1- La Bibbia: un libro da esplorare.
Per
il credente la Bibbia veicola la Parola di Dio e permette di entrare in dialogo
con Dio, di ascoltarne la voce, di cogliere il progetto divino di salvezza che
attraverso di essa diventa proposta per l’uomo di ogni tempo. D’altra parte, si
tratta concretamente di un testo prodotto della cultura e delle capacità
creative dell’uomo. Entrare perciò fino in fondo nel linguaggio umano e nelle
sua modalità comunicative è l’unica via per una comprensione profonda del
messaggio divino. Una maggiore conoscenza della Bibbia è richiesta anche da
chi, non credente, si rende conto della grande influenza che la Bibbia ha avuto
sulla cultura occidentale. Non è difficile scoprire che il linguaggio, la
poesia, la letteratura, le arti, l’architettura, direttamente o indirettamente
manifestano una radice biblica. Naturalmente il contesto più adeguato per
approfondire la conoscenza della Bibbia è quello ecclesiale. Pur conservando un
grande interesse per chi la accosta con l’occhio dell’antropologo, dello
storico, del letterato, la Bibbia trova il suo ambiente naturale nella comunità
dei credenti, prolungamento di quella comunità cristiana dalla quale gli
scritti biblici ebraici furono accolti e nella quale nacquero gli scritti del
NT. Se però accostare la Bibbia con un interesse esclusivamente culturale e non
di fede ne limita il significato compromettendone la comprensione, è pure
limitativo l’atteggiamento di chi ritiene di dover leggere e comprendere la parola
di Dio senza prendere sul serio gli ausili che le attuali conoscenze
scientifiche mettono a nostra disposizione. È il caso di tante letture di tipo
“fondamentalista” condotte da individui, gruppi e sette religiose che ritengono
superfluo considerare l’aspetto umano delle Scritture.
Per
un corretto approccio alla Bibbia bisognerà dunque prendere sul serio la sua
caratteristica fondamentale di parola divina nelle parole umane. Non è
possibile, infatti, ignorare la storia, la cultura e tutto ciò che aiuta a
capire il mondo di cui si parla e in cui quei testi si formarono, né è
possibile ignorare le norme che guidano la lettura e la comprensione di un
testo. In secondo luogo la Bibbia nasce in e per un contesto, il solo che
riconosce quell’insieme di libri come Parola di Dio. Già da un primo contatto
con la Bibbia ci si rende conto che non si tratta di un testo unitario. È una
raccolta di 66 libri. Il termine Bibbia ci giunge, attraverso il latino, da un
sostantivo greco biblia cioè “i
libri”. In realtà quel testo da noi considerato come un libro unitario è
piuttosto un’antologia di testi scritti in epoche diverse e da diversi autori,
riuniti in due gruppi principali: l’AT e il NT. Testamentum è la traduzione latina dell’ebraico berit (alleanza), un concetto base per
la comprensione della Bibbia. La divisione in AT e NT, propria delle Bibbie
cristiane, utilizza un’espressione con la quale l’apostolo Paolo designò il
patto tra Jwhw ed Israele, definendola appunto “antico patto” (2Cor 3,14). Così la Bibbia ebraica (BH), ereditata
dai cristiani e compresa alla luce del nuovo patto avvenuto in Cristo, divenne
l’antico patto (AT), distinta dai libri relativi al nuovo patto stipulato
attraverso il sacrificio di Cristo (NT). Naturalmente la distinzione nelle due
parti principali, AT e NT, è di origine cristiana, in quanto il giudaismo
riconosce come sacri solo i libri che per i cristiani costituiscono l’AT.
Già
prima dell’era cristiana i giudei raggrupparono i libri biblici in tre serie.
La prima, chiamata in ebraico Torah,
è il cuore della Bibbia ebraica: è la Legge
o, meglio, l’insegnamento dato da Dio al suo popolo come segno tangibile
dell’alleanza stipulata con Israele (alleanza sinaitica). Comprende i primi
cinque libri, denominati anche Pentateuco in greco: Genesi, Esodo, Levitico,
Numeri, Deuteronomio. La seconda parte è detta in ebraico Nebi’im (profeti); comprende libri detti “profeti anteriori” (Giosuè,
Giudici, i due libri di Samuele e dei Re) che narrano le vicende del popolo
ebraico a partire dall’entrata nella terra promessa fino all’esilio babilonese,
e i libri detti “profeti posteriori” (Isaia, Geremia, Ezechiele e il rotolo dei
dodici profeti minori). La terza parte è più varia, come testimonia il titolo
stesso Ketubim (scritti); essa
comprende libri molto diversi tra loro: i Salmi, Proverbi, Giobbe, Cantico dei
Cantici, Rut, Lamentazioni, Ecclesiaste, Ester, Daniele, Esdra, Neemia, i due
libri delle Cronache. Tutti questi libri dell’AT sono mantenuti nelle bibbie
cristiane con una divisione che tende a mettere in maggior risalto il
collegamento storico tra essi, raggruppandoli in Pentateuco, libri storici,
profeti e sapienziali. I primi cristiani aggiunsero ad essi, ritenendoli allo
stesso modo Parola di Dio i libri del NT.
2-
Come si è formata la Bibbia.
La
storia salvifica, prima ancora di essere scritta in libri, costituì la vita
stessa del popolo di Israele prima, della chiesa poi. In Israele i fatti
accaduti venivano raccontati all’interno della famiglia, del clan. Le regole
del culto e i ricordi storici ad esse collegati venivano tramandati nel
contesto del tempio, soprattutto da parte dei sacerdoti. Le gesta di eroi
popolari, dei grandi condottieri, dei re, venivano ricostruite epicamente e
trasmesse in forma orale. È solo dopo un lungo processo formativo che tali
tradizioni ebbero una forma scritta. La formazione della prima parte della
Bibbia, il Pentateuco, è stata lungamente indagata da quando è stata
abbandonata la semplice idea che il suo unico autore fosse Mosè, il grande
profeta e legislatore di Israele sotto la cui guida il popolo fu liberato dalla
schiavitù egiziana. Probabilmente Mosè mise per iscritto, com’è verosimile nel
mondo Orientale antico, la legge del Sinai, alla quale Israele si obbligava
attraverso il patto, l’Alleanza. Ma la stesura del Pentateuco, così come ci è
giunto, fu molto più laboriosa. Sul suo processo di formazione scritta il
parere degli studiosi è tutt’altro che concorde. Il grande contributo offerto
dalla teoria cosiddetta Graf-Wellhausen è variamente discusso ai nostri giorni.
Secondo i due studiosi, che svilupparono idee in parte elaborate prima di loro,
il Pentateuco è frutto di un grande sforzo redazionale attraverso cui vennero
fusi insieme documenti scritti sulla storia delle origini, sui patriarchi,
sull’esodo dall’Egitto. il lavoro finale venne compiuto dal cosiddetto autore
“sacerdotale”, uno o più autorevoli personaggi appartenenti alla cerchia dei
sacerdoti esiliati in Babilonia alla metà del VI sec. a.C. La scuola sacerdotale fu autrice di una
storia delle origini di Israele e del mondo che integrò con analoghi sforzi
teologici compiuti già da israeliti. Raccolse così quanto gli mettevano a
disposizione altri documenti composti molto tempo prima, il cosiddetto
Deuteronomista, l’Elohista e, prima ancora, lo Jahvista.
