parte spirituale (la scintilla divina) che abita in ogni uomo. Altri autori invece ipotizzano una diversa derivazione del pensiero paolino, ravvisando in esso tratti caratteristici del mondo giudaico. Secondo questi studiosi Paolo attinge alla sua formazione rabbinica gli elementi dominanti della sua teologia esprimendoli e adattandoli nell’orizzonte della sua azione in ambienti ellenici. Forti sono i parallelismi con temi presenti nell’apocalittica giudaica. Nei suoi scritti abbondano i midrashim su Abramo, Adamo e altre figure-tipo dell’Antico Testamento. Gli studi di Sanders hanno sottolineato come, confrontando l’ambiente religioso giudaico con la teologia di Paolo, emerge che il primo privilegia il «nomismo del patto» ossia la fedeltà alla Legge come condizione necessaria alla salvezza mentre nel secondo predomina l’«escatologia partecipazionista» ossia l’essere in Cristo mediante la fede come unica via di salvezza[6].     
Dunque, Paolo radicherebbe il suo messaggio nella tradizione religiosa di Israele, ma se ne distaccherebbe anche. È illuminante un passo dello studioso Romano Penna: “In parte L’Antico Testamento per Paolo è obsoleto e da rifiutare (AT come legge); in parte , esso è preannunzio,cioè preparazione e quindi valorizzazione in senso positivo (AT come promessa); in parte, conserva intatta l’autorità di libri ispirati e divini (AT come Scrittura); infine, e come conseguenza, esso fornisce a Paolo in maniera determinante abbondanza di materiale concettuale e lessicale, come imprescindibile mezzo espressivo (AT come linguaggio)”[7]. Insomma, Paolo sembrerebbe tradire una certa dipendenza dalle comunità di origine aramaica. La scoperta di manoscritti a Qumran ha permesso di gettare nuova luce sull’apostolo, rivelando somiglianze con ambienti esseni. Sicuramente la figura di Paolo è talmente complessa che racchiuderlo in uno degli schemi dedotti da quanto sopra detto opererebbe un’ingiusta riduzione della genialità di questo discepolo di Cristo.
c) Paolo rilegge l’Antico Testamento.
Paolo rilegge l’Antico Testamento utilizzando l’esegesi rabbinica: la benedizione di Abramo (Gal 3,6-14); Agar (Gal 4,21-31); l’esempio di Abramo (Rm 4); il deserto (1Cor 10,1-5). Paolo impiega anche le categorie proprie delle correnti apocalittico-escatologiche (1Tess 4,13-5,10; 1Cor 15,51-53; 2Cor 5,1-10; Fil 3,11.20-21). Dagli esseni di Qumran, Paolo sembra trarre le opposizioni luce/tenebre e carne/spirito, la dottrina della corruzione dell’uomo, l’interesse per la conoscenza, l’attesa escatologica. Egli, così, sostituisce tematiche ormai antiquate con nuove riflessioni teologiche.
Contrario, invece, al mondo giudaico è appunto la sua polemica nei confronti della Legge Mosaica. Paolo qui opera una scissione nella sua rappresentazione della Legge data a Mosè: estrapola da questa le opere e le prescrizioni fino a farne una realtà a sé stante  contrapposta alla Legge stessa. Secondo la sua concezione i giudei confidano più nelle opere che non nel potere salvifico della Legge. Ora, nel giudaismo ufficiale non si conosce un simile problema: la Legge va osservata in quanto espressione dell’alleanza con Dio. Essa è, per citare Rm 7,12 “santa e santo e giusto e buono è il comandamento” e va seguita onde permanere in stato di amicizia con Jhwh; in caso di trasgressione l’istituto dell’espiazione permette al peccatore di riscattarsi e di ripristinare l’alleanza infranta. Anche se l’obbedienza alla Legge può sembrare un atto puramente umano alla base vi è sempre la libera elezione da parte di Dio, dunque un atto di grazia. Infatti solo Dio può rinnovare un’alleanza infranta. Per questo in molti profeti è frequente l’esortazione ad osservare l’alleanza mentre  Geremia va oltre preconizzandone una nuova. Tutto questo non deve distogliere l’attenzione dal fatto che si tratti solo dell’intervento gratuito di Dio. La LXX mostra molto bene questo importante punto traducendo  l’espressione ebraica kārat berit (tagliare un’alleanza) con l’espressione greca διαθήκην διατιθεμαι (stabilire un’alleanza) ponendo l’accento sull’azione divina che l’uomo può solo accettare. L’alleanza tra Dio e l’uomo, perciò, non è tra due contraenti di pari dignità e diritti ma tra un re e un suo vassallo. La gratuità dell’alleanza è sottolineata nel racconto della sua istituzione in Ge 15: Abramo non compie nessun rito, prende solo atto della volontà divina.
La posizione di Paolo nei confronti della Legge è tanto più incomprensibile se confrontato con l’atteggiamento assunto verso Israele, suo popolo. Se la salvezza deriva dalla fede in Cristo e Israele non ha aderito a questa fede, come potrà il popolo eletto giungere alla salvezza? Per Paolo l’abolizione della Legge non significa che Dio abbia rigettato completamente Israele anche se il popolo eletto è stato sostituito dal nuovo Israele, ossia la Chiesa. Il capitolo 11 della lettera ai Romani illustra questo punto, sotto certi aspetti oscuro, del pensiero paolino. Il sogno dell’Apostolo è che anche il popolo ebraico giunga alla salvezza perché inserito nell’alleanza abramitica, alleanza in cui è immessa anche la Chiesa, e i patti di Dio non possono essere invalidati[8]. Vi è stato un forte dibattito, ormai sopito e dimenticato dalla teologia cattolica,  tra due studiosi gesuiti il primo di origine bretone, padre Vhanoi, il secondo di origini tedesche, padre Lofink, sulla questione se l’alleanza con Israele sia ancora in vigore e che renderebbe l’antico popolo ancora strumento di salvezza. 
Ora, nelle lettere ai Galati e ai Romani, Paolo affronta la questione della superiorità della fede sulla Legge Mosaica. Punto di forza del ragionamento paolino è la storia del patriarca Abramo il quale fu giustificato senza conoscere le opere della Legge, che all’epoca non era ancora stata data a Mosè. Dunque per Paolo la fede viene prima della Legge ed è a questa superiore. Nel midrash sui due figli in Gal 4,22-26 Paolo mostra come l’alleanza sinaitica non può produrre la salvezza al contrario dell’alleanza abramitica: “Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello dalla schiava è nato secondo la carne; quello dalla donna libera, in virtù della promessa. Ora, tali cose sono dette per allegoria: le due donne infatti rappresentano le due Alleanze; una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, rappresentata da Agar – il Sinai è un monte dell’Arabia –; essa corrisponde alla Gerusalemme attuale, che di fatto è schiava insieme ai suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre”. Paradossalmente la storia del patriarca Abramo verrà usata per giungere a conclusioni opposte da uno degli avversari di Paolo, l’apostolo Giacomo il fratello del Signore.
Paolo considerando il Cristo come il salvatore trae da questo postulato le conclusioni logiche, sostituendo il Maestro alla Legge. Potremmo dire che per Paolo ora è Cristo la Legge. Mentre per i giudei l’osservanza della Legge realizza la comunione con Dio attualizzando l’alleanza non solo per tutto il popolo ma anche per il singolo che si pone in essa appunto nel momento in cui osserva i precetti, per Paolo è l’essere in Cristo a  realizzare la comunione con Dio. Per Paolo aderire alla Legge significa instaurare un rapporto di do ut des con Dio: “A chi lavora, il salario non viene calcolato come un dono, ma come debito; a chi invece non lavora, ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede gli viene accreditata come giustizia” (Rm 4,4; cfr. 10.3). Rinunciando alla Legge, invece, l’uomo rinuncia alla sua autosufficienza per consegnarsi totalmente nelle mani di Cristo Signore; scrive infatti l’Apostolo: “… e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede” (Fil 3,9).
La salvezza abbraccia anche la nostra esistenza terrena, ossia il nostro corpo che attende la risurrezione: “Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui” (1Tes 4,14); “E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8,11; cfr. 1Cor 15,12-20). L’uomo può accedere alla salvezza mediante la fede. È la fede la chiave di accesso al valore soteriologico del sacrificio di Cristo. La salvezza operata dal Cristo non riguarda soltanto l’uomo ma assume in Paolo proporzioni cosmiche: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,19-21). 
