venerdì 24 febbraio 2012

Sermone sullo Spirito Santo

Sermone sullo Spirito Santo

C'era tra i farisei un uomo chiamato Nicodemo, uno dei capi dei Giudei. Egli venne di notte da Gesù, e gli disse: «Rabbì, noi sappiamo che tu sei un dottore venuto da Dio; perché nessuno può fare questi miracoli che tu fai, se Dio non è con lui». Gesù gli rispose: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo non può vedere il regno di Dio». Nicodemo gli disse: «Come può un uomo nascere quando è già vecchio? Può egli entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e nascere?» Gesù rispose: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato d'acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne, è carne; e quello che è nato dallo Spirito, è spirito. Non ti meravigliare se ti ho detto: "Bisogna che nasciate di nuovo". Il vento soffia dove vuole, e tu ne odi il rumore, ma non sai né da dove viene né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,1-8).
Se si raccolgono dai vari settori del NT, epistolario paolinico e giovanneo, sinottici e Atti i dati concernenti lo Spirito Santo, si può affermare che la teologia dello Spirito è teologia della presenza divina.  L’evangelo di Matteo sembra condensare tutto l’evento Cristo  in una sola parola: Emmanuele, Dio-con-noi. Gesù è venuto, ha parlato, ha agito, è stato crocifisso, è risorto, è asceso al cielo. Tutto l’evangelo predica un dato incontrovertibile: Gesù in mezzo a noi, condensato dall’enunciato biblico “Verbum caro factum est”.
La difficoltà comincia quando Gesù Risorto torna alla destra del Padre. Come può il Maestro garantire ora la sua presenza in mezzo ai discepoli? Eppure egli, o la chiesa primitiva ha compreso così, ha promesso che sarebbe restato con loro, e dunque con noi, tutti i tempi fino alla fine del mondo: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente”. Come può questa promessa adempiersi? Il cristianesimo non è un memoriale di eventi passati, noi non siamo i custodi di un museo teologico, ma i testimoni di un Risorto sempre operante nel mondo e in mezzo a noi, i testimoni di una presenza reale e concreta che si dispiega nel tempo a partire da quell’evento accaduto più di due  millenni fa. 
Chiunque scorra il NT troverà che vi sono due ordini di promesse; da una parte la promessa che il Signore non ci avrebbe mai abbandonato contenuta in Gv 14,18-19 Non vi lascerò orfani; tornerò da voi. Ancora un po', e il mondo non mi vedrà più; ma voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete”. D’altra parte vi è una promessa che sembra avere un contenuto diverso: si parla infatti di un’altra presenza che Gesù chiama il Consolatore “E io pregherò il Padre, ed Egli vi darà un altro consolatore, perché stia con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché dimora con voi, e sarà in voi”. E ancora: “Ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto”.
Chi è mai questo Spirito, che due scrittori dei primi secoli del cristianesimo hanno definito Vicarius Christi? Forse un indizio può fornircelo Paolo in un a sua epistola quando dice “Il Signore è lo Spirito” (2Cor 3,17). Qui non si tratta di identificazione tra il Cristo risorto e lo Spirito, quasi una sorta di modalismo, l’eresia che intendeva le tre persone divine solo un’apparenza dell’unico Dio. Qui si intende dire che lo Spirito rappresenta la forma attuale della presenza del Risorto in mezzo a noi: Cristo assente nel corpo è presente per mezzo dello Spirito Santo. Il NT per designare tale presenza una il termine παρουσία, che molti teologi hanno relegato ad un futuro lontano e mitico ma che per la testimonianza evangelica significa una presenza costante di Cristo nella storia dei suoi discepoli.
Non si tratta di un sostituto del Risorto; si tratta del Signore stesso, che è in mezzo a noi, credenti e non, che nella nostra storia attua la sua storia. Ha scritto un grande teologo, Karl Barth “Dio non è stato potente soltanto nelle antiche età e non lo diventerà soltanto nell’ultimo adempimento della sua promessa: lo è già qui ed ora nella promessa del suo Spirito: in essa è egli stesso presente e all’opera ieri come oggi e domani”.
Un teologo medievale ritenuto eretico dalla chiesa cattolica, Gioacchino da Fiore, divise le età in tre tempi: il tempo del Padre (ossia l’AT), il tempo del Figlio (ossia il NT), e il tempo dello Spirito (ossia il tempo della chiesa). Con le opportune differenze possiamo fare nostra questa classificazione; noi però crediamo che il tempo della chiesa cominci già dalle pagine dell’evangelo perché lo Spirito ci rende contemporanei di Cristo. Ogni  nostra giornata è una giornata di Gesù Cristo, una giornata del suo agire, del suo parlare. Se i nostri occhi sono aperti su altre realtà, ascoltano altre parole, cercano altre presenze (sociali, politiche, economiche), è perché assumiamo in noi l’atteggiamento di Pietro che invece di fissare lo sguardo su Gesù guardava preoccupato le onde che lo soverchiavano (cfr Mt 14,24-33). 
L’immagine del vento esprime con esattezza la presenza dello Spirito: presenza reale, come quella del vento, ma, come il vento, è qualcosa che non si può vedere, che non si può afferrare e di cui son si può disporre. Come il vento, lo Spirito si può sentire e se ne percepiscono gli effetti ma non può essere imbrigliato o costretto né posseduto come un deposito. Esso è libero; potremmo dire che lo Spirito costituisce la libertà di Dio. La stessa difficoltà a parlarne riflette la sua sovrana libertà che rifiuta perfino una costrizione verbale.  
Dopo la risurrezione di Gesù la terra non è rimasta orfana di Dio, il Signore è presente nel suo Spirito, ma questa presenza non è più quella contraddittoria della sua vita storica; oggi è il tempo della primizia non della raccolta, il tempo della fede non della visione, il tempo della confessione non del possesso, il tempo della speranza non dell’evidenza, è il tempo dell’annuncio non del compimento. Questo significa che è il tempo in cui i credenti siano il sale della terra e la luce del mondo per testimoniare che Dio è presente nei suoi fedeli e nella storia dei credenti, dunque anche nella TUA storia. Dunque tu non sei indifferente nel progresso della verità ma la tua fede e la tua opera accrescono il bene che i credenti possono fare sapendo che possiamo solo ripetere una antica preghiera cristiana: Veni, Sancte Spiritus…