Senza
entrare nei dettagli di questa teoria, bisogna dire che la proposta appariva
convincente per la capacità di chiarire molti di quei dubbi che avevano da
sempre accompagnato la lettura e lo studio del Pentateuco: perché due racconti
della creazione (Gn 2 e 3), perché ripetizioni e incoerenze nel racconto del
Diluvio (Gn 6-8), ripetizioni ed incongruenze nelle storie patriarcali (Gn
12-36)? Fu proprio a partire da queste domande che la ricerca biblica mosse i
primi passi verso lo studio della formazione della Bibbia. Ciò spiega il
consenso quasi universale che questa teoria ebbe tra gli studiosi.
A
grandi linee possiamo dire che la più antica redazione scritta avvenne con il
documento jahwista (850-750 a.C.), così chiamata perché Dio è sempre indicato
con il suo nome Jhwh, anche prima della rivelazione a Mosè (Es 3,6; cfr Gn
4,26). Poiché le vicende narrate hanno come scenario il sud, si suppone il
documento (J) provenga dal regno di Giuda. Un documento più evoluto, databile
all’VIII sec. a.C. è l’Elohista (E), considerato dagli studiosi influenzato
dalla predicazione profetica del regno del nord, la sua patria di origine. Dopo
la caduta di Samaria (722 a.C.), capitale del regno di Israele dopo la sua
divisione da Giuda, un redattore denominato jeohwista unificò i due documenti.
Nel 622 a.C., sotto Giosia, in occasione del restauro del Tempio fu scoperto il
“libro della legge” da identificare con il Deuteronomio (2Re 22). Si
tratterebbe in realtà di una stesura del Dt, cui seguirono parecchie edizioni
con aggiunte e modificazioni; infine un redattore unì il Dt all’opera di JE con
i necessari aggiustamenti. L’ultimo documento, quello sacerdotale (P) sarebbe
opera dell’ambiente dei sacerdoti, composto dopo l’esilio e attribuibile ad
Esdra, databile verso il 458 a.C. Verso il 330 a.C. tutti questi documenti
vennero fusi insieme e il Pentateuco assunse la fisionomia definitiva. Lo
sforzo è continuato e tutt’ora si cerca di correggere o integrare la teoria
Graf-Wellhausen con nuove e più soddisfacenti prospettive.
Analoghe
osservazioni vennero fatte anche sugli altri libri biblici. Già da tempo si
parla di un primo. Un secondo ed un terzo Isaia, indicando sommariamente il
fatto che il libro del grande profeta è in realtà frutto di almeno tre diverse
composizioni risalenti la prima al profeta stesso, VIII sec. a.C. (capp. 1-39),
la seconda dell’epoca esilica, VI sec. a.C. (capp. 40-55), la terza dell’epoca
post-esilica, VI-V sec. a.C. (capp. 56-66).
È
facile intuire che tutti i libri profetici nacquero come risultato di uno
sforzo compositivo più o meno lungo e complesso. I profeti ebbero il compito di
parlare a Israele, non di scrivere per Israele. Così pure per le riflessioni
sulla vita, il dolore, la gioia, la morte, argomenti della lunga e continua
riflessione sapienziale di cui i libri come Giobbe, Proverbi, Ecclesiaste, sono
il risultato finale.
3- La formazione dei Vangeli.
Non
meno interessante è la storia della formazione del NT, avvenuta in temi più
brevi ma non senza dei periodi di
elaborazione e di rimaneggiamento degli scritti. Limitando la nostra
osservazione ai vangeli, è stata soprattutto la cosiddetta scuola della “storia
delle forme”, nata in Germania all’inizio del novecento, a studiare il lavoro
di composizione letteraria che precedette l’ultima redazione dei Vangeli,
quella che consegnò alla storia e alla fede i nostri attuali testi. Le
osservazioni fatte da alcuni studiosi più attenti al ruolo che ebbero nella
composizione le personalità proprie dei singoli evangelisti (storia della
redazione) e da altri sul ruolo che ebbero le tradizioni orali che precedettero
le stesure scritte, ci permettono oggi di considerare i diversi aspetti di quel
processo compositivo.
Subito
dopo la morte/risurrezione di Gesù, i discepoli, illuminati dal grande evento
della risurrezione che permetteva loro una rilettura teologica dei fatti e
delle parole del Maestro, trasmisero in più forme e diversi contesti le parole,
i gesti miracolosi, le storie legate alla sua vita. Ciò avveniva regolarmente
nelle liturgie battesimali, in cui si richiamavano specifiche espressioni di
Gesù, nonché racconti sul battesimo di Gesù. Le riunioni venivano accompagnate
con inni e confessioni di fede in Gesù Messia e Figlio di Dio. L’annuncio
cristiano (kerygma) avveniva attraverso la proposta essenziale della fede,
espressioni concise sulla passione-morte-risurrezione di Gesù. La catechesi per
la preparazione al battesimo e per la vita della comunità riprendeva episodi
illuminanti della vita di Gesù, letti a partire <dalla comprensione più
profonda dei fatti all’indomani della risurrezione di Cristo. tutto ciò
costituiva la vita stessa della comunità cristiana, la sua prassi cultuale e
catechetica. Furono questi elementi a costituire, nella loro forma orale e
nelle prime stesure per iscritto, il materiale di partenza a disposizione degli
evangelisti.
Il
primo racconto esteso sulla vicenda di Gesù fu quello della
passione-morte-risurrezione, come approfondimento teologico dell’annuncio
kerygmatico della fede, tanto più necessario tanto più scandaloso appariva a
giudei e pagani la notizia di un Messia, Figlio di Dio crocifisso. Se Marco
partì da questi elementi primitivi per scrivere il suo Evangelo, il primo,
Matteo e Luca poterono utilizzare la composizione marciana e altre fonti a
disposizione tra cui una in cui vennero raccolti i “detti” (loghia) di Gesù.
Anche per gli Evangeli, dunque, benché in tempi più brevi (dal 30 al 90 d.C.)
il processo formativo è stato molto articolato. Gli scritti che noi oggi
possediamo, sia per l’AT che per il NT, sono frutto di un lavoro che ha
coinvolto generazioni di uomini impegnati in un cammino di fede, in cui seppero
distinguere tra gli avvenimenti della storia e le vicende della loro vita la
rivelazione stessa di Dio. Tale rivelazione coinvolse non primariamente degli
scrittori ma la vita e la storia di Israele, come quella dei discepoli di Gesù.
La fissazione di questa rivelazione in libri attraversò un processo lungo e
articolato, finalizzato a conservare nel tempo l’efficacia della Parola di
Dio. Tutto ciò lungi dal diminuire il
carattere della Bibbia di “Parola di Dio”, fa riflettere sul come Dio entra in rapporto con l’uomo:
non al di sopra della storia umana ma nei fatti e nelle situazioni della vita.
Non consegnando all’uomo un “Libro sacro” da lui confezionato ma imprimendo un
movimento che da fatti e parole giungerà a cristallizzarsi nella Scrittura,
“luogo” privilegiato della divina rivelazione. Come ebbe a dire Lutero “Infatti Egli (Dio)non vuole dare a nessuno lo Spirito né la fede senza la Parola ”.
4- I testi
originali e le traduzioni.
