sabato 12 settembre 2015

La predestinazione

La dottrina della predestinazione ha a che fare molto da vicino con la realtà profonda di Dio, anzi ci conduce, come la dottrina della Trinità, nel cuore del suo mistero. Calvino affermava che interrogarsi sulla predestinazione significa “entrare nel santuario della sapienza divina”, ma per evitare che questo santuario si trasformi in “labirinto” bisogna che la mente umana non  pretenda di scandagliare a tutti i costi ogni segreto che Dio ha voluto riservare a sé soltanto. Calvino lo ricorda non per soffocare le domande, ma per avvertire che non a tutte le domande è possibile oggi dare una risposta. Il termine predestinazione, benché biblico, può facilmente trarre in inganno in quanto suggerisce l’idea di un “destino” molto simile al Fato che ha dominato tanta parte del pensiero greco antico e al quale ogni esistenza umana era sottoposta, senza possibilità di sfuggire. Ne  può nascere una visione fatalista della storia e della vita. Il termine “predestinazione” non esprime adeguatamente il messaggio che contiene. Meglio sarebbe parlare di “elezione”. La predestinazione, infatti, non è altro che l’elezione di cui parla l’apostolo Paolo quando dice che in Cristo Dio “ci ha eletti prima della fondazione del mondo” (Ef 1,4). È l’esperienza del profeta Geremia, al quale Dio rivela “Prima che io ti avessi formato nel seno di tua madre, io ti ho conosciuto” (Ger 1,5). Ed è quello che dice Paolo “Quello che Dio ha preconosciuti, li ha pure predestinati”. Predestinati a cosa? “ad essere conformi all’immagine del suo Figlio” (Rm 8,29), a seguire il suo esempio facendo quello che ha fatto lui (Gv 13,15), ad avere “lo stesso sentimento” che è stato in lui (Fil 2,5), a custodire e osservare le sue parole. A tutto questo tende la predestinazione. Predestinazione vuol dire che Gesù è il nostro destino. Ma appunto: questo “destino” che è Gesù, è “prima che Abramo fosse” (Gv 8,58), è iscritto in Dio da sempre. Ecco il senso del pre-conosciuti e del pre-destinati: Dio ci ha eletti, cioè ci ha pensati con amore, “prima della fondazione del mondo” cioè prima di creare il mondo e di creare noi. Un po’ come una madre che ama il suo bimbo prima ancora di concepirlo (cfr. Sal 139, 16-17). Non siamo figli del caso o della necessità ma di un pensiero di Dio e questo non è merito nostro (cfr. 1Cor 1,28-29). Ma secondo la dottrina della doppia predestinazione, Dio destina gli uni a salvezza eterna e gli altri a condanna eterna. Dio è davvero una specie di Giano bifronte che con una mano salva e con l’altra fa morire? Calvino, come altri teologi prima di lui quali Gregorio da Rimini e Ugolino da Orvieto, e altri dopo di lui (ad esempio il Sinodo di Dordrecht del 1618-19), hanno sostenuto malgrado le difficoltà la dottrina della doppia predestinazione. In realtà nella Bibbia c’è,in tutta una serie di passi, qualcosa che somiglia ad una doppia predestinazione anche se non si può sostenere che nella Bibbia vi sia una dottrina in merito. In essa la doppia predestinazione non viene teorizzata ma solo constatata. Alcuni testi sembrano affermarla, altri escluderla. Un solo esempio: da un lato la Bibbia afferma ripetutamente che la salvezza è per tutti (cfr Rm 11,32); dall’altro lato le parole di Gesù e di Paolo sembrano dire il contrario (cfr. Mt 22,14; 24,40; Rm 9,18). K. Barth ha provato a superare questa apparente contraddizione muovendo una critica radicale all’interpretazione tradizionale della dottrina della doppia predestinazione. Il “si” ed il “no” di Dio sull’umanità esiste realmente, ma il “no” di Dio è stato inchiodato e cancellato sulla croce da Cristo. Dopo la croce e la risurrezione resta solo il “si”, solo la predestinazione alla salvezza. In Cristo la doppia predestinazione diventa un’unica predestinazione: quella alla salvezza e alla vita eterna. Che si accetti o meno la posizione di Barth, la predestinazione fonda il trionfo della grazia in quanto l’elezione in Dio precede assolutamente ogni merito dell’uomo; essa è il corollario del primato della grazia, cara alla Riforma, e addirittura il suo coronamento. Per questo Calvino affermava che questa dottrina “non è soltanto utile, ma anche dolce e saporita per i frutti che reca”.

Sola Scriptura?

Dire sola Scriptura significa escludere la possibilità che nella conoscenza e nel rapporto con Dio abbiano una validità orientatrice al di sopra di ogni critica l’esperienza e la tradizione della chiesa. I fedeli non sono immuni dall’errore. Fedeltà a Dio non significa che i credenti in Cristo non possano errare nei loro orientamenti, nelle loro scelte, nella loro teologia che resta legata a condizionamenti culturali, epocali, psicologici. Affermare il contrario significa non tener conto della storicità della propria professione di fede, come se alla possibilità del peccato morale e del dissenso non potesse corrispondere l’infedeltà sul piano dottrinale. Tutto questo storicamente è già accaduto: basti ricordare le invettive dei profeti a Israele, il popolo eletto, che invocano l’ira di Dio contro un popolo ostinato e ribelle (Is 5,24; Ger 4,22), il cui culto è divenuto un peso (Is 1,14-15; Am 5,21-23); perfino il Tempio non costituisce più garanzia di approvazione (Ger 7,14), i pastori sono guide incapaci (Ger 2,8). La predicazione di Gesù si inserisce nella linea profetica accusa i giudei di non conoscere Dio (Gv 8,55) di essere chiusi all’Evangelo (Gv 8,37.43.47), di non credere alla verità (Gv 844-45). Di fronte a tutta la tradizione religiosa ed etica giudaica Gesù contrappone il suo “Ma io vi dico” (Mt 5,22.28.32.34.39.44), accusa i giudei di trasgredire e annullare la Parola di Dio per la loro tradizione (Mt 15,3.6; Mc 7,8.9.13). Anche le prime comunità di seguaci di Cristo non sono immuni da queste infedeltà. Paolo reagisce con estrema energia contro i credenti di Galazia, di Corinto, di Filippi, che sono stati ammaliati da falsi fratelli, da falsi apostoli, così da passare dall’evangelo di Cristo ad un altro evangelo predicato da sovvertitori.  Giacomo polemizza con Paolo sulla questione delle opere necessarie alla giustificazione mentre per Paolo solo la fede giustifica. L’autore degli Atti presenta un Paolo docile alla tradizione giudaica mentre nelle sue lettere l’apostolo considera spazzatura tale tradizione. L’Apocalisse denuncia quelli che si fanno chiamare apostoli e non lo sono (Ap 2,2; 3,1). Possono bastare questi cenni per dimostrare che è illusorio supporre, anche alle origini, l’esistenza di una chiesa unita, pura e fedele, capace di adeguarsi alla norma evangelica e di essere lei stessa norma per i credenti. Già nel NT si registra la presenza di tendenze contrastanti e inconciliabili, ciascuna delle quali rivendica per sé l’autentica interpretazione dell’Evangelo. Nei secoli successivi tale fenomeno si accentuerà in proporzioni massicce. Se dunque neppure la chiesa è la norma capace di rappresentare con autorità l’Evangelo, dove si deve ricercare tale norma? La tradizione protestante risponde “sola Scriptura”.