Da buon giudeo, Paolo è l’uomo della parola. Scrive nella sua Introduzione generale alle lettere paoline, Piero Rossano: “Volendo fare una diagnosi della parola di Paolo sulla base del suo epistolario e degli Atti degli Apostoli, si possono assumere come punti di riferimento tre termini significativi della sua fraseologia. La sua predicazione è παράδοσις, cioè tradizione, trasmissione di un annuncio codificato dagli Apostoli; ad essa si aggiunge una σοφία, cioè una sapienza, una specie di intelligenza spirituale della fede; e tutte e due, tradizione e sapienza, stanno in rapporto con una realtà che Paolo chiama spesso il mio vangelo, con la quale espressione sembra indicare ciò che è tipico e caratteristico del suo insegnamento”[9].
Come abbiamo avuto modo di considerare, Paolo radica il suo insegnamento nel filone veterotestamentario in cui vi scorge numerose prefigurazioni del Cristo. Questa abbondante messe di materiale tradizionale viene riletta in chiave cristologica: questa è la sapienza propria di Paolo. La ricchezza culturale ellenistica dell’Apostolo e il suo retaggio ebraico possono sintetizzarsi nella nuova esperienza religiosa vissuta da Paolo, fariseo convertitosi alla causa di Cristo. Questa sapienza per l’apostolo non è per tutti; egli distingue fra i credenti chi può esserne depositario e chi ne è escluso: “Tra i perfetti parliamo, si, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo…” (1Cor 2,6ss; 3,1-2). E ciò causerà grossi problemi con lo gnosticismo. Il parlare di una sapienza nascosta e rivelata solo a pochi perfetti ha dato vita a tutta una serie di ipotesi circa il carattere esoterico della sapienza paolina. Gli gnostici si approprieranno delle parole dell’Apostolo per dimostrare come l’origine della gnosi cristiana risalga proprio a lui. E qui veniamo al terzo aspetto illustrato dall’esimio Rossano e cioè l’espressione “mio vangelo”. La rilettura che Paolo opera dell’Antico Testamento alla luce dell’evento Cristo lo porta ad affermazioni  che, pur contrastando con la fede condivisa fino a quel momento, asserisce essere verità tali da definirsi addirittura vangelo. La tecnica di Paolo è di adattare il suo messaggio all’uditorio che ha di fronte. Con gli ebrei Paolo si ricollega alla tradizione dei padri utilizzando la tecnica del midrash, come abbiamo illustrato poco più sopra; con i greci fa appello alla loro cosmogonia mostrando come Dio pur nella sua trascendenza può farsi immanente nel creato. Il discorso dell’areopago di Atene, anche se nella versione tramandataci da Luca, è esempio di ciò. Ma è nella lettera ai Colossesi che lo sfondo gnostico di Paolo si fa presente in modo prepotente.
d) Paolo e Gesù a confronto.   
Paolo vede tutta la sua esperienza non solo di uomo ma anche di credente alla luce dell’evento Cristo. Egli, nelle sue lettere afferma di essere stato sedotto da quest’uomo che considera divino e che lo ha eletto quale suo annunciatore di salvezza. Tutto ormai per Paolo è orientato verso il Cristo. Ma Paolo ha conosciuto di persona il Gesù terreno? Possiamo dire subito di no, Paolo non ha mai conosciuto di persona Gesù nel corso della sua missione terrena. Ma allora il messaggio che l’Apostolo pretende gli sia stato affidato direttamente dal Signore è frutto di sue speculazioni razionali o si radica nel messaggio del Gesù terreno? Facciamo rispondere a questa domanda da uno studioso di Paolo, Giuseppe Barbaglio: egli afferma nel suo libro: “Al quesito se e in quale visione Paolo dipende dal Gesù storico o terreno o meglio dalle tradizioni evangeliche su Gesù, si impone una risposta sorprendente eppure inoppugnabile: solo in minima parte e con peso insignificante sul vangelo paolino… Non sembra dunque esserci alcun ragionevole dubbio in proposito: la predicazione di Gesù ha inciso poco o nulla su Paolo e in esso la teologia paolina non ha trovato la sua matrice storica”[10]. Dunque, sembrerebbe esserci una profonda frattura tra il messaggio gesuano e quello paolino. Ma quali sono queste differenze?
Differenza fondamentale tra il messaggio di Gesù e quello di Paolo è che il primo è teso verso il futuro, il secondo annuncia un evento salvifico già accaduto. Ciò che per Gesù è ancora da venire per Paolo è già compiuto[11]. Gesù è teso ad annunciare una novella ai soli ebrei innestandosi così nel particolarismo ed esclusivismo  tipico del giudaismo del suo tempo. Paolo, al contrario, è aperto ad un universalismo che coinvolge tutte le genti, universalismo in linea con il suo essere  un cosmopolita. Paolo rispetto a Gesù è un ebreo che appartiene al mondo intero quale cittadino romano e uomo di cultura. La sua genialità consiste nell’aver staccato il cristianesimo primitivo quale propaggine dell’ebraismo e averlo reso una religione mondiale, aprendosi ai Gentili. Già studiosi cristiani del passato quali Bultman, Baur e Wrede consideravano Paolo come il “secondo fondatore del cristianesimo”, colui che avrebbe trasformato il messaggio morale del Vangelo in un culto misterico.
Per illustrare l’opera soteriologica del Cristo risorto, Paolo fa uso delle categorie veterotestamentarie quali la redenzione, il sacrificio di espiazione del rito del propiziatorio, il riscatto, la riconciliazione, l’agnello pasquale, il servo sofferente.  Nell’idea della redenzione propria di Paolo si ritrova l’usanza prettamente greca del riscatto dello schiavo che pagava il prezzo presso un tempio ma soprattutto il grande ideale di liberazione desunto dall’epopea dell’esodo[12]. La redenzione per Paolo è Cristo stesso, il quale la compie pagando il prezzo del nostro riscatto sulla croce. L’Apostolo collega così la redenzione con la morte e risurrezione del Cristo e tutto viene interpretato secondo gli schemi propri del giudaismo e dell’Antico Testamento, ma anche ricorrendo a categorie misteriche. La morte in croce corrisponde nella teologia paolina al rito dell’aspersione del “propiziatorio”[13] quando il sommo sacerdote nel giorno dello jom kippur aspergeva il coperchio dell’Arca dell’Alleanza. Scrive difatti Paolo nelle sue lettere: “Infatti siete stati comprati a caro prezzo…”  (1Cor 6,20); “Siete stati comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi degli uomini” (1Cor 7,23); “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto:Maledetto chi pende dal legno” (Gal 3,13); … per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,5).
Collegare la morte di Cristo al grande tema del sacrificio proprio della teologia biblica giudaica è il passo seguente che compie l’Apostolo: Cristo morto è l’agnello pasquale che oltre a liberarci dalla schiavitù del peccato e dalla legge, ci libera anche dalla morte gustando la morte stessa al posto dell’umanità. Scrive Paolo: “Infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato” (1Cor 5,7). Questo sacrificio pasquale di Cristo è un atto di obbedienza al Padre che riscatta la prima disobbedienza della storia: quella di Adamo. Si legge in Rm 5,19: “Similmente, come per la disobbedienza di uno solo [Adamo] tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo [Cristo] tutti saranno costituiti giusti”.
Il pessimismo antropologico tipicamente paolino contrasta con l’atteggiamento comprensivo di Gesù. Più che nella sua opera Gesù sembra porre molta importanza al suo insegnamento che introduce l’uomo nel regno di Dio; Paolo, al contrario, marca l’accento sull’opera e sulla morte di Cristo come origine di salvezza. Paolo legge Cristo anche in chiave metafisica: Egli è preesistente, quasi divino e si è incarnato per salvarci per poi ritornare in cielo dove attende i salvati[14].
Vi è un passo nel vangelo di Matteo che può aiutarci nel comprendere come l’asse teologico di riferimento riguardo al perdono di Dio si sia spostato nel confronto tra il pensiero gesuano e quello paolino: è la preghiera più famosa della tradizione cristiana ossia il Pater noster. In questa preghiera, insegnata direttamente da Gesù, la remissione dei peccati pare subordinata dalla disposizione a voler a nostra volta perdonare coloro che ci hanno offeso o fatto subire un torto. il biblista Mauro Pesce da questa spiegazione delle parole di Gesù: “Gesù insegna ai suoi discepoli a dire «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Poiché è indubbio che sia stato Gesù a formulare questa preghiera,la frase mostra chiaramente quale concezione egli avesse della remissione dei peccati. I peccati vengono rimessi non in virtù della sua morte, bensì attraverso un rapporto triangolare fra l’uomo, Dio e il suo prossimo… Gesù non dice: Dio rimette i peccati perché io Gesù morirò per i peccato degli uomini. E’un ulteriore elemento che ci fa capire la differenza fra il Gesù ebreo e il Gesù cristiano: il Gesù cristiano è quello di cui san Paolo dice: Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture. Il Gesù ebreo dice: è Dio che rimette i peccati. C’è un’evoluzione non piccola come si vede fra Gesù ebreo e Gesù come lo hanno rappresentato i primi cristiani. Quando ha insegnato il Padre nostro, egli non pensava di dover morire per i peccati degli uomini”[15].