Una
delle domande più frequenti riguarda la fedeltà delle attuali traduzioni
bibliche ai testi originali. È una domanda legittima che richiede una serie di
informazioni specifiche sulle lingue in cui testi furono composti, il lavoro di
“ricerca” degli originali, il lavoro di traduzione. I testi biblici furono
composti in tre lingue: ebraico, aramaico e greco. L’AT fu composto quasi
interamente in ebraico, una lingua appartenente al gruppo delle lingue
semitiche di cui fanno parte l’aramaico e l’arabo. Si tratta di lingue molto
diverse da quelle europee, sia per l’uso di suoni gutturali che per la grafia:
da destra a sinistra e con segni del tutto differenti dall’alfabeto latino.
L’ebraico della Bibbia è anche detto “quadrato” per la caratteristica forma
delle consonanti mutuate dalla scrittura aramaica. A parte queste differenze,
si tratta di una lingua dalla struttura semplice in cui si fa scarso uso di
termini astratti e domina un tipo di costruzione che tende alla coordinazione
dei periodi tra loro, piuttosto che alla subordinazione. Ed è proprio questa
semplicità ed immediatezza che a volte costituisce un problema nelle traduzioni
in lingue moderne. Già Girolamo, che tradusse dall’ebraico molti testi dell’AT,
si rese conto che non era possibile trasporre le parole ebraiche in termini
latini ma che bisognava rendere in traduzione lo stesso pensiero espresso
nell’originale. Questo spiega a volte la differenza del testo nelle varie
traduzioni.
In
aramaico furono scritte solo poche parti dell’AT: Esdra 4,8-6,18; 7,12-26 e
Daniele 2,4-7,28, con qualche parola in Geremia. Si tratta di una lingua che ha
avuto un’evoluzione lunga e un uso ben più diffuso e vario dell’ebraico. A
partire dal V sec. a.C., dopo l’esilio babilonese, gli ebrei stessi (compreso
Gesù e gli apostoli) useranno sempre più l’aramaico come lingua comune,
considerando però l’ebraico la lingua dei testi sacri. La diffusione
dell’aramaico tra gli stessi ebrei fu tale che nei culti sinagogali si rese
necessario tradurre oralmente i testi letti in ebraico. Queste prime traduzioni
orali in aramaico (i targum) verranno messe per iscritto solo più tardi ma non
sostituiranno mai, nel culto e nello studio, i testi originali in ebraico.
Il
greco, che dal III sec. a.C. divenne la lingua dominante dell’intero bacino
mediterraneo, fu la lingua utilizzata dagli scrittori del NT. Si tratta del
greco comune (koinè) e non del greco classico. La lingua del NT risente della
struttura del linguaggio semitico dato che la lingua parlata era l’aramaico. In
greco, a partire dal III sec. a.C., fu realizzata un’importante traduzione
dell’intero AT, la famosa versione dei LXX. Ciò dipese dalla consistenza delle
comunità giudaiche che vivevano fuori della Palestina, e in cui si parlava
comunemente il greco. Tale versione dell’AT fu utilizzata dai primi cristiani e
fu proprio questa scelta che indusse gli ebrei a rifiutare quest’opera
sostituendola, nel corso del II sec. d.C., con le nuove versioni in greco di
Simmaco, Aquila e Teodozione.
Tornando
alla domanda iniziale,possiamo dire che di fatto non possediamo i testi
autografi degli scrittori biblici, neanche di quelli del NT. Possediamo, però
una grande quantità di manoscritti di diversa antichità che costituiscono il
materiale di base da cui partite per ricostruire gli originali. Tale necessità
di ricostruzione del testo si rende necessario appunto perché si tratta di
manoscritti per cui è sempre possibile che si sia introdotta una pur lieve
alterazione rispetto all’originale. Talvolta si trattò di errori inconsci dei
copisti (l’inversione di due parole, il salto di una frase racchiuso tra due
termini uguali, la sostituzione di un termine dal suono simile); talvolta di
errori coscienti, tendenti a migliorare il testo, ritenuto poco corretto. Si
impone così un lavoro di ricostruzione che tende ad ottenere l’originale
mettendo i vari manoscritti a confronto.
5- I manoscritti
biblici e la critica testuale.
Per
l’AT ebraico si parte generalmente da un testo riconosciuto dagli studiosi come
molto accurato. Si tratta del Codice di Leningrado (1008 d.C.), dalla città in
cui fu conservato. Tale testo viene poi completato da una serie di osservazioni
fatte a partire da tutti gli altri manoscritti ebraici ritrovati. Dopo le
grandi scoperte archeologiche dell’ultimo secolo, la più importante delle quali
fu quella di Qumran del 1948, si è potuto verificare che il testo ebraico
riportato dal manoscritto di Leningrado, detto Testo Masoretico, è
sostanzialmente identico ai manoscritti risalenti sino al II sec. a.C. Il testo
del Codice di Leningrado, accompagnato da un apparato critico che raccoglie
tutte le osservazioni fatte dagli studiosi consultando gli altri manoscritti
antichi, è stato utilizzato per l’edizione più diffusa della bibbia ebraica, il
K. Ellinger – W. Rudolph, la cosiddetta Bibbia
Hebraica Stuttgartensia, edita a Stuttgart negli anni 1967-1977.
Per
il NT non si è scelto un manoscritto di base ma si è riscritto il testo a
partire dal confronto tra i circa 2500 manoscritti antichi: codici (a partire
dal IV sec. d.C.), papiri (a partire dal II sec. d.C.) e numerose altre
testimonianze come, ad esempio, i lezionari, le citazioni patristiche di frasi
o parti del NT. Dal confronto scientifico tra i “testimoni” del testo nasce il
“testo critico” del NT, frutto di un’attenta e documentata ricostruzione. I
suoi autori, citando in nota le varianti di fronte alle quali si sono trovati
confrontando i manoscritti fra loro, indicano con precisione le motivazioni della
loro scelta per una variante anziché per un’altra. Tra le diverse edizioni
critiche del NT sono da menzionare l’edizione di K. Aland – M. Black, The Greek New Testament, United Bible
Societis, Stoccarda 1975, il testo di A. Merk, Nuovo Testamento – greco e latino, ed. Dehoniane, Bologna 1990,
Lo
stesso lavoro, dunque altri “testi critici”, è compiuto per le antiche
traduzioni, in particolare per la traduzione greca dei LXX e la traduzione
latina di Gerolamo, detta Vulgata. Il lavoro di traduzione nelle diverse lingue
moderne avviene, solitamente, sui testi sopra citati, frutto del lavoro della
“critica testuale” che si presenta sempre più, a partire dalla sua nascita,
come un lavoro di gruppo al quale danno il loro contributo studiosi
appartenenti alle diverse chiese cristiane. In questo campo il lavoro sulla
Bibbia favorisce il dialogo tra le diverse confessioni cristiane.
Come
detto sopra, il lavoro di traduzione è molto antico: per l’AT inizia già con la
traduzione greca dei LXX, con i targumin e poi con traduzioni copte, siriache e
latine. Oggi il lavoro di tradizione della Bibbia è condotto di solito con
grande cura e non deve meravigliare che talvolta non ci sia una corrispondenza
letterale tra un traduzione e l’altra. Ciò accade per le preferenze stilistiche
di traduttori e per le intenzioni di fondo che guidano il lavoro. Anche
l’aggiornamento linguistico è importante per una corrente traduzione della
Bibbia: termini vetusti, desueti, vengono resi in lingua moderna. tutto questo
lavoro circa il recupero dei testi biblici e la loro traduzione, richiede, come
ogni altra ricerca del genere, l’accuratezza scientifica e il rigore metodologico. La stima per questi
sforzi, la collaborazione ecumenica tra gli studiosi, la possibilità di
accostarsi con fiducia al testo biblico nelle sue molteplici traduzioni ed
edizioni, costituiscono altrettanti aspetti di una fede che, illuminata dalla
ragione e dalla scienza, si rivolge con accresciuta fiducia alla parola di Dio.