Noi speravamo: una rilettura dei discepoli di Emmaus

Noi speravamo: la via per Emmaus (Lc 24,13-35).


Come prima cosa occorre considerare quello che succedeva all’interno degli eventi descritti da Luca. È il pomeriggio del primo giorno di Pasqua. La mattina è accaduto ogni genere di strane cose e i discepoli non hanno ancora la più vaga idea di quello che è successo. Due di loro si mettono in cammino per tornare ad Emmaus. Vengono raggiunti da un misterioso forestiero che li coinvolge in una conversazione sugli ultimi avvenimenti. Per comprendere storicamente questa sezione è importante cogliere il punto centrale, presentato dal v. 21: “Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele” dicono i due.
Da dove venivano i due discepoli? E qual’era il loro problema? La loro comprensione degli avvenimenti era condizionata dalla loro conoscenza della storia di Israele. Questa storia si costruiva attorno a precedenti storici, promesse profetiche, cantici dei salmi. L’Esodo ne era lo scenario. Le ulteriori liberazioni del popolo  ebraico da varie potenze straniere compiute da Dio costituivano successivi strati narrativi che mostravano tutti la stessa cosa: quando l’oppressione pagana giungeva al culmine, Dio interveniva per liberare Israele. “Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me? Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora; egli è il mio salvatore e il mio Dio”.
La maggior parte degli ebrei del primo secolo credeva che l’esilio non fosse realmente finito. Le grandi promesse profetiche non erano state adempiute. Israele aveva ancora bisogno di redenzione; la storia dell’Esodo si stava ripetendo. L’Esodo era il grande momento del patto; ciò di cui avevano bisogno in quel momento era il rinnovamento del patto. “Fammi giustizia, o Dio, difendi la mia causa contro gente malvagia; liberami dall’uomo falso e malvagio… Manda la tua luce e la tua verità, perché mi guidino…”.
Le   Scritture ebraiche offrivano a Gesù ed ai suoi contemporanei un racconto in cerca di finale. I seguaci di Gesù avevano pensato che il finale stesse per accadere con lui. Chiaramente non era stato così. Come pensavano che sarebbe accaduto? Il modello dei movimenti  messianici e profetici nei secoli precedenti e successivi a Gesù narra un racconto alquanto chiaro. Il metodo era semplicissimo: santità, zelo verso Dio e la Legge, rivolta militare. il resto dei santi, con Dio al loro fianco, avrebbe sconfitto le orde pagane. Così era sempre stato nelle Scritture; così, essi credevano, sarebbe stato quando fosse giunto il momento culminante dell’oppressione di Israele. Facevano quello che il Salmo diceva loro: “Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora; egli è il mio salvatore e il mio Dio”.
La crocifissione di Gesù era, pertanto, la rovina completa delle loro speranze. La crocifissione era ciò che accadeva a chi pensava di liberare Israele e scopriva, troppo tardi, di sbagliarsi. Agli ebrei del primo secolo la crocifissione di un messia non diceva che questi era il vero messia e che il regno era giunto; diceva esattamente l’opposto: che non era il messia e che il regno non era giunto. Significava che Dio non aveva ancora perdonato il suo popolo e che i pagani continuavano a governare il mondo. Per comprendere Lc 24 bisogna tenere tutto ciò a mente.
Ciò spiega perché i due discepoli discutessero con tanta foga. Avevano intrapresi un cammino che pensavano conducesse alla libertà, e si era rivelato una delusione. Come spiegavano al misterioso forestiero, tutti i segni erano corretti: Gesù era realmente stato un profeta potente in opere e parole; Dio era stato con lui e il popolo gli aveva dato la sua approvazione. Senza dubbio sembrava la persona attraverso la quale Dio avrebbe operato la sua liberazione. Come avevano potuto ingannarsi, come dimostrava la sua esecuzione? A gettare ancora più confusione vi erano strani racconti di tombe vuote e visioni di angeli. Ciò non aveva niente a che fare con quanto sperato. Questo enigma si aggiungeva alla loro profonda delusione. I due discepoli si sentivano tristi, abbandonati, forse persino arrabbiati “Dirò a Dio , mio difensore: Perché mi hai abbandonato? Perché devo andare vestito a lutto per l’oppressione del nemico?”.
La risposta del forestiero è quella di narrare in modo diverso il racconto e mostrare che al’interno dei precedenti storici vi è un modello costante rispetto a quello che loro avevano creduto. In Egitto le sofferenze di Israele erano aumentate fino al punto estremo, dopodiché vi era stata la redenzione. Gli Assiri avevano invaso il paese e accerchiato Gerusalemme; quando furono sul punto di conquistare la città, si ritirarono sconfitti. Quando Israele è abbattuta e si aggira vestita a lutto, Dio agisce e la libera. E anche se Babilonia era riuscita laddove l’Assiria aveva fallito per poi essere seguita da altre nazioni pagane, i profeti indicavano le tenebre dichiarando che sarebbe stato attraverso di esse che sarebbe giunta la redenzione. In qualche modo i disegni salvifici di Dio per Israele, e tramite esso per tutta l’umanità, sarebbero stati compiuti attraverso la più intensa sofferenza; in tal modo l’esilio si sarebbe concluso, i peccati sarebbero stati perdonati, il regno di Dio istituito.
Era questa la narrazione elaborata dai profeti. Essi non avevano predetto un Israele che trionfava sui nemici in una guerra totale ma avevano profetizzato una salvezza attraverso le sofferenze e il riscatto di Israele: “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo riguardavano”. Gesù assume su di sé questa narrazione; egli fece per Israele e per il mondo quello che Israele e il mondo non potevano fare per se stessi.
La delusione dei due discepoli non era dovuta, dunque, a cecità spirituale ma al credere ad un diverso racconto. Ma ora, grazie al misterioso forestiero, avevano il racconto giusto ed ora una nuova speranza si riaccendeva in loro. E se l’esecuzione di Gesù non fosse la smentita  della sua messianicità ma la conferma? E se fosse questo il modo con cui Dio realizzava la redenzione di Israele? Mentre questa intuizione si faceva strada in loro giunsero a casa e invitarono il forestiero. Questi assunse il suo ruolo di ospite prendendo, benedicendo e spezzando il pane. Lo riconobbero, ed egli scomparve. Ora quello che il forestiero aveva detto acquistava senso: “Non sentivamo forse ardere il cuore dentro di noi mentre egli ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture?” (v. 32). La loro reciproca testimonianza si trasforma in un’entusiastica testimonianza agli altri quando tornano a Gerusalemme: il Signore è veramente risorto, è apparso a Simone! Quindi raccontarono quanto era accaduto lungo la via e come lo avessero riconosciuto dallo spezzare il pane. La loro preghiera ha avuto risposta. Sono tornati al santo monte di Dio e alla sua dimora. La luce e la verità di Dio li hanno ricondotti indietro, la loro pena si è trasformata in lode.