La lunga citazione ci consente di riflettere sugli sviluppi che le parole di Gesù potevano avere nelle intenzioni dei primi discepoli che li adattavano a nuovi contesti e nuove situazioni modificando, talvolta in modo estremo, l’originalità del messaggio gesuano. È bene ricordare che in questa fase del cristianesimo non esiste ancora il Nuovo Testamento così come lo conosciamo noi; soprattutto non esistono i Vangeli ma al massimo delle raccolte di loghia, i detti di Gesù, e di fatti da lui compiuti. Sarebbe doveroso fare un accenno alla storia della redazione e delle forme per mostrare come i Vangeli siano una raccolta  di documenti preesistenti e collazionati dagli autori secondo il preciso disegno teologico che ognuno di essi si prefiggeva. Ad esempio è possibile risalire ad una raccolta di parabole, di miracoli, di ammaestramenti di Gesù, che nel modo in cui sono stati inseriti testimoniano la loro preesistenza come raccolta a parte. Anche se oggi molti biblisti preferiscono non utilizzare più la famosa teoria della fonte Q, essa ha aiutato molto la comprensione della storia della redazione dei vangeli.
Detto questo è possibile risalire al  nucleo centrale della predicazione apostolica, ossia al kerigma: Gesù è Signore (ό κύριος) ed è morto e risorto per i nostri peccati, da lui viene la salvezza. È questo che si evince da un confronto tra gli Atti degli Apostoli e i Sinottici. Paolo si impossessa di questo nucleo e lo sviluppa secondo la sua personalità geniale. In questo senso può ben essere definito il fondatore del cristianesimo. Gran parte del Nuovo Testamento sarà opera sua o si ispirerà alla sua azione. È errato, però, pensare che in Paolo vi sia una teologia sistematica come da manuale; essa deve essere estrapolata dalle sue lettere e da quelle che la tradizione gli attribuisce.
Come abbiamo già detto  il nucleo fondamentale dell’annuncio cristiano, il kerigma, ricavato dal Nuovo Testamento ossia dai Vangeli sinottici, dalle lettere paoline autentiche e dagli Atti è: Gesù morto per i peccati, risorto dopo tre giorni, asceso alla destra del Padre e divenuto Signore (κύριος). Questo è l’evento salvifico a cui bisogna aderire tramite la fede e il battesimo ed essere aggregati all’assemblea dei santi, l’εκκλησία.  Dalle fonti summenzionate è possibile tracciare gli avvenimenti successivi alla morte di Gesù. I discepoli, adunati da Gesù nel corso del suo ministero terreno, hanno seguito il Maestro durante i suoi tre anni circa di attività. Sono stati a stretto contatto con lui, hanno vissuto con lui, mangiato con lui, assistito alle sue azioni, ascoltato le sue parole, appreso i suoi insegnamenti sia pubblici che quelli rivolti a loro in privato, hanno assistito alle sue guarigioni e ai suoi miracoli. Sono stati presenti all’Ultima Cena, con tutto il suo simbolismo. Hanno presenziato alla sua  cattura e lo hanno visto morire crocifisso. Presi, poi, dalla paura per possibili ritorsioni da parte dei giudei si nascosero ed attesero gli eventi. In seguito racconteranno di aver visto il Maestro risorto. Durante la festa di Pentecoste ricevono il dono dello Spirito e, dopo aver sostituito Giuda Iscariota nel gruppo dei Dodici Apostoli, iniziarono la predicazione. È chiaro che i seguaci di Gesù devono aver riflettuto sul senso di quanto accaduto. L’episodio dei discepoli di Emmaus raccontato da Luca è sintomatico del tentativo di reinterpretare gli avvenimenti della morte di Gesù in chiave nuova. Quanto fosse necessario al nuovo movimento definire la figura e l’opera del Maestro lo mostra il voler far risalire tale tentativo nientemeno che al Gesù storico[16]. Il movimento dato vita dal Maestro non poteva finire con la sua morte, occorreva continuare la sua opera. Il “mi sarete testimoni in tutta la terra, battezzando nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”[17] diviene l’imperativo di questo gruppo di discepoli  tanto da essere incluso nei vangeli stessi. Si tratta della formula trinitaria che accompagna il rito del battesimo, formula che soppianterà quella cristologica già presente negli Atti, segno di una evoluzione nel pensiero teologico. Essi, però, restano ancora legati alla tradizione giudaica, frequentano il Tempio nelle ore della preghiera, si astengono dai cibi vietati dalla Legge, seguono le Scritture ebraiche che cercano di reinterpretare alla luce degli insegnamenti di Gesù e in base alla sua vita. L’episodio della conversione del centurione Cornelio può ben essere posteriore e inserito solo dopo che Paolo ebbe esteso la sua opera ai Gentili. Lo scontro di Antiochia tra Paolo e Pietro e il concilio di Gerusalemme, presieduto da Giacomo e non da Pietro, ben mostrano la difficoltà del neonascente cristianesimo a staccarsi dalla corrente giudaica. Paolo, epigone di questa svolta storica, soffrirà sempre a causa di chi non condivide questa sua scelta.
Per poter stabilire un nesso di comunione tra Paolo e Gesù unica fonte disponibile sono le sue lettere autentiche e i Vangeli, anche se sorge il problema sull’attendibilità  della testimonianza evangelica circa gli insegnamenti di Gesù. Ad esempio Gesù non si è mai attribuito titoli messianici né ha mai preteso di definirsi Figlio di Dio o Signore preferendo per se stesso il più generico titolo di “figlio dell’uomo” (bar nāšā) nel senso di uomo, appartenente al genere umano ma avente anche il significato dell’io che parla . Questo titolo è presente in Daniele ed Ezechiele e nel libro apocrifo di Enoc. Nei Vangeli compare ben 82 volte: 14 in Marco, 30 in Matteo, 25 in Luca, 13 in Giovanni ed  è sempre usato da Gesù. L’uso di questo titolo da parte di Gesù crea qualche problema infatti “Il figlio dell’uomo è una figura trascendente e divina, mentre il nome aramaico indicherebbe semplicemente una figura umana, un uomo. È una figura gloriosa, ma che, secondo la reinterpretazione posteriore, deve arrivare alla gloria attraverso la sofferenza. L’ambiguità più arcaica si trova in Lc 12,8 in cui il figlio dell’uomo sembra diverso da Gesù, anche se strettamente legato a lui, in quanto giudica gli uomini secondo il loro atteggiamento nei confronti di Gesù”[18].   Eppure Paolo non esita ad appropriarsi di questi titoli cari alla tradizione ebraica applicandoli al profeta galileo.
Inoltre, se i docetisti consideravano Gesù un semplice uomo su cui però lo Spirito di Dio inabitava in modo permanente era perché propendevano per la spiegazione letterale del titolo “figlio dell’uomo” senza vedere in essa alcun recondito significato teologico. Interpretazione che aleggia anche nel vangelo di Giovanni, il quale sembra ritenere Giuseppe il vero padre di Gesù e non un semplice custode del figlio di Dio. D’altronde lo stesso Gesù preferiva per sé questo titolo che, come abbiamo visto, trae più dal profeta Ezechiele che non dai testi di Baruc e Daniele. Da considerare che l’idea di incarnazioni di esseri divini o semidivini è tipica della mentalità pagana mentre per gli ebrei un uomo anche se afferrato dallo Spirito di Dio, come accadde per Mosè, per Giosuè, per i giudici, per i profeti, per il re Davide, resta pur sempre un uomo. Anzi, il re in virtù della sua rappresentanza del popolo verso la divinità era considerato figlio di Dio ma restando pur sempre un uomo, soggetto a tutto quello che è comune alla specie umana. Era naturale, pertanto, considerare Gesù un uomo per quanto straordinario fosse. Per questo nei vangeli troviamo tracce di questa umanità di Gesù perfino nella parentela, cioè nell’elenco dei suoi fratelli e sorelle, con buona pace dei teologi che si affrettano a parlare di cugini distorcendo il significato originale del vocabolo.