6- I libri della Bibbia
e gli apocrifi: il canone ebraico.
Come
è stato già ampiamente detto, la Bibbia è in realtà una collezione di molti
libri ed è naturale che, per il suo lungo processo di formazione durato oltre
un millennio, la sistemazione dei libri riconosciuti come appartenenti al
canone sia avvenuta nel tempo. Vi sono, infatti, differenze tra la Bibbia
Ebraica, la Bibbia Cattolica e la Bibbia Protestante. Con questo breve accenno
al problema del canone biblico, risulta chiaro che anche per questo aspetto
bisogna parlare della Bibbia in termini storici. È per questa sua
caratteristica fondamentale che la Scrittura non può essere assimilata ad una
sorta di scritto preconfezionato da Dio e semplicemente consegnato nelle mani
dell’uomo. La collaborazione tra Dio e l’uomo iniziò già prima che nascessero i
testi sacri, quando chiamò Abramo, quando svelò a Giacobbe il destino suo e del
suo popolo; continuò nell’impulso divino che mosse alcuni uomini a mettere per
iscritto esperienze e parole che avrebbero continuato a rivelare nel tempo la
volontà e la natura di Dio; proseguì nell’opera di discernimento a cui i
cedenti furono chiamati per accogliere le Scritture distinguendole da tanti
altri scritti simili per forma ma non ispirati da Dio. È in questo contesto
storico che va affrontato anche il problema del canone, altrimenti
incomprensibile. La definizione del canone ebraico fu, dunque, graduale. Nel
mondo ebraico venivano venerati come scritti sacri i rotoli della Toràh; la loro origine divina non fu
messa in dubbio nemmeno nelle travagliate vicende storiche che portarono a
conflitti e separazioni all’interno dello stesso ebraismo. Ad esempio i
Samaritani, pur divisi ed in lotta con i giudei, conservarono e venerarono
sempre, fino ad oggi, la Toràh come parola di Dio. Anche per gli scritti
profetici, i Nebi’im, vi sono
testimonianze molto antiche circa il loro uso liturgico ed il riconoscimento
della loro ispirazione. La terza categoria di scritti, ossia i Ketubim, fu quella più fluttuante.
Comprendeva, infatti, libri di diverso genere: dai salmi ai sapienziali a libri
storici. Dall’altra parte vi sono testimonianze antiche circa l’uso di libri
che non entreranno nel canone ebraico né in quello cristiano. Ciò non fa
meraviglia: il canone fu definito non in base ad un principio prestabilito ma
per la graduale, comune presa di coscienza che alcuni di quei libri
presentavano autenticamente la parola di Dio a differenza di altri che pure
utili, non la esprimevano autenticamente.
Gesù
e i suoi discepoli condivisero questo uso spontaneo delle Scritture. Il culto
sinagogale prevedeva la lettura dei Profeti (cfr. Lc 4,16-19). Tuttavia
all’epoca non è ancora possibile parlare di canone ebraico. Il bisogno di tale
definizione si fece sentire soprattutto nel conflitto con la nascente chiesa
cristiana. Il fatto che i cristiani si ritenessero eredi legittimi delle
scritture, portò Israele a rifiutare la traduzione greca della Bibbia (la LXX),
usata appunto dai cristiani, sostituendola con le nuove versioni greche di
Simmaco, Aquila e Teodozione. Il processo di definizione fu sollecitato anche
dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera dei romani nel 70 d.C. e
successiva deportazione dei giudei, distruggendo di fatto il mondo giudaico. Fu
necessario il recupero della propria identità nazionale e religiosa e separarsi
da quanti giudei non erano più e tra questi anche i cristiani. Fu così che gli
ebrei esclusero alcuni libri di cui non si conosceva l’originale ebraico o che
furono composti in greco: i cosiddetti deuterocanonici (Tobia, Giuditta, 1-2
Maccabei, Baruk, Siracide, Sapienza e delle sezioni di Daniele ed Ester). Al
canone ebraico si uniformarono i Riformati definendo apocrifi questi libri e
non includendoli nella loro versione della Bibbia, mentre i cattolici li
includono considerandoli ispirati al pari degli altri.
7-
I libri della Bibbia e gli apocrifi: il
canone cristiano.
L’origine
del NT segue lo stesso procedimento storico relativo all’AT. Anche per le
comunità cristiane delle origini abbiamo testimonianze di un uso antichissimo e
costante di libri ritenuti universalmente ispirati (è il caso dei vangeli,
delle lettere paoline), ed un uso diversificato di altri libri, ritenuti sacri
ed utilizzati in alcune comunità e non in altre. È il caso dell’epistola agli
Ebrei, quella di Giacomo,la seconda lettera di Pietro, la seconda e la terza
lettera di Giovanni, quella di Giuda e l’Apocalisse. Al contrario, vi furono
testi utilizzati da alcune comunità che saranno abbandonati e non riconosciuti,
alla fine, come ispirati. Anche per il NT non esistette un criterio per
decidere della canonicità, benché l’origine apostolica (reale o apparente) e la
conformità degli scritti alla fede apostolica dovettero essere elementi
importanti nel discernimento. La formazione del canone dipese dalla coscienza
dell’ispirazione. Nella misura in cui ebraismo e cristianesimo si andavano
organizzando e uniformarono gli usi nelle diverse comunità, sporse il problema
di elencare con precisione i libri da proporre alla comunità dei credenti.
Testimonianze di questa esigenza risalgono a tempi molto antichi. È il caso
della lista contenuta nel famoso “Frammento Muratoriano” del II sec. d.C.;
della lista di Origene del III sec.; di quella di Eusebio del IV sec. Tuttavia
solo alla fine del IV sec., con le liste di Atanasio e di Agostino, e
soprattutto con quelle dei concili di Ippona (393) e di Cartagine (397 e 419)
si avrà una lista valida nell’Occidente cristiano. Si tratta del canone ripreso
poi dal concilio di Firenze del 1441. Nessuno di questi concili, però, aveva
affrontato il problema in maniera esplicitamente definitiva, quasi non
avvertendone il bisogno che si presentò quando i riformatori esclusero dal
canone i libri deuterocanonici. Infatti, il concilio di Trento, che poteva
essere una proficua occasione di distensione tra riformatori e cattolici,
definì solennemente il canone biblico inserendo anche i libri che erano stati
esclusi. I riformatori designarono tali libri come “apocrifi” perché non
riconosciuti come libri ispirati. Questi libri conservano naturalmente un
interesse di tipo storico e culturale, nella misura in cui si distingue anche
per essi il genere letterario, le circostanze e le finalità per le quali
vennero scritti.