sabato 11 febbraio 2012

BIOETICA CRISTIANA E BIOETICA LAICA: QUALI PROSPETTIVE PER UN DIALOGO

BIOETICA CRISTIANA E BIOETICA LAICA: QUALI PROSPETTIVE PER UN DIALOGO.


In questo articolo ci proponiamo di analizzare le differenti impostazioni tra la bioetica che si riferisce ad una concezione cristiana della vita e quella che si caratterizza per la sua accezione laicale, onde individuare, ove possibile, prospettive comuni da cui possa aver inizio un dialogo fruttuoso.
Si è preferito, in questo lavoro, tralasciare le varie implicazioni concrete che le differenti visioni comportano nei casi specifici, limitando l’esame ai principi fondativi delle due visioni specifiche evidenziando sia i punti di contatto che quelli di frizione mostrando anche le cause remote. Si passa poi alle varie implicazioni giuridiche ed etiche derivanti dai rispettivi principi fondativi.
Si tenterà, infine, di fornire per quanto possibile una valutazione per tracciare un itinerario di riflessione comune, questo perché la bioetica non è semplicemente elencazione di proposte ma deve aiutare nelle scelte operative stabilendo i criteri sui quali deve fondarsi e giustificare il giudizio di liceità o illiceità. Tutto ciò, in un contesto pluralista come quello odierno, è necessario tanto più quando visioni parziali vengono istituzionalizzate. Questo non vuol dire annullare il pluralismo ma chiarificare il dialogo fra le varie correnti.
Breve storia
Il vocabolo bioetica apparve per la prima volta in un articolo dell’oncologo Van Rensselaer Potter nel 1970. Da allora molta strada è stata percorsa. Utile sarà, allora, fornire un breve panorama storico tenendo conto delle difficoltà di esaurire un argomento dalle molteplici implicazioni spesso contrastanti o contraddittorie.
La bioetica si sviluppò a partire dagli Stati Uniti dove, accanto al progresso scientifico si sentiva forte anche la preoccupazione sul dove tale sapere poteva condurre. La bioetica veniva vista come possibilità di coniugare il sapere scientifico a valori etici che impedissero la degenerazione della biologia a scapito dell’etica. Già nel 1969 era sorto l’Hastings Center con il compito di formulare norme per la ricerca nella biomedica. Nello stesso periodo alla Georgetown University di Washington (DC) furono organizzati corsi di morale da parte del teologo protestante Paul Ramsey, le cui pubblicazioni lanciarono la bioetica negli USA. Nel 1971 sorse il Kennedy Institute of Ethics, aperto a studenti e ricercatori di ogni confessione religiosa. il suo scopo è la ricerca  con caratteristica interdisciplinare, con preferenza per il campo filosofico e della teologia morale. In seguito sorsero più di cinquanta centri di bioetica in tutto il paese, collegati per lo più ad ospedali e università. Dall’America l’interesse per la bioetica toccò l’Europa e l’Australia.
In Italia il primo Centro di Bioetica è nato nel 1985 ed ha sede nella Facoltà di Medicina e Chirurgia “A Gemelli” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in Roma. Esso promuove ricerche interdisciplinari su problemi etici della medicina e della biologia e istituisce corsi di bioetica. Il centro si caratterizza per il personalismo ontologicamente fondato, di ispirazione tomista. Altri centri sono il Centro di Bioetica di Genova con connotazione bioecologista; il Dipartimento di Medicina e Scienze umane dell’Ospedale S. Raffaele di Milano; il Centro per la ricerca e la formazione in politica ed etica Politeia di Milano con forte senso critico verso l’impostazione cattolica; il Centro di Biologia dell’Istituto “Gramsci” di Roma con impostazione biologista-evoluzionista.
Forte impulso per la riflessione bioetica è venuto dall’istituzione dei comitati di bioetica, detti “comitati etici”. “Bioetica non è più soltanto una disciplina: quella parte dell’etica che si occupa delle scelte morali connesse alle scienze della vita. Da tempo la discussione attorno alle questioni bioetiche è uscita dai luoghi dello studio; non soltanto perché ha invaso la grande comunicazione, o ne è stata invasa, ma soprattutto perché ha creato le sue istituzioni. Sono luoghi di discussione e proposta, ma anche luoghi di decisione e di prescrizione per casi singoli o per protocolli di comportamento. Il campo bioetico conosce così i suoi processi di decisione, i suoi materiali normativi, le sue autorità. Si delinea una complessa e multiforme esperienza di costruzione del consenso: un’esperienza fortemente internazionale, caratterizzata da un’intensa circolazione di materiali e di una tendenza all’omogeneizzazione dei modelli etici”[1].
I comitati dovrebbero caratterizzarsi da pluralismo al fine di creare una ricerca di valori comuni, di principi fondamentali. I comitati dovrebbero subentrare quando:
-          non si affermano subito i principi ed i valori cui si vuol rimanere fedeli;