Anche la presa di posizione nei confronti della Legge Mosaica sottolinea differenze di atteggiamenti tra Gesù e Paolo: Gesù la relativizza ponendola quale aiuto per l’uomo e non come strumento di oppressione, per Paolo essa è da abolire totalmente in quanto ostacolo all’ingresso dei Gentili nella nuova fede. Per Paolo, infatti, la Legge è come un muro di separazione che divide Ebrei e Gentili impedendo loro di poter stabilire proficui contatti. Sicuramente questa tendenza gli deriva dall’aver viaggiato e dai suoi studi che lo hanno portato ad avere contatti con culture diverse. Secondo il pensiero di Paolo, Cristo con la sua morte ha abbattuto questo muro in modo che Ebrei e Gentili possano convivere nella stessa fede in Gesù Signore[19]. In tal modo le opere del giudaismo non sono più necessarie alla salvezza ma solamente la fede in Cristo. Dalla relativizzazione della Legge Mosaica al rango di pedagogo del Cristo discese l’idea che tutto l’Antico Testamento ne era una semplice prefigurazione.
Come abbiamo visto, Gesù ha nei confronti della Legge un atteggiamento non facilmente definibile: non si oppone ad essa ma neanche si limita a farla osservare. Egli intende andare oltre la lettera per infondere ad essa il giusto spirito di osservanza: “Non pensiate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17). “La solenne dichiarazione indica che per Gesù la legge restava norma fondamentale di condotta… A volte l’attenua fino all’abrogazione di osservanze rituali (Mc 2,23-28; 3,1-6; 7,1-23); a volte inasprisce il rigore di prescrizioni morali (cfr. Mt 5-7)… Davanti al suo pubblico e anche ai suoi discepoli Gesù è costantemente esposto alla febbre messianica e alla tentazione zelota, sempre attento a tracciarsi una linea di demarcazione accurata e sottile tra il religioso e  politico e a sottolineare che il potere romano era instaurato da Dio e verso di esso vi era l’obbligo della fedeltà”[20]. La posizione di Gesù nei confronti dei fermenti sociali del suo tempo e nei confronti della potenza dominante danno origine ad una serie di fraintendimenti da parte di chi lo ascolta e anche da parte dei suoi discepoli. I vangeli spesso riportano i dubbi e le perplessità dei suoi collaboratori. Il fatto, poi, che molti detti di Gesù somigliano in modo sorprendente a insegnamenti rabbinici del tempo può significare che “si tratta di espressioni cronologicamente incerte e attribuite non alla stessa personalità, ma estratte dai ricordi di molte persone; altre volte tali detti si trovano in contesti che ne cambiano il significato e la somiglianza è solo apparente”[21]. È possibile allora che durante la fase di stesura dei vangeli molti detti di Gesù siano stati inseriti in situazioni in cui il Maestro non aveva pronunciato quelle parole. Basta vedere le differenze di contesto tra i vangeli di Matteo e Luca, le diverse redazioni delle Beatitudini, del Sermone della Montagna, della preghiera del Padre Nostro, i diversi elenchi degli apostoli, le diverse arringhe contro i farisei, per avere un qualche esempio.


[1] O. Kuss, Paolo. La funzione dell’apostolo nello sviluppo teologico della Chiesa primitiva. Ed. Paoline, Cisinello Balsamo (MI), 1974.
[2] Paolo, “nella prima lettera ai Corinzi (9,5) dice che i «fratelli del Signore», viaggiando per predicare il vangelo, portavano con sé una donna, probabilmente la moglie. Mi sembri significativo che Paolo accenni all’esistenza di questi fratelli, senza specificare mai in alcun modo che non si tratterebbe di veri figli di Maria. Come già osservato, Paolo non dà grande importanza alla tesi affacciata da Matteo e da Luca, secondo la quale Gesù sarebbe nato miracolosamente da una vergine”. C. Augias, M. Pesce, op. cit. pag. 112. 
[3] Atti cap. 6.
[4] J. Heriban, Inno cristologico (Fil 2,6-11), pp. 381-395.
[5] P. Wendland, La cultura ellenistico-romana nei suoi rapporti con giudaismo e cristianesimo, (Biblioteca di Storia e storiografia dei tempi biblici), Paideia, Brescia 1986, pagg. 243-244.
[6] E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio compartivo su modelli di religione. Paideia, Brescia 1986, pp. 576-588.743-760.
[7] R. Penna, Atteggiamenti di Paolo verso l’Antico Testamento, RivBib 32 (1984) pp. 175-210.
[8] Cfr. Gal 3,15-18: “Fratelli, ecco vi faccio un esempio comune: un testamento legittimo, pur essendo solo un atto umano, nessuno lo dichiara nullo o vi aggiunge qualche cosa. Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: «e ai tuoi discendenti», come se si trattasse di molti, ma e alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo. Ora io dico: un testamento stabilito in precedenza da Dio stesso, non può dichiararlo nullo una legge che è venuta quattrocentotrenta anni dopo, annullando così la promessa. Se infatti l’eredità si ottenesse in base alla legge, non sarebbe più in base alla promessa; Dio invece concesse il suo favore ad Abramo mediante la promessa”.
[9] P. Rossano, Introduzione generale alle lettere di S. Paolo, in Nuovissima versione dai testi originali, Edizioni Paoline, 1977, vol. II, pag. 217.
[10] G. Barbaglio, Paolo di Tarso e le origini cristiane, Cittadella editrice, Assisi 1989, pagg. 241.243.
[11] La signification du Jesus historique pour la theologie de St. Paul in Foi et comprehension, I, Parigi 1970, pp. 211-238.
[12] Cfr. Sal 130,7-8 con Ti 2,14 dove il verbo tradotto “riscattarci” nella versione dei LXX è reso “redimerci” dal greco λυτρώσηται e dal latino” redimeret”, secondo quanto riporta la versione tratta da Novum Testamentum Græce et Latine a cura di A. Merk, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1992.
[13] Cfr. Lev 16,15-19: “Poi immolerà il capro del sacrificio espiatorio, quello per il popolo, e ne porterà il sangue oltre il velo; farà con questo sangue quello che ha fatto con il sangue del giovenco: lo aspergerà sul coperchio e davanti al coperchio. Così farà l’espiazione sul santuario per l’impurità degli Israeliti, per le loro trasgressioni e per tutti i loro peccati… Uscito dunque verso l’altare, che è davanti al Signore, compirà il rito espiatorio per esso, prendendo il sangue del giovenco e il sangue del capro e bagnandone intorno i corni dell’altare…”. 
[14] Cfr. l’inno ai Filippesi, (Fil 2,5-11).
[15] C. Augias, M. Pesce, op. cit., pag. 29.
[16] Lc 24,26-27,32.45; Gv 5,39; 10,35; 17,12.
[17] Mt 28,28.
[18] G. Segalla, La cristologia del Nuovo Testamento, ed. Paideia, Brescia 1985.
[19] Cfr. Lettera ai Galati.
[20] Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, a cura di P. Rossano, G. Ravasi, A. Ghirlanda, ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, voce Giudaismo, pag. 705.
[21] Op. cit., pag. 705.

giovedì 12 aprile 2012

Il paradosso evangelico della lavanda dei piedi.

Il paradosso evangelico della lavanda dei piedi.

Mi ha sempre affascinato il brano evangelico della lavanda dei piedi che Gesù compie verso i suoi discepoli. Affascinato e intimorito, perché se è vero che tale gesto è anche un esempio per i futuri discepoli, esso deve inquietare la mia coscienza addormentata.   Il gesto di Gesù che lava i piedi ha un grande significato e assolve nella trama del quarto evangelo un ruolo molto simile a quello dell’ultima cena nei sinottici: rivelare il senso della Passione imminente e tracciare la strada della futura chiesa nel mondo. Esso appare un vero e proprio segno giovannico, anche se il termine manca in questo episodio. Già la cornice è carica di significato: Gesù compie il gesto in prossimità della Pasqua, durante una cena che possiamo qualificare come cena del Signore, e nella piena consapevolezza della Passione. È una triplice cornice che inquadra non soltanto l’episodio della lavanda dei piedi, ma anche tutti i discorsi che seguono. Si ritiene che fra tutte le pericopi del quarto evangelo questa sia la più discussa. Le varie posizioni degli studiosi possono suddividersi in due categorie: alcuni vedono nel gesto di Gesù una lezione di umiltà, illustrazione concreta del comandamento dell’amore; più numerosi sono quelli che vi vedono una dimensione simbolica e teologica quale l’incarnazione, l’ultima cena e il battesimo.