Caso
particolarmente interessante è quello dei cosiddetti vangeli apocrifi. Non è
difficile notare come si differenzino dai vangeli canonici. Mentre questi
ultimi conservano una certa sobrietà nel raccontare le vicende di Gesù, gli
apocrifi abbondano di tratti descrittivi che hanno a che fare con la ricerca
del prodigioso. Ne sono testimonianza alcune storie di cui ritroviamo l’eco in
racconti sull’infanzia di Gesù o alcune rappresentazioni della passione. Altri
scritti apocrifi, come il vangelo di Tommaso, il vangelo di Filippo ed altri,
hanno una più delineata origine gnostica. Proprio l’uso di questi libri da
parte di gruppi eterodossi determinò la loro esclusione dal canone.
Oggi,
nel mondo Protestante, le bibbie presentano l’AT nella forma voluta dai primi
riformatori. Alcune bibbie riportano in appendice i sette libri deuterocanonici
chiarendo che essi sono esclusi dal canone ebraico, ma perlopiù si tende a non
riprodurli. Non vi sono differenze, invece, tra protestanti e cattolici per
quanto riguarda il canone del NT. Proprio la questione del canone biblico, uno
dei motivi di rottura tra le due famiglie cristiane, si presenta oggi come un
campo fecondo di riflessione e di dialogo ecumenico, ove i cattolici
riconoscono una superiorità nel campo ai fratelli protestanti.
8- La verità della
Bibbia
Molte
volte il credente, leggendo alcune pagine della Scrittura, si trova di fronte a
problemi di coerenza apparentemente insolubili. Le acquisizioni scientifiche
rivelano infatti l’incongruenza tra alcuni passi della Bibbia e le posizioni
della scienza. Come sostenere che la creazione è frutto dell’attività divina
descritta nei primi capitoli della Genesi? In Gn 1 si parla della creazione
dell’universo e dell’uomo in sei giorni, mentre la scienza parla di miliardi di
anni dall’origine del cosmo all’apparizione dell’uomo. E come si potrà
sostenere la creazione dell’uomo dal fango attraverso un soffio divino di
fronte alla fondata, benché discussa, teoria dell’evoluzione? Domande sulla
coerenza della Bibbia con la verità oggettiva dei fatti vanno oltre l’ambito
delle scienze naturali coinvolgendo questioni storiche e conoscenze
geografiche. Alcune domande nascevano anche tra gli antichi lettori della
Bibbia che si imbattevano in discordanze interne alla stessa narrazione, come
nel caso del diluvio di Gn 6-9. In ogni tempo si è cercato di interpretare
queste discordanze in molti modi. Gli antichi rabbini sostenevano che le cose
sarebbero risultate chiare con il ritorno di Elia, che avrebbe spiegato le
apparenti discrepanze. Gli antichi scrittori cristiani sottolinearono spesso
l’aspetto di “mistero” intrinseco alla Scrittura, che la rendeva solo
apparentemente incongruente. Spesso si ricorse alla lettura “allegorica” della
Bibbia, sottolineando il fatto che le notizie, la descrizione dei fatti,
avevano in realtà come vero scopo la rivelazione di una realtà superiore,
spirituale, di fronte alla quale la coerenza della historia o della littera
biblica diventava del tutto secondaria. Benché questo principio della “lettura
spirituale” della Bibbia abbia dominato nell’antichità cristiana e nel Medio
Evo, l’esigenza di risposte più precise ai problemi scaturenti dal confronto
tra Scrittura e scienza divenne sempre più pressante fino a determinare una
vera e propria crisi allorché, con l’era moderna, si verificò quel progresso di
conoscenza che determinò il superamento dell’antica, unificata concezione del
cosmo e dell’uomo. Il caso più noto ed emblematico è quello di Galileo Galilei con
il problema dell’eliocentrismo. L’antica concezione tolemaica veniva minata e
con essa la base su cui alcune affermazioni bibliche potevano essere spiegate. Che
senso avrebbe avuto a quel punto il comando di Giosuè “Sole fermati su Gabaon,
e tu, luna, sulla valle d’Aialon!” (Gs 10,12-14) se la scienza poteva
dimostrare che a girare era la terra e non il sole? Emergeva con drammaticità
il problema che avrebbe dominato la coscienza dell’uomo moderno: proseguire nel
cammino scientifico con la forza della ragione avrebbe voluto dire abbandonare
le antiche concezioni sull’uomo e sul mondo di cui tanti riflessi appaiono
anche nella Bibbia? Una curiosità: anche Calvino fu accusato di oscurantismo in
quanto avrebbe negato la verità della teoria eliocentrica; in realtà egli non
fece mai tale affermazione ma fu l’arcivescovo anglicano di Canterbury ad
introdurla per la prima volta nell’Ottocento.
Non
sono mancati casi di conciliazione, come la teoria del “concordiamo” che di
fronte alla teoria evoluzionistica propose di leggere il dato biblico sulla
base delle conoscenze scientifiche, e così i giorni della creazione andrebbero
intesi come ere geologiche. In realtà il giusto atteggiamento è intendere la
Scrittura come parola divina/umana: essa riguarda l’ambito della fede e non
della scienza. La Bibbia va studiata scientificamente per scoprire in essa i
generi letterali: si tratta della questione della critica letteraria e
testuale, della formazione e della redazione, dell’ambiente vitale che ha
prodotto i testi, di cui abbiamo già parlato. Questa attenzione al genere
letterario non toglie nulla alla verità del messaggio comunicato dai testi,
anzi è l’unica via per non confondere i modi di espressione con il messaggio di
salvezza.
9- La Bibbia e la
storia (parte 1)
All’interno
del più ampio discorso sul rapporto tra racconto biblico e dati delle diverse
scienze merita particolare attenzione la questione del correlazione tra la
“narrazione” biblica e gli avvenimenti che furono alla base di quella
narrazione, gli “eventi” narrati. Per entrare nel discorso è necessaria una
prima considerazione: tra la composizione dei libri biblici e i fatti narrati
passa un periodo di tempo talvolta molto lungo (è il caso del pentateuco),
talaltra più breve (è il caso dei Vangeli). La narrazione dei fatti che
riguardano l’origine del mondo, le vicende patriarcali o anche l’uscita
dall’Egitto come ne parla il Pentateuco, sono di molto anteriori alle prime
stesure scritte di quei racconti. Anche l’avvenimento più recente di quella
storia, l’esodo dall’Egitto, vicenda che risale al XIII sec. a.C., dista non
poco dalla più antica fonte scritta del Pentateuco (la fonte Jahvista), che
risale al X sec. a.C. Questa semplice considerazione ci consente una prima
distinzione tra le storie o la storia narrata dai testi biblici e il tempo
storico in cui i libri vennero composti. Si pensi che per la redazione finale
del Pentateuco bisognerà attendere il V sec. a.C. Il riflesso di questa
distanza è osservabile nell’impostazione stessa dei racconti che narrano
vicende antiche con lo scopo di illuminare il presente storico di Israele.
Sempre fermandoci al caso del Pentateuco, non è difficile immaginare quanto le
vicende della promessa fatta ai patriarchi, della fatica per uscire dalla
schiavitù egiziana, della lotta contro l’idolatria e della speranza di
raggiungere la terra promessa, fossero vissuti come sentimenti vivi all’epoca
della redazione finale(redattore Sacerdotale), epoca in cui Israele visse la
dura prova dell’esilio babilonese (VI sec. a.C.). Il fatto che i testi, nella
loro composizione, venivano percepiti come veicolo della parola di Dio,
significa che essi esprimevano la volontà divina circa la costituzione di
Israele come popolo, che le narrazioni di quei fatti antichi ripresentavano il progetto
liberatore di Dio, valido per sempre, per Israele. Quegli scritti, dunque,
garantivano l’autenticità della rivelazione di Dio e della sua volontà, non
l’esattezza delle descrizioni dei singoli fatti storici. È quella che i padri
della Riforma definiranno dottrina della sufficientia Scripturae.