-          non si possono rispettare tali principi o perché non si sa come metterli in pratica o perché appaiono inconciliabili con la situazione reale.

Definizione ed ambiti.
È incontestabile che l’attuale progresso umano in tutti i campi dello scibile abbia apportato innumerevoli benefici al consorzio umano. Ma è altrettanto incontestabile che ci troviamo molto lontano dall’ottocentesco ottimismo sul progresso umano. I frutti della scienza sono ancora appannaggio di una fetta troppo esigua del genere umano e anche li dove essi abbondano sono legati spesso a ideologie e convenienze di mercato. Inoltre il prezzo da tributare al progresso tecnologico si rileva, nel corso dl tempo, troppo alto: danni alla biosfera, alla macroecologia, sfruttamento indiscriminato di uomini e risorse naturali. L’uomo si trova così ad essere il crocevia di una situazione ambigua: causa e ritardo del processo di umanizzazione. Nel cercare queste cause occorre prendere in esame la natura umana. Come osserva Luthe “La natura umana costituisce il punto di partenza della discussione: l’origine dei conflitti e dei guai si dovrebbe vedere piuttosto nella condizione umana che in una data struttura sociale”. Dunque la bioetica non vuole essere un tentativo di ingabbiare o negare la ricerca scientifica ma vuole stabilire criteri per verificare ciò che è lecito e cosa non lo è.
Secondo l’Encyclopedia of Bioethics la bioetica è “lo studio sistematico della condotta umana nell’ambito delle scienze della vita e della salute esaminata alla luce di valori e principi morali”[2]. C’è, però, chi sostiene che la scienza di per sé è neutra, che deve essere libera di procedere nelle sue ricerche senza costrizioni ideologiche. Il problema sorgerebbe, a detta di questi, quando dalla ricerca scientifica si passa alle applicazioni pratiche, cioè alla tecnica. E questo ci riconduce alla considerazione della natura dell’uomo ed a stabilire principi etici. Infatti “le ragioni scientifiche possono dire quanto può essere fatto, ma non possono dire se lo dobbiamo fare e se, alla fine, quanto possiamo fare abbia un senso. Il progresso scientifico medico, ad esempio, può allungare la vita umana ma non dice perché lo dobbiamo fare e se questo abbia un senso”[3]. Il senso del progresso, allora, non risiede in se stesso ma in riferimento al bene dell’uomo, alla sua dignità: progresso, infatti, non vuol dire automaticamente promozione umana. Responsabilità in tal caso sarà la capacità di rinunciare a ciò che è possibile se questo contrasta o va contro la promozione integrale della vita.
La questione bioetica si fa allora più pressante considerato i continui progressi in campo scientifico, quali:
-          manipolare la specie umana;
-          fecondazione artificiale;
-          trapianto di organi;
-          aborto;
-          clonazione.
È cambiata perfino la concezione di malattia e di morte (intesa non come evento naturale ma fallimento di tecniche terapeutiche) oscillando tra umanizzazione e disumanizzazione della medicina. D. Mieth ravvisa tre problematiche da precisare:
1) il problema della conoscenza e dell’attribuzione di rilevanza etica ai punti chiave emersi nella ricerca e nella tecnologia – che cosa si deve sapere e potere?
2) il problema del passaggio dalla conoscenza teorica alla applicabilità tecnica – è lecito fare tutto ciò che si è in grado di fare?
3) il problema dell’accettabilità e della praticabilità delle concezioni morali – che cosa si può raggiungere?[4]
La fondazione teleologica dei giudizi morali partirebbe dal presupposto che azioni ed atteggiamenti si devono giudicare moralmente solo dalle loro conseguenze. Da qui l’accettazione di quella che viene definita etica intrinseca o deontologia. Ma la bioetica non può essere limitata alla creazione di un codice di correttezza nelle metodologie di ricerca e di applicazione. Infatti tutto il processo di ricerca, dai finanziatori al singolo scienziato, è orientato da intenzionalità che possono non essere sempre in linea con il rispetto pieno della vita umana. Inoltre, stabilità la eticità del fine occorre altresì stabilire l’eticità dei mezzi. Tutto ciò presume una istanza assiologia comprensiva di visione globale del reale.
L’uomo può essere studiato nelle sue componenti fisiche (organi) e psichiche (affetti, emozioni, fobie) ma poi occorre ricondurre il tutto alla sua unicità: la persona umana, la quale deve restare sempre al centro dell’interesse. La medicina stessa ha ormai compreso come l’uomo non sia riducibile alle sue sole componenti. Di conseguenza la specializzazione medica ha bisogno di fare sintesi dell’enorme quantità di dati riferendosi al soggetto umano. Il pericolo del riduzionismo scientifico è sempre in agguato: l’uomo costruisce il mezzo tecnico ma questo cambia l’uomo.