Nel brano vi è una tensione: i vv. 6-10 sembrano interpretare il gesto di Gesù come una purificazione; i vv. 12-15 insistono invece sull’umiltà e sul servizio. Siamo in presenza di due tradizioni differenti e successive o di due tradizioni omogenee? Alcuni autori qui distinguono due filoni che presentano diverse interpretazioni del gesto. Comunque stiano le cose è possibile che due tradizioni diverse siano state fuse insieme e entrambe gettano luce sul senso del gesto di Gesù. Il brano sembra porre l’accento sul fatto di lavare i piedi, ponendo così in primo piano l’umiltà, l’abbassamento, il servizio. Il brano sembra ricalcare la struttura tripartita in uso presso i rabbini del tempo. Si tratta di un procedimento pedagogico, che consiste nel fare un gesto misterioso, che suscita una domanda che fornisce l’occasione per un insegnamento. Infatti ritroviamo:
-          Il gesto misterioso                         vv. 4-5
-          La domanda del discepolo          v.  6
-          L’insegnamento di Gesù             vv. 12-15
Questa struttura è più rimarcata nella celebrazione della Pasqua ebraica dove il più giovane dei partecipanti doveva porre una domanda che suscitava la spiegazione della celebrazione (cfr. Es 12,15-27).
La lavanda dei piedi resta un gesto insolito: esso avviene non all’ingresso della casa ma durante la cena e lo compie non un servo ma il Maestro. Questo modo di procedere è tipico dell’evangelo di Giovanni, il quale offre letture sovrapposte degli avvenimenti e dei gesti di Gesù. Il gesto è interpretabile su piani differenti; gli interlocutori non comprendono perché restano su un piano carnale; Gesù (o l’evangelista) offre la vera spiegazione del gesto (cfr. il discorso a Nicodemo o la cacciata dei venditori dal tempio).
Il v. 1 introduce non solo l’episodio ma tutta la sezione dei discorsi di commiato. È ricco di temi: la Pasqua, l’ora, la consapevolezza di Gesù, i discepoli, l’amore. Gesù è consapevole dell’imminenza della Passione e sa che la croce rappresenta il passaggio al Padre: non morte ma ascensione. Perché si sottolinea questa duplice consapevolezza di Gesù? Non tanto per mostrare la divinità di Gesù ma per mettere in luce la serietà e la libertà con cui Gesù affronta la morte. Ciò che avviene non è per caso, senza senso: è invece previsto e non distrugge il progetto di Dio. La morte, il tradimento, la sconfitta della croce,la solitudine dei discepoli nel mondo fanno parte del piano di Dio. E Cristo assume tutto questo liberamente.
Il participio aoristo agapésas (avendo amati) e l’indicativo aoristo (li amò) si riferiscono a tutti i gesti compiuti da Gesù verso i suoi discepoli. La grande testimonianza dell’amore di Cristo non è soltanto la lavanda dei piedi ma tutti i gesti e le parole di Gesù. L’amore è la chiave esegetica dei capp. 13-19. Il verbo usato da Giovanni per indicare l’amore è agapàn e non filéin (amore umano), per sottolineare gli aspetti religiosi dell’amore. L’amore di Gesù viene da Dio e si modella su quello di Dio: amore gratuito, totale, immutabile, definitivo. Il luogo per comprendere l’agape non è l’esperienza umana ma l’alleanza di Dio.
Il fatto che Gesù ama i suoi discepoli fino alla fine significa che il suo amore raggiunge il massimo grado; Gesù ama oltre ogni misura. E questo nell’ora suprema, quando gli uomini sono istintivamente preoccupati più di sé che degli altri. Vi è la presenza di un duplice contrasto: da un lato il tradimento di Giuda e la fedeltà di Gesù, dall’altro la consapevolezza di Gesù di essere Kurios e il suo servizio umile. Per questo molti vedono nel gesto della lavanda una simbologia di tutta la vita di Gesù espressa dall’incarnazione: la katàbasis, l’abbassamento, nel senso di Fil 2,5-8. La lavanda dei piedi diventa il segno rivelatore del paradosso dell’incarnazione. Il gesto della lavanda non offusca la gloria di Gesù ma la rivela, come avverrà sulla croce.
L’intervento di Pietro (vv. 6.8.9) denota incomprensione; non è la semplice reazione di chi cerca di sottrarsi ad un gesto di umiltà del Maestro: è l’incomprensione della via messianica (cfr. Mt 16,22; Mc 8,32). Gesù spiega che il gesto verrà compreso in futuro, dopo la sua morte-risurrezione. Si tratta, dunque, di un significato messianico che si apre solo nella fede. Giovanni è certamente nella prospettiva escatologica, anche se per lui la realtà escatologica è già qui.
Gesù ha voluto fare un esempio di umiltà e di amore ai suoi discepoli (vv. 13-14.16-17). Ma Gesù ricorda anche la sua qualità di Maestro e Signore (v. 13). Tutto questo non può essere solo un avvertimento morale, ma una rivelazione. Con il suo gesto Gesù rende visibile la logica di amore, di dono, di servizio che ha guidato tutta la sua esistenza, che esprime la sua dignità e filiazione: è servendo e donandosi che il Cristo si rende disponibile nelle mani del Padre, divenendone l’immagine e la trasparenza. Dio è amore! Oltre che una rivelazione messianica, il gesto di Gesù è una lezione per i discepoli. La comunità cristiana è invitata a intraprendere la strada del servizio, della diaconia. L’autorità della chiesa si rivela, come quella del Cristo, nel servizio.
Ritornando a quanto dicevo all’inizio, il gesto della lavanda manifesta un’esistenza di donazione, un amore ostinato, una condivisione che si fa vita. Per questo continua ad inquietarmi.

lunedì 2 aprile 2012

Interpreazione cristiana ed ebraica delle Scritture

Il significato globale dell’Antico Testamento
nell’interpretazione canonica cristiana ed ebraica.
Introduzione.
Quando si guarda a quella parte della bibbia denominata AT e che per gli ebrei è la Scrittura (sarebbe meglio dire “Lettura” in quanto in ebraico viene chiamata Hammiqrà, dal verbo ebraico qr’ ossia proclamare ad alta voce), potremmo avere delle sensazioni differenti: innanzi tutto pensare al ruolo che nella storia della salvezza ha avuto il popolo che ha prodotto questi testi e del quale si narrano le vicende nei cosiddetti “Libri Storici”, cioè soprattutto quello di preparazione, ben sottolineato dall’uso che gli evangelisti hanno fatto del testo di Is 40,3 “La voce di uno grida: Preparate nel deserto la via del Signore”; l’ultimo epigono di questa preparazione è rappresentato da Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti, cosa che sembra confermata dallo stesso Gesù in Mt 11,13-14: “Poiché tutti i profeti e la legge hanno profetizzato fino a Giovanni. Se lo volete accettare egli è l’Elia che doveva venire”,[1] riferendosi alla profezia finale di Malachia.
In una visione in cui si afferma la superiorità della rivelazione cristiana, si può cadere nel fraintendimento di vedere l’AT come il testo di una religione mal riuscita, in quanto non ha aderito al Verbo incarnato. Oppure, seguendo la corrente gnostica di Marcione, si può vedere l’AT come il libro che descrive le gesta di un Dio sanguinario contrapposto al Padre amorevole rivelatoci in Cristo nel NT. Inoltre, rispetto alla coerenza espressa dai testi del NT (anche se solo apparente), coerenza dovuta all’unico contenuto che è la rivelazione definitiva in Gesù Cristo, si ha l’impressione, guardando all’AT, di una certa confusione: i libri non sembrano distribuiti secondo un ordine logico; vi sono da un lato libri storici disomogenei tra loro, che non coprono tutto l’arco di storia prima di Gesù, che lasciano dei vuoti riguardo ad epoche nevralgiche della storia del postesilio. Vi sono anche dei racconti, che sono collocabili a stento in un’epoca precisa, come il libro di Ester. Anche i profeti, sebbene raccolti insieme, danno l’impressione di un disordine interno: oracoli contro le nazioni che si mischiano ad oracoli contro il popolo, messaggi di speranza giustapposti a condanne inappellabili, profezie chiaramente messianiche mischiate a testi del tutto incomprensibili. Infine, tra gli storici e i profeti sono inseriti quei libri che non sapremmo come classificare: sapienziali? Liturgici? Poetici? Addirittura c’è qualche libro, come il Cantico dei Cantici, che ha un argomento ritenuto poco decente da una morale classica, salvato solo perché interpretato allegoricamente: di Dio non se ne parla affatto in esso. La filosofia dell’Ecclesiate (o Qoelet nelle bibbie cattoliche) sembra simile a quella degli epicurei, totalmente disinteressato com’è di risolvere i problemi teologici e che sembra vedere il massimo della felicità in una vita edonistica. Vi sono testi che contengono autentiche sfide contro Dio, come quello di Giobbe, libro che dà l’impressione di essere stato aggiustato alla meglio con una conclusione posticcia per inserirlo nella bibbia.