Il
problema risulta evidente quando si parla dei racconti della creazione e dei patriarchi (Gn 1-11), che pur sottratti
oggi da una interpretazione di tipo storico, che vedeva in essi il resoconto di
fatti avvenuti nei primi giorni di vita del mondo, sono ampiamente approfonditi
e rivalutati per il messaggio di cui sono portatori, messaggio raggiunto grazie
al contributo che ci è venuto dalla considerazione dei generi letterari. Tanti
libri e passi biblici, un tempo letti come resoconti storici, sono stati
liberati dall’apparente contraddizione con la scienza, per la semplice
acquisizione che essi non hanno la pretesa di presentarsi come “cronache” dei
fatti accaduti, ma come narrazioni delle esperienze storiche fatte dall’antico
Israele. I contributi che provengono dall’antropologia e dalla filosofia sul
concetto di “mito” aiutano a non considerare i racconti mitici semplici
storielle ma a cercarvi il significato delle cose. Si tratta di una forma che
precede l’approccio scientifico e filosofico alla natura e ai fatti della
storia, che a partire dall’esperienza umana intende offrire delle spiegazioni
sufficienti. Gli agiografi si servono di alcuni di quegli antichi racconti per
rivelare in forma di narrazione il progetto di Dio, il senso della creazione.
10- La Bibbia e la
storia (parte 2)
La
scorsa volta abbiamo visto come vadano intesa la storia biblica eppure vi sono
nella Bibbia libri che si presentano come narrazioni storiche. A partire da Gn
12 inizia un racconto continuo che presenta i patriarchi di Israele come
discendenza di padre in figlio: Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe. La storia
continua con Mosè che guida il popolo verso la terra promessa (Es-Dt).
L’ingresso in Canaan avviene sotto la guida di Giosuè (Gs), a cui seguì il
tempo dei giudici (Gdc) che amministrarono la vita delle tribù di Israele fino
all’avvento della monarchia (1-2Sam). La storia della monarchia davidica (X sec.a.C.) continua con Salomone e, alla
morte di questi, con la divisione di Israele in due regni (Israele e Giuda)fino
alla caduta del regno di Israele ad opera dell’Assiria nel 722 a.C. e di Giuda
da parte dei babilonesi nel 587 a.C. (1-2Re). i due libri delle Cronache,
scritti in epoca più recente, ripercorrono l’intero arco storico da Adamo fino
a Ciro re di Persia. Esdra e Neemia narrano la ricostruzione di Gerusalemme al
ritorno dall’esilio babilonese. La maggior parte dei dati storici che
possediamo sull’Israele antico dipendono dalla lunga descrizione
Deuteronomista. Essa descrive la storia non come mera registrazione di fatti ma
li narra su una trama costruita sul tema della salvezza proposta da Dio. La
prospettiva dell’autore biblico, per noi cristiani che rileggiamo l’AT, è
teologica, tende cioè a mettere in rilievo la presenza e la guida di Dio che si
manifesta negli avvenimenti della storia israelitica. Il problema nasce quando
questa lettura della storia viene considerata semplicemente come descrizione
storica ed assunta quale ricostruzione della storia di Israele. Le vicende di
Abramo e della sua discendenza, la narrazione dell’esodo e della conquista di
Canaan, venivano assunte come veri e propri rapporti storici da integrare,
eventualmente con i dati forniti dalle scoperte archeologiche. In realtà per
una vera e propria ricostruzione storica i dati offerti dalla Bibbia, almeno fino alla monarchia
davidica, sono insufficienti. Si tratta di racconti che riguardano fatti
specifici di antichi clan, di vicende epicizzate come l’uscita dall’Egitto o la
conquista. Si pensi alla tradizione esodica che parla ripetutamente di
seicentomila uomini israeliti usciti dall’Egitto, senza contare donne e
bambini. Si tratta ovviamente di un dato sproporzionato, per quei tempi.
Per
il lavoro storiografico vero e proprio è necessario un quadro più ampio di
riferimento: dati di tipo amministrativo, politico, ecc… Non possediamo
descrizioni o racconti paralleli a quelli biblici per poter ricostruire i fatti
narrati dalla Bibbia. Tutto ciò vale almeno fino alla monarchia davidica. È
solo da Davide in poi che i dati cominciano ad essere più completi: la stessa
narrazione biblica accanto a racconti relativi ad individui ed al loro rapporto
con Dio cominciano a fornire anche dati di tipo politico,amministrativo e
militare. gli studiosi di storia israelitica hanno seguito due diverse vie: da
una parte chi, mantenendo il dato biblico come base, cerca il confronto con
situazioni e dati forniti dall’ambiente antico orientale conosciuto da altre
fonti; dall’altro chi rinuncia a fornire una ricostruzione storica delle fasi
più antiche della storia di Israele, preferendo partire da periodi sui quali si
può disporre di maggiori informazioni. Nell’uno e enll’altro caso non viene
negato il fondamentale riferimento delle narrazioni bibliche a fatti storici,
viene semplicemente valutata la difficoltà di una vera ricostruzione storica.
Ad esempio, la maggior parte degli studiosi del Pentateuco vedono nel
collegamento generazionale tra i patriarchi (padre-figlio) un legame forse
artificiale, dovuto all’antica tradizione ebraica che in tal modo poté
presentare in una storia continua le vicende legate a personaggi che in origine
appartennero a singole tribù di Israele e che solo più tardi divennero padri
“comuni” all’intero Israele.
11- La Bibbia e la
storia (parte 3)
Continua
la nostra anali del rapporto tra storia e Bibbia. Ci occupiamo adesso del NT.
Il problema di questo rapporto tra Bibbia e storia per quanto riguarda il NT è
stato posto in maniera netta a partire dalla fine del XIX sec. e l’inizio del
XX. È nota la posizione di R. Bultmann, uno studioso tedesco che portò alle
estreme conseguenze l’acquisizione ormai comune che gli Evangeli non fossero
semplici descrizioni storiche della vicenda di Gesù ma la testimonianza di fede
in Gesù come Messia e Figlio di Dio che di lui, attraverso quelle narrazioni,
avevano dato le comunità cristiane
primitive. Nel momento più acuto di questa critica alla storicità dei
Vangeli si arrivò a distinguere nettamente tra il Gesù della storia ed il
Cristo della fede. Solo il Cristo della fede sarebbe raggiungibile dalle fonti
a nostra disposizione. Per il Gesù storico, certamente non negato, veniva
semplicemente ammesso che la sua vicenda terrena non fosse più raggiungibile
storicamente perché narrata da uomini interessati a mostrare, attraverso
pallidi ricordi della sua vita, la fondatezza della propria fede in Gesù come
Messia e Figlio di Dio. Già i discepoli di Bultmann, e sempre più esegeti e
storici successivi, hanno fatto notare come l’annullamento del valore di
testimonianza storica dei Vangeli fosse eccessivo, anche se è ormai pacifico
riconoscere che le narrazioni evangeliche su Gesù comunicano la memoria di
fatti storici in una testimonianza di fede. Il che è pienamente spiegabile, dal
momento che l’interesse che nacque negli apostoli e nella chiesa primitiva
intorno alla persona di Gesù fu motivato proprio dalla fede in lui come
Signore, fede maturata solo all’indomani della risurrezione. Fu da questa fede
nel Risorto, dal desiderio di annunciarla alle comunità e al mondo, che
nacquero le narrazioni evangeliche, nello stesso tempo “memoria storica” e
“testimonianza di fede”.