Implicazioni etiche.
Se da un punto di vista scientifico è un dato di fatto la necessità di un’etica o quanto meno di una regolamentazione delle sperimentazioni, istanza partita dagli stessi scienziati implicati in tali ricerche, diversa è l’impostazione dei modelli etici a cui fare riferimento. Marciano Vidal nel suo Manuale di Etica teologica afferma che i problemi della biomedicina sono stati orientati dalla morale religiosa e dalla deontologia. Riconoscendo il valore di questi due filoni, l’autore propende per una deconfessionalizzazione dell’etica e della decodificazione deontologica della bioetica la quale deve fondarsi sulla:
-          razionalità laica condivisa universalmente;
-          sul terreno filosofico, cercando un paradigma di razionalità etica che si situi al di là dell’ordinamento giuridico e deontologico e al di qua delle convinzioni religiose[5] per essere la più universale possibile ed essere così accolta dalla maggioranza degli uomini.
Secondo Vidal “la debolezza e la forza della bioetica dipendono in grande misura dalla teoria etica generale in cui si situano le impostazioni e gli orientamenti. La bioetica funziona all’interno di un paradigma di razionalità etica, il quale fornisce il carattere di riferimento per il discernimento e le proposte operative”[6].
Nell’opera citata egli indica pure i criteri che dovrebbero orientare la bioetica:
-          il principio di cercare sempre il bene del soggetto;
-          liberarsi da una eccessiva sacralizzazione della vita;
-          mettere al centro la persona umana;
-          processo di umanizzazione ascendente.

Ed è proprio su questi criteri che si riscontrano le differenti posizioni; infatti essi presi nella loro genericità e neutralità possono essere giusti ed appropriati, ma la loro posa in opera segue sempre un’idea soggiacente che li condiziona e li indirizza, secondo l’intuizione dello stesso Vidal e poc’anzi riportata.

Sarà bene, allora, effettuare un excursus sulle ideologie a cui i modelli bioetici fanno riferimento, chiarendo come prima cosa l’uso del termine laico. “Laico sarebbe il pensiero che fornisce della realtà un giudizio libero e spassionato e ne deduce proposte libere e giuste, pertanto accettabili da tutti coloro che non soggiacciono a prescrizioni religiose”[7]. La bioetica laica si propone come etica universale che procede in modo rigorosamente logico. Partendo da questa posizione le conclusioni della bioetica laica vengono ritenute più valide a livello scientifico, politico, legislativo, perché libere da pregiudizi di carattere religioso[8]. Certamente si può convenire su questa presunta libertà della bioetica laica. Presunta, perché anche se libera dalla problematica religiosa la bioetica laica presenta in molti suoi campi un asservimento ad ideologie filosofiche e politiche ben precise, se non addirittura cadere nella trappola delle lobbies.

Modello sociobiologista.