Che rapporto hanno tutti questi testi con il Dio di Gesù Cristo? dovremo dire come Paolo nella lettera ai Galati (3,23), che fino a quando rimaniamo nell’AT siamo come bambini che hanno bisogno di divenire adulti con la rivelazione di Gesù? Ma allora la religione ebraica, che continua a sopravvivere nonostante tutti i tentativi aberranti di cancellarla, è una religione per bambini? In sintesi, l’AT ha una sua autonomia e dignità a prescindere dal NT, o esiste solo in funzione del NT, sia che lo si veda come premessa e promessa sia che lo si veda come antitesi o lontana ombra, per citare di nuovo Paolo (2Cor 3,1-8)?
La tradizione cristiana reinterpreta l’AT.
Per una chiara comprensione del problema occorre stabilire una prima cosa: tra l’AT della tradizione cristiana, ereditata attraverso la Vulgata dai LXX ossia la traduzione greca della bibbia, e la Scrittura ebraica vi è una differenza nell’ordine dei libri (la chiesa cattolica ha  anche una differenza quantitativa perché inserisce alcuni libri detti deuterocanonici che le bibbie protestanti respingono). La questione dell’ordine dei libri non è secondaria in quanto i libri dell’AT non sono posti a caso ma seguono un preciso disegno, diverso per ogni tradizione religiosa. La differenza tra ebrei e cristiani per quanto riguarda la Scrittura non è solo nella quantità di libri o nell’aggiunta del NT, ma nella comprensione stessa che si ha dei vari libri, disposti in un ordine che faccia capire il tutto e non solo le singole parti. Dunque sono legittime entrambe le interpretazioni e si farebbe torto agli autori neotestamentari e a Gesù stesso se non si prendesse in considerazione la lettura che l’ebraismo dà della Scrittura. Bisogna avere una nuova comprensione dell’AT inteso non come prefazione dell’evento Cristo né come biblioteca ma come un tutto che ha un significato e un messaggio proprio in quanto totalità.
Nelle bibbie cristiane l’AT viene diviso in quattro parti (sarebbe più logico una divisione in tre parti, considerando il Pentateuco e i Libri Storici come un unico racconto): Pentateuco, Libri Storici, Libri Poetici e Libri Profetici. Dietro questa divisione vi è l’influsso della Scrittura ebraica, a sua volta divisa in tre parti. In realtà tale divisione è completamente artificiosa in quanto nella tradizione cristiana non si faceva una distinzione del genere. Il concetto che ha caratterizzato l’interpretazione della Scrittura nel cristianesimo è quello di “Storia della salvezza” che parte dalla creazione e dalla caduta dei progenitori, ha come centro l’incarnazione redentrice del Verbo ed ha come compimento la parusia. In questa ottica abbiamo un unico svolgimento degli eventi in cui dopo un inizio promettente (la creazione, la custodia del giardino: Ge 1-2) insorge il problema da risolvere, cioè la caduta dovuta alla disobbedienza da parte della prima coppia (Ge 3). Tutto l’AT è interpretato alla luce di questa caduta e della necessità che ci sia qualcuno che venga a redimere, cioè Gesù Cristo, che non è da vedersi tanto come il Messia atteso da Israele quanto come il Salvatore universale. In tale ottica la liberazione di Israele, come la figura del messia regale, assume una connotazione di metafora del vero liberatore, che è colui che deve riportare allo stato primigenio della prima comunione con Dio. Avviene in questo modo una vera inversione di significati: il racconto della cacciata dal paradiso era nella mente dello scrittore ebreo una metafora che anticipava la catastrofe dell’esilio; per l’interpretazione cristiana, invece, il ritorno dall’esilio annunciato dai profeti diventa metafora del ritorno dell’umanità esiliata dal paradiso ad opera di Gesù Cristo.  
Con questa chiave interpretativa tutto l’AT, e non solo una parte di esso, diviene profezia della venuta di Cristo, a cominciare dal Ge 3, non a caso chiamato “Protovangelo” ossia il primo annuncio della salvezza proclamata da Dio stesso quando maledice il serpente: “Io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la progenie di lei; questa progenie ti schiaccerà il capo e tu le ferirai il calcagno” (Ge 3,15). La conferma di questo modo di interpretare l’AT ci viene dal NT stesso, nel brano citato sopra (cfr Mt 11,13-14). Altri testi in questa direzione sono Lc 24,27 dove Gesù spiega Mosè ed i Profeti per indicare che il Figlio dell’uomo doveva soffrire. Così Filippo dice a Natanaele che Gesù è colui del quale hanno scritto Mosè ed i profeti (Gv 1,45).
Per meglio comprendere bisogna guardare anche alla conclusione dell’AT cristiano: esso termina con il libro di Malachia, dove si legge in 4,5-6: “Ecco, io vi mando il profeta Elia, prima che venga il giorno del Signore, giorno grande e terribile. Egli volgerà il cuore dei padri verso i figli, e il cuore dei figli verso i padri, perché io non debba venire a colpire il paese di sterminio”. Queste sono le esatte parole riprese da Luca all’inizio del suo Evangelo, quando l’angelo Gabriele annuncia a Zaccaria la nascita del Battista che dovrà preparare definitivamente la venuta del Signore in Gesù Cristo (Lc 1,17).  Tra la prima profezia fatta da Dio stesso in Ge 3 e l’ultima fatta per bocca di Malachia, vi sono tute le altre profezie sparse nell’AT. Queste profezie non si trovano solo nei Libri Profetici ma anche negli altri. In Nm 24,17 vi è la profezia di Balaam: “Lo vedo, ma non ora; lo contemplo, ma non vicino; un astro sorge da Giacobbe, e uno scettro si eleva da Israele”. In Dt 18,18 Mosè dice: “Io [il Signore] farò sorgere per loro un profeta come te in mezzo ai loro fratelli, e metterò le mie parole nella sua bocca ed egli dirà loro tutto quello che io gli comanderò”. In 2Sam 7,12 Samuele dice a Davide, a nome di Dio: “Io innalzerò al trono dopo di te la tua discendenza, il figlio che sarà uscito da te, e stabilirò saldamente il suo regno”. C’è poi l’intero Salmo 22 e infine Gb 19,25 “Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere”. Per non citare i tanti testi provenienti dai Salmi regali. Tutto questo ci mostra come il confine tra libri profetici propriamente detti e gli altri è molto labile. Non a caso alcuni Padri definiscono Giobbe e Davide profeti. Si può obiettare che nella bibbia il profeta non è in realtà chi annuncia il futuro ma chi parla al posto di Dio. Ed è esattamente questo il significato nel mondo semitico ma non nell’interpretazione cristiana tradizionale, dove il profeta è proprio chi annuncia il futuro ma non un futuro qualsiasi bensì quello qualitativamente determinante per la salvezza: la venuta di Gesù come salvatore; l’annuncio di quello che l’evangelo di Marco chiama kairòs, il tempo opportuno.
Il contributo dell’apostolo Paolo.
A questa lettura dell’AT non si è giunti arbitrariamente ma grazie a ciò che Paolo ha esposto nella lettera ai Romani, a proposito dei due Adami: attraverso il primo è entrato nel mondo il peccato e la morte, attraverso il secondo la vita (Rm 5). Perché l’AT diventa un’unica profezia non del messia (che diventa metafora) ma del redentore? L’interesse di Paolo è giustificare la predicazione di Cristo ai pagani, i quali non rientrano propriamente nella promessa di Abramo, né nel popolo dell’alleanza stipulata da Mosè; dove fondare la necessità che anch’essi ricevano l’annuncio? Non in quanto destinatari della promessa del messia, ma in quanto destinatari della promessa contenuta nella Genesi: in Adamo ed Eva non solo un popolo è presente ma tutta l’umanità. Possiamo dire che nella necessità teologica espressa da Paolo che tutti si salvino in Gesù è fondata l’interpretazione profetica di tutto l’AT, a partire dai primissimi capitoli. Fin dall’inizio era necessario non tanto un messia, figura troppo nazionale, ma un salvatore.