Come
si può notare dai pochi esempi accennati, non si tratta di concludere
decidendosi in maniera complessiva per l’affermazione o la negazione della
storicità della Bibbia. L’argomento va considerato in maniera molto più
attenta, tenendo presenti alcuni fattori:
1-
distinguere tra “storia” come fatti accaduti e “storia salvifica”. Con questo
indichiamo il punto di vista dei narratori biblici: la lettura degli
avvenimenti alla luce del piano di Dio che, proprio attraverso i “fatti”
manifesta;
2-
la diversa valutazione delle singole parti della Bibbia, AT e NT, a cui uno
studioso deve sottoporle per ricostruire una storia dell’AT, di Gesù o della
comunità cristiana primitiva;
3-
l’irrinunciabilità di una ricerca storica intorno alla storia salvifica.
Nella
fede ebraica e cristiana, diversa,ente dalle altre religioni, la rivelazione è
avvenuta gestas verbisque, ossia con
parole e fatti. Non è sufficiente, come è accaduto nel passato e tutt’ora in
alcune comunità di fede, separare i contenuti della fede dai fatti storici che
sostanziano la fede. D’altra parte, lo stesso credo cristiano, come le maggiori
espressioni di fede ebraica, pone alla base della fede non delle verità
astratte ma dei fatti. Per il cristiano la nascita, la vita, la passione, la
morte e la risurrezione di Gesù, ben circostanziate (fu crocifisso sotto Ponzio
Pilato) entrano nella professione di fede (Credo).
Concludendo,
la Bibbia nella sua descrizione della storia salvifica, degli interventi di Dio
nella storia di Israele, di Cristo e della Chiesa antica, ci riporta ad un
mondo lontano da noi, per la cui ricostruzione storica non è sufficiente
mettere semplicemente in ordine tutti i dati ricavabili dalle narrazioni
bibliche. Se si intende ricostruire una “storia” precisa di quel mondo,
bisognerà attenersi ai criteri della storiografia, studiare le fonti bibliche
come si studiano altre fonti storiche, sottoponendole ad analisi e ai confronti
con altri materiali. Di grande importanza saranno i riscontri archeologici, non
solo diretti, come conferma o smentita di un fatto o luogo biblico, ma anche
indiretti, come illustrazione di situazioni che fanno da sfondo al racconto
biblico. È questo, ad esempio, il caso delle conoscenze che si hanno attraverso
scoperte archeologiche del contesto egiziano all’epoca dell’esilio.
Effettivamente si costruivano grandi depositi, insieme a palazzi e templi che
simboleggiavano il potere di Ramses II. Gli esempi si potrebbero moltiplicare
man mano che ci avviciniamo all’epoca di Gesù. Storia si, dunque, ma storia
salvifica, letta e narrata da uomini di fede per persone di fede o, almeno,
alla ricerca autentica di Dio.
12-
L’interpretazione della Bibbia nel mondo ebraico
La
comprensione di un testo letterario, di qualunque genere e di ogni tempo,
chiede uno sforzo interpretativo che aumenta se tra lettore e testo vi è una
grande distanza di tempo e di cultura. È questo il caso dei testi biblici.
Dalle prime redazioni dei racconti biblici ci separano circa tre millenni.
Inoltre, si tratta di testi scritti in lingue diverse e lontane dalla nostra. Il tentativo di una interpretazione autentica
diventa più delicato per il fatto che quei testi trasmettono, per il credente,
la parola di Dio, parola a cui riferirsi per avere un orientamento di vita. Per
l’evidenza di questi fattori è ovvio che giudei e cristiani si siano posti il
problema dell’interpretazione autentica della Bibbia e, soprattutto, dei
criteri per conseguirla. La
consapevolezza che le Scritture vadano non solo lette ma approfondite e
meditate fu viva già all’epoca della formazione dell’AT. Le narrazioni
bibliche, ad esempio l’esodo, sono frutto di una interpretazione teologica
delle vicende vissute o raccolte da narrazioni altrui. Così all’interno della
Toràh esistono diverse presentazioni di un medesimo avvenimento, esse stesse
interpretazioni di quel fatto originario; è il caso, ad esempio, del Decalogo
(cfr. Es 20,1-17; Dt 5,1-22). Alcune vicende, come l’uscita dall’Egitto,
vengono riproposte in diverse fasi e contesti della vita di Israele (Es 14-15;
Is 40,1-11.17-20; Sal 78,105). Diversi autori riprendono le narrazioni bibliche
precedenti e le ripresentano ai credenti della propria epoca, ne illustrano il
significato per recuperare il messaggio attuale. È quanto accade del messaggio
del profeta Isaia raccolto e attualizzato dal Deuteroisaia e Tritoisaia. Su
questa linea interpretativa si inserisce il midrash,
una forma di interpretazione attuata nelle scuole rabbiniche. Dal V sec. a.C.
la necessità di tradurre i testi in aramaico per i tanti giudei non più in
grado di leggere l’ebraico, causò la nascita del targum (traduzione), in cui il testo veniva tradotto ricorrendo
spesso a parafrasi per una sua corretta interpretazione ed attualizzazione. L’adattamento
della Bibbia alle nuove circostanze fu compito specifico dei soferim (da sefer, libro), i famosi dottori della legge. L’interpretazione
midashica si dipartiva in due forme: la halakà
(da halak, camminare)in cui si
cercava di trarre le norme di comportamento attualizzando e sviluppando i testi
legali, e la haggadà (da nagad, narrare) riguardante i testi
narrativi in cui si cercava di approfondire la fede.
Questi
modelli interpretativi erano già diffusi all’epoca di Gesù. Paolo utilizzò
l’interpretazione midrashica nella sua applicazione del racconto di Abramo.
Questo modo di interpretare la Bibbia continua fino ai nostri giorni. Sarebbe
errato pensare che l’interpretazione della Scrittura sia solamente cristiana;
il popolo ebraico ha continuato a meditare e a vivere la parola di Dio, una
ricchezza per tanto tempo ignorata.
13-
L’interpretazione della Bibbia nella chiesa antica
Con
Gesù l’esigenza di una interpretazione autentica delle Scritture si manifesta
in maniera nuova. Egli fa appello non solo ai criteri interpretativi già in uso
al suo tempo ma si propone, egli stesso, come autentico interprete della
Bibbia, mostrando come un’interpretazione parziale o schiava della tradizione
rabbinica potesse compromettere la comprensione della vera volontà di Dio (cfr.
le antitesi del Sermone sul monte “Voi
avete udito… ma io vi dico”, Mt 5,21-48). La comunità primitiva vede in
Gesù un principio ermeneutico vivente,
che avrà valore perenne per coloro che lo seguono: “E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le
Scritture le cose che lo riguardavano” (Lc 24,27). Qui il greco dice
espressamente διηρμήνευσεν, cioè Gesù dà la vera interpretazione dell’AT
mettendoli in relazione con la sua persona, in particolare con la sua
morte-risurrezione. Gli evangelisti presentano, così, un criterio centrale
dell’interpretazione cristiana che non
dipende né dai tempi né dalle scelte metodologiche: l’interpretazione della
Bibbia per un cristiano parte dall’evento Gesù Cristo che diventa una chiave
ermeneutica imprescindibile (Gv 5,39.46; 19,28-30). L’insegnamento di Gesù
viene applicato dagli scrittori del NT allorché richiameranno personaggi e
fatti dell’AT per offrirne la giusta interpretazione: è il caso di Rm 5,14 in
cui Adamo è presentato come τύπος (figura, tipo), da comprendere alla luce
nuova di Gesù Cristo, l’αντίτυπον (cfr. 1Co 10,6-11; 1Pt 3,21). Ma il
cristianesimo non è debitore solo al mondo ebraico per la sua interpretazione
della Bibbia. E’ necessario segnalare un altro evento culturale che influenzerà
l’interpretazione della Scrittura per secoli e, più in generale, la teologia.