Tale modello vuole fornire un giudizio etico basato sull’osservazione dei fatti con conseguenza di relativizzare valori e norme. Si tratta, così, di un’etica descrittiva. Seguendo il pensiero evoluzionistico secondo il quale ogni essere vivente si sviluppa adattandosi all’ambiente e creando le condizioni per meglio sopravvivere, così l’uomo deve mutare se stesso e la società per migliorare la propria esistenza. L’egoismo biologico o istinto di conservazione viene esaltato e messo al primo posto: l’uomo non sarebbe diverso da altre forme di vita presenti nel mondo.
È ovvio che tale modello ratifichi il pensiero evoluzionistico, assume il riduzionismo scientifico e relativizza ogni etica. L’uomo appare messo al centro dell’intero processo di sviluppo ma solo perché dotato di ragione: in realtà risulta sacrificabile al miglioramento della specie.
Questa visione mostra il suo carattere inquietante in un’era in cui l’uomo è capace di manipolare il proprio codice genetico.

Modello liberale.

Parte dal principio di autonomia fondato sula libertà: è lecito ciò che è liberamente voluto e che non lede l’altrui libertà. Certamente la libertà è un valore prezioso ma essa suppone l’essere e l’esistere per un progetto di vita. La libertà presa come un assoluto, sciolta quindi dalla verità, diviene deresponsabilizzazione. Inoltre è evidente il suo carattere arbitrario e fazioso: chi difende la libertà di quanti non possono farlo da se stessi (handicappato, malato terminale, ecc…)?
Quando la libertà va contro la vita finisce col distruggere se stessa e diventa schiava del proprio egoismo per ingabbiare li dove si invoca. La libertà non può essere disgiunta dalla verità e dalla responsabilità che nasce in seno alla libertà stessa. La vera libertà si caratterizza nell’essere “per” un progetto di vita e non “da” vincoli.

Modello utilitarista.

Come corrente filosofica nacque nei paesi anglosassoni. Il principio base è stabilito dal rapporto costo-beneficio, che può essere giusto quando si rapportano tra loro valori omogenei (ad es. valutare una terapia in base ai rischi) ma che non può essere assolutamente usato qualora si tratti di valori non omogenei (costo in denaro di una terapia/vita umana). In questo caso si può rifiutare una terapia invocando l’alto costo confrontato con lo scarso valore accordato alla vita di un paziente. Da questo postulato si deducono le seguenti considerazioni:
-          i pazienti insensibili non rientrerebbero nella categoria tutelata;
-          giustificazione dell’eutanasia;
-          giustificazione dell’aborto;
-          giustificare l’eliminazione di individui (handicappati) che recano sofferenza agli altri.
L’idea di fondo è massimalizzare il piacere e minimizzare il dolore. Non è dato di capire, però, chi dovrebbe arrogarsi il diritto di decidere quanto una cosa provochi piacere o sofferenza e né verso chi. La vita umana è ridotta al solo stato di presenza/assenza di piacere o sofferenza e in ordine ai costi.
Modello contrattualista.
È un modello analogo al l’utilitarismo, fondato sull’accordo intersoggettivo della comunità etica: è eticamente valido nell’ambito dell’etica pubblica ciò che è frutto del consenso. Chi non rientra in questa comunità vede i propri diritti dipendenti da altri che decidono per loro. La persona umana viene valutata nella sua ottica sociologica; il soggetto morale è soltanto chi partecipa al contratto ed esprime il consenso.
Da ultimo si presenta il modello che per il suo contenuto personalista, e quindi attento a tutte le componenti del soggetto “uomo”, è stato assunto come modello più adeguato ad esprimere la realtà umana. Questo modello sa anche coniugare le istanze medico-scientifiche con i valori che la riflessione teologica da sempre riferisce alla pedagogia divina.
Modello personalista.