La Bibbia Ebraica.
Fatte queste opportune premesse, è possibile ora analizzare com’è disposta la Scrittura ebraica. Un altro nome per indicare la bibbia è TaNaK, un acronimo, costituito dalle iniziali dei nomi delle tre parti di cui è composta la bibbia bbraica e cioè Toràh, Nebiim e Ketubim: Legge, Profeti e Scritti. Mentre nella bibbia cristiana le divisioni sono artificiose e posticce (in quanto l’unica divisione tradizionale è quella tra AT e NT con un significato basato sul binomio promessa/compimento), nella Scrittura ebraica tale divisione è consacrata dalla tradizione ed è avallata dalla disposizione stessa, non casuale, dei libri all’interno delle singole parti.
Innanzitutto la Toràh, che contiene i libri attribuiti a Mosè e che corrisponde esattamente ai primi cinque libri della bibbia cristiana. Seguono poi i Profeti (Nebiim), divisi convenzionalmente in Anteriori e Posteriori, comprendente alcuni dei nostri libri storici (Giosuè, Giudici, 1-2 Samuele, 1-2 Re) e quasi tutti i nostri profeti (Isaia, Geremia, Ezechiele, Libro dei 12 Profeti Minori: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo Zaccaria, Malachia). La collocazione dei libri cosiddetti storici tra i profeti è dovuta essenzialmente al fatto che sono attribuiti a persone ritenute profeti dalla tradizione giudaica: Samuele, al quale si attribuiscono Giosuè, Giudici e 1-2 Samuele e Geremia, a cui si attribuiscono i libri dei Re. infine gli Scritti (Ketubim), o meglio, gli scritti rimanenti, quelli cioè che non sono entrati nel gruppo della Legge e dei Profeti. In questa sezione troviamo materiale di diverso tipo, da quello narrativo al poetico, al profetico, al sapienziale. Vi sono i Libri dei Salmi, di Giobbe, dei Proverbi, i cinque rotoli o Meghillot (libri che si leggono in alcune ricorrenze[2]), Daniele, Esdra, Neemia, 1-2 Cronache. Sono ovviamente esclusi i deuterocanonici.
Una cosa molto importante da sottolineare è che non tutte le parti del TaNaK sono sullo stesso piano, ma vi è un rapporto di dipendenza delle ultime parti dalla prima, vi è una sorta di gerarchia all’interno dei testi biblici che non hanno (e non avevano ai tempi di Gesù) lo stesso grado di normatività. I criteri non sono di antichità ma di qualità della rivelazione: nella Toràh vi è un grado di rivelazione e di impegno enormemente superiore rispetto ai Profeti e agli Scritti. Ai tempi di Gesù, infatti, era possibile che convivessero gruppi religiosi, come i sadducei e i farisei, dei quali i primi riconoscevano solo l’ispirazione della Legge, i secondi (che certamente hanno influito nella formazione del canone cristiano) che invece accettavano altri testi, ritenuti importanti per capire meglio la Legge di Mosè. La questione era sempre una: come interpretare e attualizzare la Legge nel proprio contesto. Per i farisei alcune forme di interpretazione erano normative, dunque sacre.
L’interpretazione ebraica della Bibbia.
Tra le varie parti del canone ebraico vi sono delle relazioni e dei rimandi. Prima di tutto, però, occorre osservare la totalità della bibbia: essa inizia con la Legge di Mosè e termina con il II Libro delle Cronache: perché? In realtà i libri di Esdra e Neemia raccontano eventi successivi all’editto di Ciro, col quale si conclude il II Libro delle Cronache e probabilmente appartengono allo stesso redattore, il cosiddetto “Cronista”. Eppure nella bibbia ebraica vengono conservati in ordine inverso: probabilmente proprio per il contenuto dell’editto di Ciro: “Così dice Ciro, re di Persia: Il Signore, Dio dei cieli, mi ha dato tutti i regni della terra, ed egli mi ha comandato di costruirgli una casa a Gerusalemme, che si trova in Giuda. Chiunque fra voi è del suo popolo, sia il Signore, il suo Dio, con lui, e parta!”. In realtà il verbo originale ‘lh significa salire (e non partire) ed è il verbo tipico del pellegrinaggio al Tempio (anche Gesù parla di un salire a Gerusalemme) ed è anche uno dei verbi usati nell’Esodo per parlare del viaggio verso la terra promessa.
Chiaramente vi è qui una prima distinzione tra il canone ebraico e quello cristiano e ciò contribuisce a orientare una diversa interpretazione: il canone cristiano è aperto alla venuta futura del Messia, annunciato già dalla Genesi e fino a Malachia. Il canone ebraico ci manda a Gerusalemme, la terra santa e il Tempio; non vi è nessuna sottolineatura messianica, ma piuttosto l’invito a realizzare quello che è l’augurio che ogni anno gli ebrei si scambiano a pasqua: “il prossimo anno a Gerusalemme”. Non si tratta di apertura ad un futuro escatologico ma piuttosto un invito verso una direzione concreta, così realizzabile che il mito della Gerusalemme capitale indivisibile tuttora ha dei risvolti sul piano politico mondiale.
L’ebraismo, dunque, non è un cristianesimo mancato ma piuttosto un esito diverso a partire dallo stesso materiale avuto a disposizione da diversi gruppi religiosi dell’ebraismo del secondo Tempio, quello dei tempi di Gesù e di Paolo, gruppi tra i quali alcuni sono scomparsi ed altri hanno posto le basi per il cristianesimo, altri ancora hanno continuato un tipo di lettura della Legge di Mosè che ha portato all’ebraismo attuale.
Che relazione intercorre tra le singole parti del canone ebraico, considerato il loro diverso grado di normatività? Partiamo dalla conclusione della parte più importante: la Toràh, attribuita dalla tradizione a Mosè, il quale avrebbe descritto, secondo la tradizione rabbinica, la sua morte in maniera profetica. Il testo, infatti, si conclude proprio con la morte di Mosè (Dt 34,1-2). Di lui il testo conclusivo della Legge dice cose molto importanti, che fanno emergere il ruolo unico che Mosè ha avuto nella rivelazione biblica: “Non c’è mai più stato in Israele un profeta simile a Mosè, con il quale il Signore abbia trattato faccia a faccia. Nessuno è stato simile a lui in tutti quei segni e miracoli che Dio lo mandò a fare nel paese d’Egitto contro il faraone, contro tutti i suoi servi e contro tutto il suo paese; né simile a lui in quegli atti potenti e in tutte quelle grandi cose tremende che Mosè fece davanti agli occhi di tutto Israele” (Dt 34, 10-12). Il testo non è solo un elogio di Mosè ma ci dice anche qualcosa sul posto che il suo libro, la Legge, ha nel canone ebraico: la rivelazione di Mosè non si può paragonare a nessun’altra rivelazione data per mezzo dei profeti, perché Mosè ha un rapporto particolare con Dio (lo vede faccia a faccia) ed è uno strumento privilegiato nella lotta di liberazione dall’Egitto. La relazione di Mosè con Dio e l’evento dell’Esodo sono eventi unici nella storia, per cui anche i libri che ne parlano acquistano un carattere di unicità. Mosè, non Abramo, né Giosuè, né Davide, né altri sono i fondatori di Israele e Israele non è il popolo della terra ma il popolo dell’Esodo: Israele esiste già quando non è ancora indipendente in una terra ed esisterà anche quando perderà il possesso della Terra. Tuttavia la vicenda dell’Esodo ha uno scopo, la terra, che però rimane fuori dai testi più importanti, come una conquista a cui tendere continuamente nella storia. L’esodo è un dato fondamentale per la fede di Israele, il possesso della terra no e Israele non ha mai attribuito la colpa a Dio per la sua perdita, bensì ai suoi tradimenti (di ciò testimoniano abbondantemente i profeti).