Si tratta dell’incontro tra cristianesimo e cultura ellenica. Anche per i
giudei tale incontro era avvenuto, benché radicati nella loro cultura e
tradizione. Esempio di interpretazione giudaica in dialogo con la cultura greca
si ebbe con Filone Alessandrino che, attraverso la lettura allegorica delle
Scritture, cercò di renderle comprensibili ed accettabili alla cultura
ellenistica. Fu proprio l’allegoria, a diventare la caratteristica dominante
della scuola alessandrina a cui fecero capo alcuni dei più antichi scrittori e
teologi cristiani. È il caso di Origene, che alla ricerca filologica tesa a
fissare con precisione il testo delle Scritture e a definirne il senso
letterale, faceva seguire la ricerca del senso nascosto, di quel senso che è
possibile scoprire solo andando oltre la lettera. Si delineano così, fin
dall’inizio, i due livelli che guideranno il lettore fino ad oggi: il
significato letterale del testo ed il suo significato profondo, spirituale.
L’uno e l’altro verranno più o meno sviluppati nelle diverse “scuole” e nei
commentari degli scrittori antichi. La scuola di Alessandria, in particolare,
sviluppò soprattutto il metodo allegorico-spirituale, mentre la scuola
Antiochena fece più attenzione al livello storico-letterale. Tra i diversi
contributi degli scrittori antichi, quello di Origene fu senza dubbio
particolare: egli raccolse sistematicamente gli spunti esegetici già noti alla
sua epoca (II sec. d.C.) per trasmetterli in un sistema ermeneutico (cfr. il
trattato Sui Principi, Libro IV). I metodi di ricerca si affineranno nel
Medioevo. La lettura spirituale verrà articolata in uno schema che, mantenendo
il senso letterale (chiamato “storico”), prevede tre momenti distinti: l’allegoria per scoprire nel testo ciò che
si riferisce a Cristo; la tropologia
per attingere dal testo le regole che dovranno guidare la vita del credente; l’anagogia consistente nell’esplorare il
testo per comprendere ciò che, al di là della lettera, si riferisce alle realtà
escatologiche. Questo metodo sarà prevalente durante tutto il Medioevo. Da
questo metodo si svilupperà la famosa Lectio
Divina, diffusa soprattutto nei monasteri nei secoli VIII-XII. A questa
lettura di tipo monastico si affianca, a partire dal XIII sec., la lectio scholastica ossia la lettura
della Bibbia che avverrà nelle nascenti Universitates.
Il
lettore odierno della Scrittura riconosce senza dubbio il grande patrimonio
della tradizione giudaica e cristiana, in cui vede un tesoro ricchissimo di
indicazioni e di esperienze a cui attingere. L’esegeta moderno, come il
semplice credente, non può prescindere da esse senza compromettere la vera
comprensione della Bibbia.
14- Esegesi ed
interpretazione della Bibbia nel mondo moderno
A
partire dal XVIII sec., e soprattutto nel XIX, lo sviluppo rapido delle scienze
ha consentito di studiare i testi biblici con una strumentazione sempre più
ampia e raffinata. Nasceva così l’epoca degli studi critici della Bibbia,
utilizzando le acquisizioni scientifiche in campo storico e letterario ed
applicandole ai testi biblici. Per interpretare i testi e percepirne più
chiaramente il messaggio, l’esegeta aveva a disposizione non solo gli antichi
commenti patristici: ora aveva altri strumenti che, partendo dallo studio della
formazione dei testi, permetteva di capire la loro elaborazione e complessità.
Ad esempio, se in tutta l’antichità i Vangeli erano considerati come il frutto
dell’attività del singolo evangelista, con lo studio delle “forme letterarie”
ossia catalogando i contenuti del singolo evangelo secondo il diverso genere
letterario, si sono individuati i diversi contesti della vita delle prime
comunità cristiane in cui questi racconti presero forma. Così, soprattutto a
partire dagli inizi del XX sec., si metteva in luce il ruolo fondamentale della
comunità primitiva con i suoi diversi contesti di vita: il kerygma, la
catechesi, il culto, l’organizzazione ecclesiale. Uno degli studiosi che ha
consacrato la sua attività allo studio delle forme e dei contesti in cui gli
evangeli si formarono fu Rudolf Bultmann (1884-1976), le cui osservazioni circa
il ruolo della comunità primitiva nel processo di composizione degli evangeli
vennero presto controbilanciate da un’attenzione più marcata per il ruolo
dell’evangelista che, secondo lo studio delle forme letterarie, finiva per
essere più un raccoglitore che un vero e proprio autore. L’attenzione per la
fase redazionale della composizione evangelica mise così in rilievo la
prospettiva teologica del singolo evangelista, permettendo di coglierne più
precisamente il messaggio. Importanti contributi vennero, sempre agli inizi del
XX sec., dallo studio comparato delle religioni del Medio Oriente antico. Anche
l’archeologia palestinese non tardò a far sentire la sua importanza. Le
posizioni della critica “letteraria” vennero arricchite da una considerazione
più attenta al processo di trasmissione orale del messaggio , così come
sottolineato dalla scuola scandinava.
Questi approfondimenti contribuirono a suscitare uno scambio e una
collaborazione di tipi ecumenico tra i ricercatori appartenenti alle diverse
chiese. Naturalmente quest’approccio scientifico ha anche dei limiti. Esso si
basa su ipotesi che deve essere motivata e sostenuta da riscontri verificabili.
Deve affrontare le obiezioni e indicarne la soluzione. Ipotesi ben fondate, ma
che restano tali. Su nessuna delle ipotesi portate per la ricostruzione della
formazione dei testi biblici c’è consenso unanime, benché vi sia una
convergenza della maggior parte degli studiosi intorno ad alcuni punti
fondamentali. Ciò non è strano, non appartiene solo allo studio esegetico ma ad
ogni tipo di lavoro scientifico. Il maggior difetto di ogni metodologia
esegetica consiste nella eventuale pretesa di assolutezza: esse, in realtà,
dovrebbero integrarsi a vicenda.
Concludendo
questa lunga serie di articoli sulla Bibbia, possiamo dire che questo Libro può
affascinare, può interessare per i suoi diversi generi letterari o perché è un
grande codice per la comprensione della cultura occidentale. Tuttavia la sua
destinazione naturale è la fede e la vita dei credenti, che scrutano la
Scrittura sostenuti dallo Spirito, lo stesso che fu all’origine della sua
composizione. La Bibbia, cioè, è un libro per la vita, illuminato dagli apporti
delle scienze umane.