È il modello ritenuto più valido per risolvere le problematiche sollevate dai modelli precedenti, e da questi non risolti, e per fondare oggettivamente valori e norme. L’uomo è persona perché è l’unico essere capace di riflessione, di autodeterminazione, di dare un senso alle cose. Come la medicina ha dimostrato, l’uomo è irriducibile alle sue parti e postula una componente spirituale che lo eleva al di sopra della materialità. La stessa società pone la persona come punto di riferimento. La persona vale per quello che è non per le scelte che opera. Il personalismo valuta la totalità dell’uomo. Certo, all’aspetto oggettivo vi è quello soggettivo relativo all’intenzionalità che dà valore etico all’atto ma si dovrà considerare anche il suo contenuto oggettivo e le sue conseguenze. Nel momento del giudizio intimo sull’operato prevale la valutazione della soggettività ma nel momento normativo e deontologico prevale il valore oggettivo in cui bisogna adeguare sempre meglio l’attitudine soggettiva. Per fondare validamente un’etica della vita vi deve essere contenuta una verità oggettiva sull’uomo.
Riassumendo, le altre formule appaiono insoddisfacenti perché fondate su visioni parziali come quelle basate su idee di progresso, evoluzione, sviluppo. Infatti non è possibile ritenere un’evoluzione giusta se prima non si posseggono conoscenze su cosa sia veramente conveniente. Anche l’idea di progresso non colma questa lacuna in quanto per giudicare se il progresso è reale occorrerebbe conoscere la meta verso la quale si è diretti. Difatti un certo sviluppo lungi dall’essere un progresso potrebbe costituire un regresso. Un modello per essere valido occorre che valorizzi tutto l’uomo e non l’uomo in astratto (società, umanità, ragione, natura) o una sua visione parziale. Al centro, dunque, è la persona reale, concreta, singolare, esistente nella intersoggettività delle persone. Un modello veramente valido sarà conforme alla dignità della persona, lo riconoscerà sul piano teorico e lo attuerà su quello pratico.
La sfida posta alla bioetica suggerisce la necessità di un’etica pubblica accompagnata dalla ricerca dei punti in comune. Laicità, allora, significa occasione di una mediazione razionale tra le diverse concezioni le quali dovranno argomentare la loro validità confrontandosi onestamente. Tutto ciò non per creare una sorta di relativismo etico ma per meglio conseguire il bene comune.
Per concludere questa breve disamina sulla bioetica, di per sé insufficiente e limitato, occorre dire che la legge umana è la determinazione e l’espressione dell’autorità legittima di alcune esigenze del bene comune di una determinata società in un determinato momento storico. La legge si deve fondare sulla ragione e deve riconoscere il bene comune. Una società pluralista e democratica attua tale ricerca nel pieno rispetto del pluralismo che è in sé e nella libertà di coscienza. Ma il bene comune non è il bene della maggioranza bensì la condizione per cui ogni persona può realizzare se stessa. La legge perciò non costituisce l’etica ma deve creare le condizioni per la realizzazione piena delle persone. Per ottenere ciò essa deve:
-          difendere la vita di tutti, specialmente degli indifesi e degli innocenti;
-          non deve imporre di togliere la vita a nessuno;
il diritto deve avere al suo fondamento, pertanto, il riconoscimento della dignità umana.
Si propongono cinque piste per fondare un’etica che sia rispondente alle esigenze della persona umana.
1) rapporto tra fede e ragione: a quest’ultima oggi non si riconosce più la capacità di cogliere il vero. in realtà è compito della ragione scoprire la bellezza della verità e, per chi si lascia illuminare dalla fede, scoprire il disegno di Dio per l’uomo.
2) rapporto tra libertà e responsabilità: l’autonomia non può costituire il fondamento della vita etica. L’autonomia esige la responsabilità perché gli atti hanno contenuti e conseguenze. Siamo dunque responsabili dei nostri atti verso gli altri uomini e verso le generazioni future.
3) rapporto tra natura e persona: la responsabilità è propria della persona e questa suppone la natura umana e quindi il rispetto dell’uomo. È importante non confondere la legge morale con la legge della biologia ma occorre non escludere il rispetto per la totalità dell’uomo.
4) rapporto tra etica e diritto: fra i due campi vi è autonomia ma non possono essere ignorati i diritti fondamentali primo fra i quali il rispetto incondizionato della vita di tutti e singoli gli esseri umani.
5) rapporto tra l’etica dei principi e l’etica delle virtù: non basta codificare n orme etiche ma portare la riflessione sulle attitudini pratiche ed operative coltivando le virtù perché il bene vero sia perseguito.