L’importanza della Legge rispetto al resto della bibbia lo si può notare anche guardando direttamente alle altre parti. Se osserviamo l’inizio e la fine dei Libri Profetici, notiamo che essi costituiscono una grande inclusione, fenomeno tipico della letteratura biblica. Il primo dei profeti, Giosuè, al primo capitolo afferma che questo aiutante di Mosè non riceve il titolo di Servo di Dio, come Mosè: ha un grado inferiore di importanza; non continua l’opera di Mosè come suo successore nel carisma di legislatore, ma porta solo a compimento l’opera di Mosè introducendo il popolo nella terra promessa. Tra le raccomandazioni che Dio fa a Giosuè ve ne è una molto interessante: “Solo sii molto forte e coraggioso; abbi cura di mettere in pratica tutta la legge che Mosè, mio servo, ti ha data; non te ne sviare né a destra né a sinistra, affinché tu prosperi dovunque andrai. Questo libro della legge non si allontani mai dalla tua bocca, ma meditalo, giorno e notte; abbi cura di mettere in pratica tutto ciò che vi è scritto; poiché allora riuscirai in tutte le tue imprese, allora prospererai” (Gs 1,7-8). La Legge è stata affidata da Mosè a Giosuè e non da Dio stesso: Mosè verso Giosuè conserva un ruolo di mediatore. Tale testo costituisce la chiave di interpretazione di tutto ciò che segue: Israele sarà felice se obbedirà alla Legge. Si allude qui ad un libro scritto, che altri non è che la Toràh. Tutta la storia di Israele fino all’esilio è misurata con questo metro.
Alla conclusione del Libro dei Profeti incontriamo il libro di Malachia, il profeta che nella bibbia cristiana chiude tutto l’AT. Prima dell’accenno ad Elia e alla venuta del Signore, Malachia fa un’altra affermazione importante: “Ricordatevi della legge di Mosè, mio servo, al quale io diedi sull’Oreb leggi e precetti, per tutto Israele” (Mal 4,4). La conclusione dei Profeti ci rimanda nuovamente alla Legge, che deve essere tenuta a mente, ricordata. La funzione dei profeti, infatti, è proprio quella di rammentare, richiamate alla fedeltà a Dio attraverso la sua Legge. In un altro passo, in 2Re 17,13, si legge: “Eppure il Signore aveva avvertito Israele e Giuda per mezzo di tutti i profeti e di tutti i veggenti, dicendo: Convertitevi dalle vostre vie malvagie, e osservate i miei comandamenti e i miei precetti, seguendo in tutto la legge che io prescrissi ai vostri padri, e che ho mandata a voi per mezzo dei miei servi, i profeti”. In tale ottica i profeti sono più rivolti al passato che al futuro, non sono gli annunciatori del tempo messianico, anche se non mancano oracoli di tal genere; essi sono soprattutto i custodi e gli interpreti della Legge di Mosè per i loro contemporanei: più che a una nuova religione, essi vogliono riportare all’amore di prima. Anche la profezia di Ger 31 non parla di una nuova legge ma di una nuova alleanza, con la quale Dio scrive la sua Legge nel cuore del popolo.
Anche gli Scritti hanno una relazione con la Legge. All’inizio di questa sezione abbiamo una “prefazione” che ne indica il legame con la Legge. Nel Salmo 1 si legge: “Beato l’uomo che non cammina secondo il consiglio degli empi, che non si ferma nella via dei peccatori; né si siede in compagnia degli schernitori; ma il cui diletto è nella legge del Signore, e su quella legge medita giorno e notte” (vv. 1-2). Tale inizio richiama il discorso di Dio a Giosuè. La funzione degli Scritti non è di aggiungere qualcosa alla Legge ma di meditare, approfondire, il contenuto della Legge. La fine degli Scritti apparentemente sembra non  rimandare alla Legge, anche se in Ne 8 (che cronologicamente viene dopo le Cronache) vi è la lettura pubblica della Legge. Tuttavia è importante per la struttura globale del canone ebraico che alla fine non ci sia l’accenno alla Legge ma il frutto della fedeltà alla Legge: il dono della terra.
Apertura verso il NT della bibbia ebraica.
È qui, infatti, che si può inserire la speranza messianica che ci apre al NT. In effetti la Bibbia ebraica, sia nella sua totalità che nelle sue parti, ha una struttura aperta al futuro: alla fine della legge Mosè contempla la terra ma non vi entra e neppure il popolo. Giosuè introduce nella terra ma questa verrà persa con l’Esilio. La venuta del Signore in Malachia è preceduta da Elia, perché deve riportare il popolo alla fedeltà altrimenti il Signore colpirà la terra con lo sterminio. Alla fine degli Scritti, Ciro invita a tornare alla terra per ricostruire il Tempio. L’AT, anche nel canone ebraico, è una sinfonia incompiuta: attende qualcos’altro. Quando il popolo tornerà alla sua terra e il Tempio sarà ricostruito? Qui si inserisce la speranza messianica: il fine di tornare alla terra è quello di essere indipendenti e si ha bisogno di un capo che rappresenti Dio, come Davide. Questa non è una conseguenza necessaria del canone ebraico, ma il NT prende atto di tale speranza. Esso non è un nuovo inizio ma ha il sapore di compimento; è l’interpretazione più autorevole perché definitiva. Gesù stesso dice “Non pensate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento” (Mt 5,17). In che modo il NT è compimento dell’AT? Abbiamo visto come Profeti e Scritti siano direttamente collegati con la Legge e non vi sia un passaggio intermedio tra legge e scritti tramite i profeti, ma ciascuna parte è collegata con quella principale. Nell’interpretazione ebraica la Legge è al centro tra i Profeti e gli Scritti: essa da il significato a tutto il resto, che esiste solo in funzione di una maggior comprensione della Legge. In un certo senso, tenendo presente il canone ebraico, il NT rimanda direttamente a Mosè e alla sua Legge: questa è l’interpretazione di due evangeli molto giudaici come Matteo (per il quale Gesù è il nuovo Mosè, quello definitivo, il compimento) e Giovanni (per il quale Gesù è la vera Legge, intesa come rivelazione di Dio). Nell’ottica del compimento inaugurato da Gesù la terra diventa il “Regno dei cieli”.
Gesù reinterpreta i dati dell’AT ma rimane in continuità con essi. Simbolicamente la sua apparizione pubblica avviene dove Mosè ha passato il testimone a Giosuè: sulle rive del Giordano. Il nome di Giosuè e di Gesù hanno lo stesso significato: “Dio salva”. La vita e la predicazione di Gesù si innesta, dunque, su tale speranza definitiva e da una risposta definitiva con la sua vittoria sulla morte e l’ingresso nella vera terra: il seno del Padre. La linea di interpretazione di Gesù è in continuità con l’universo concettuale ebraico e diverge dalla posizione di Paolo, che interpreterà l’opera di Gesù sullo sfondo della colpa originale. Le due direzioni non si oppongono, ma hanno una funzione diversa: Paolo sin rivolge ai pagani, i quali sono tutti presenti in Adamo; Gesù si rivolge agli ebrei, che attendono la liberazione definitiva dai nemici e solo attraverso di essi, anche ai non ebrei.
Anche il NT ha una struttura aperta al futuro, sia in rapporto con l’interpretazione cristiana che ebraica dell’AT. Gli evangeli si concludono con l’invio in missione e l’Apocalisse termina con il grido “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20). La chiesa non è il regno di Dio e il Signore deve ancora definitivamente venire: ci sarà sempre bisogno di Elia e del battista, di profeti che preparino la sua venuta, convertendo alla solidarietà e alla fratellanza uomini e donne. Ma anche nell’ottica ebraica vi è un significato ulteriore: la visione della Nuova Gerusalemme dell’Apocalisse, che scende dal cielo, collega la conclusione del NT con quella dell’AT, con l’editto di Ciro che invita a salire a Gerusalemme.
Da questo punto di vista il dialogo tra ebraismo e cristianesimo può fondarsi su elementi comuni: non sul concetto di redenzione, bensì sulla tensione verso un compimento, una terra a cui giungere, dono e promessa di Dio. Ci sono stati tramandati dei libri che non vanno interpretati come monadi, che servono solo di edificazione per la nostra vita spirituale di singoli credenti e di chiese ma ci è stato tramandato un tutto che è  qualcosa di più delle singole parti. Ogni volta che ci accostiamo ad un singolo testo biblico, sia esso dell’AT che del NT, non bisogna dimenticare questo ampio contesto che è l’intera Scrittura, le cui parti si illuminano a vicenda.


[1] Tutte le citazioni, salvo diversa indicazione, sono tratte dalla Versione Nuova Riveduta della Bibbia, edita dalla Società Biblica Britannica & Forestiera, 1994.
[2] Il Cantico dei Cantici a Pasqua, Rut a Pentecoste o Shavuot (Settimane), Lamentazioni il 9 di Av (la distruzione del Tempio), Qohelet nella festa delle Capanne, Ester nei Purim.