[1] Zatti P., Bioetica e diritto, Rivista Italiana di medicina legale, 1995, XVII, 2
[2] Reich W.T., Encyclopedia of Bioethics, the Free Press, New York 1978, vol I, p. XIX
[3] Lorenzetti L., La scienza e la tecnica alla ricerca di un’etica. Basta l’etica?, Rivista di Teologia Morale 1988, 77, p. 106
[4] Mieth D., Impostazioni etico-teologiche in materia di bioetica, in Concilium 1989, 3, ed. Queriniana, Brescia, p. 45
[5] Vidal M., Manuale di etica teologica, vol II, parte 1^, morale della persona e bioetica teologica, ed. Cittadella 1995, p. 320
[6] Vidal M., op.cit., pag. 321.
[7] Fiori A., Bioetica laica e bioetica cattolica, Medicina e Morale, 1996, 2, pag. 203.
[8] Per un approfondimento si rimanda all’articolo di Palazzani L. citato in Bibliografia

venerdì 10 febbraio 2012

Una riflessione sullo Spirito Santo

Sermone sullo Spirito Santo

C'era tra i farisei un uomo chiamato Nicodemo, uno dei capi dei Giudei. Egli venne di notte da Gesù, e gli disse: «Rabbì, noi sappiamo che tu sei un dottore venuto da Dio; perché nessuno può fare questi miracoli che tu fai, se Dio non è con lui». Gesù gli rispose: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo non può vedere il regno di Dio». Nicodemo gli disse: «Come può un uomo nascere quando è già vecchio? Può egli entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e nascere?» Gesù rispose: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato d'acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne, è carne; e quello che è nato dallo Spirito, è spirito. Non ti meravigliare se ti ho detto: "Bisogna che nasciate di nuovo". Il vento soffia dove vuole, e tu ne odi il rumore, ma non sai né da dove viene né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,1-8).
Se si raccolgono dai vari settori del NT, epistolario paolinico e giovanneo, sinottici e Atti i dati concernenti lo Spirito Santo, si può affermare che la teologia dello Spirito è teologia della presenza divina.  L’evangelo di Matteo sembra condensare tutto l’evento Cristo  in una sola parola: Emmanuele, Dio-con-noi. Gesù è venuto, ha parlato, ha agito, è stato crocifisso, è risorto, è asceso al cielo. Tutto l’evangelo predica un dato incontrovertibile: Gesù in mezzo a noi, condensato dall’enunciato biblico “Verbum caro factum est”.
La difficoltà comincia quando Gesù Risorto torna alla destra del Padre. Come può il Maestro garantire ora la sua presenza in mezzo ai discepoli? Eppure egli, o la chiesa primitiva ha compreso così, ha promesso che sarebbe restato con loro, e dunque con noi, tutti i tempi fino alla fine del mondo: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente”. Come può questa promessa adempiersi? Il cristianesimo non è un memoriale di eventi passati, noi non siamo i custodi di un museo teologico, ma i testimoni di un Risorto sempre operante nel mondo e in mezzo a noi, i testimoni di una presenza reale e concreta che si dispiega nel tempo a partire da quell’evento accaduto più di due  millenni fa. 
Chiunque scorra il NT troverà che vi sono due ordini di promesse; da una parte la promessa che il Signore non ci avrebbe mai abbandonato contenuta in Gv 14,18-19 Non vi lascerò orfani; tornerò da voi. Ancora un po', e il mondo non mi vedrà più; ma voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete”. D’altra parte vi è una promessa che sembra avere un contenuto diverso: si parla infatti di un’altra presenza che Gesù chiama il Consolatore “E io pregherò il Padre, ed Egli vi darà un altro consolatore, perché stia con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché dimora con voi, e sarà in voi”. E ancora: “Ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto”.
Chi è mai questo Spirito, che due scrittori dei primi secoli del cristianesimo hanno definito Vicarius Christi? Forse un indizio può fornircelo Paolo in un a sua epistola quando dice “Il Signore è lo Spirito” (2Cor 3,17). Qui non si tratta di identificazione tra il Cristo risorto e lo Spirito, quasi una sorta di modalismo, l’eresia che intendeva le tre persone divine solo un’apparenza dell’unico Dio. Qui si intende dire che lo Spirito rappresenta la forma attuale della presenza del Risorto in mezzo a noi: Cristo assente nel corpo è presente per mezzo dello Spirito Santo. Il NT per designare tale presenza una il termine παρουσία, che molti teologi hanno relegato ad un futuro lontano e mitico ma che per la testimonianza evangelica significa una presenza costante di Cristo nella storia dei suoi discepoli.
Non si tratta di un sostituto del Risorto; si tratta del Signore stesso, che è in mezzo a noi, credenti e non, che nella nostra storia attua la sua storia. Ha scritto un grande teologo, Karl Barth “Dio non è stato potente soltanto nelle antiche età e non lo diventerà soltanto nell’ultimo adempimento della sua promessa: lo è già qui ed ora nella promessa del suo Spirito: in essa è egli stesso presente e all’opera ieri come oggi e domani”.
Un teologo medievale ritenuto eretico dalla chiesa cattolica, Gioacchino da Fiore, divise le età in tre tempi: il tempo del Padre (ossia l’AT), il tempo del Figlio (ossia il NT), e il tempo dello Spirito (ossia il tempo della chiesa). Con le opportune differenze possiamo fare nostra questa classificazione; noi però crediamo che il tempo della chiesa cominci già dalle pagine dell’evangelo perché lo Spirito ci rende contemporanei di Cristo. Ogni  nostra giornata è una giornata di Gesù Cristo, una giornata del suo agire, del suo parlare. Se i nostri occhi sono aperti su altre realtà, ascoltano altre parole, cercano altre presenze (sociali, politiche, economiche), è perché assumiamo in noi l’atteggiamento di Pietro che invece di fissare lo sguardo su Gesù guardava preoccupato le onde che lo soverchiavano (cfr Mt 14,24-33). 
L’immagine del vento esprime con esattezza la presenza dello Spirito: presenza reale, come quella del vento, ma, come il vento, è qualcosa che non si può vedere, che non si può afferrare e di cui son si può disporre. Come il vento, lo Spirito si può sentire e se ne percepiscono gli effetti ma non può essere imbrigliato o costretto né posseduto come un deposito. Esso è libero; potremmo dire che lo Spirito costituisce la libertà di Dio. La stessa difficoltà a parlarne riflette la sua sovrana libertà che rifiuta perfino una costrizione verbale.  
Dopo la risurrezione di Gesù la terra non è rimasta orfana di Dio, il Signore è presente nel suo Spirito, ma questa presenza non è più quella contraddittoria della sua vita storica; oggi è il tempo della primizia non della raccolta, il tempo della fede non della visione, il tempo della confessione non del possesso, il tempo della speranza non dell’evidenza, è il tempo dell’annuncio non del compimento. Questo significa che è il tempo in cui i credenti siano il sale della terra e la luce del mondo per testimoniare che Dio è presente nei suoi fedeli e nella storia dei credenti, dunque anche nella TUA storia. Dunque tu non sei indifferente nel progresso della verità ma la tua fede e la tua opera accrescono il bene che i credenti possono fare sapendo che possiamo solo ripetere una antica preghiera cristiana: Veni, Sancte Spiritus…