La dottrina della predestinazione ha a che fare molto
da vicino con la realtà profonda di Dio, anzi ci conduce, come la dottrina
della Trinità, nel cuore del suo mistero. Calvino affermava che interrogarsi
sulla predestinazione significa “entrare nel santuario della sapienza divina”,
ma per evitare che questo santuario si trasformi in “labirinto” bisogna che la
mente umana non pretenda di scandagliare
a tutti i costi ogni segreto che Dio ha voluto riservare a sé soltanto. Calvino
lo ricorda non per soffocare le domande, ma per avvertire che non a tutte le
domande è possibile oggi dare una risposta. Il termine predestinazione, benché
biblico, può facilmente trarre in inganno in quanto suggerisce l’idea di un
“destino” molto simile al Fato che ha dominato tanta parte del pensiero greco
antico e al quale ogni esistenza umana era sottoposta, senza possibilità di
sfuggire. Ne può nascere una visione
fatalista della storia e della vita. Il termine “predestinazione” non esprime
adeguatamente il messaggio che contiene. Meglio sarebbe parlare di “elezione”.
La predestinazione, infatti, non è altro che l’elezione di cui parla l’apostolo
Paolo quando dice che in Cristo Dio “ci ha eletti prima della fondazione del
mondo” (Ef 1,4). È l’esperienza del profeta Geremia, al quale Dio rivela “Prima
che io ti avessi formato nel seno di tua madre, io ti ho conosciuto” (Ger 1,5).
Ed è quello che dice Paolo “Quello che Dio ha preconosciuti, li ha pure
predestinati”. Predestinati a cosa? “ad essere conformi all’immagine del suo
Figlio” (Rm 8,29), a seguire il suo esempio facendo quello che ha fatto lui (Gv
13,15), ad avere “lo stesso sentimento” che è stato in lui (Fil 2,5), a
custodire e osservare le sue parole. A tutto questo tende la predestinazione.
Predestinazione vuol dire che Gesù è il nostro destino. Ma appunto: questo
“destino” che è Gesù, è “prima che Abramo fosse” (Gv 8,58), è iscritto in Dio
da sempre. Ecco il senso del pre-conosciuti e del pre-destinati: Dio ci ha
eletti, cioè ci ha pensati con amore, “prima della fondazione del mondo” cioè
prima di creare il mondo e di creare noi. Un po’ come una madre che ama il suo
bimbo prima ancora di concepirlo (cfr. Sal 139, 16-17). Non siamo figli del
caso o della necessità ma di un pensiero di Dio e questo non è merito nostro
(cfr. 1Cor 1,28-29). Ma secondo la dottrina della doppia predestinazione, Dio
destina gli uni a salvezza eterna e gli altri a condanna eterna. Dio è davvero
una specie di Giano bifronte che con una mano salva e con l’altra fa morire?
Calvino, come altri teologi prima di lui quali Gregorio da Rimini e Ugolino da
Orvieto, e altri dopo di lui (ad esempio il Sinodo di Dordrecht del 1618-19),
hanno sostenuto malgrado le difficoltà la dottrina della doppia
predestinazione. In realtà nella Bibbia c’è,in tutta una serie di passi,
qualcosa che somiglia ad una doppia predestinazione anche se non si può
sostenere che nella Bibbia vi sia una dottrina in merito. In essa la doppia
predestinazione non viene teorizzata ma solo constatata. Alcuni testi sembrano
affermarla, altri escluderla. Un solo esempio: da un lato la Bibbia afferma
ripetutamente che la salvezza è per tutti (cfr Rm 11,32); dall’altro lato le
parole di Gesù e di Paolo sembrano dire il contrario (cfr. Mt 22,14; 24,40; Rm
9,18). K. Barth ha provato a superare questa apparente contraddizione muovendo
una critica radicale all’interpretazione tradizionale della dottrina della
doppia predestinazione. Il “si” ed il “no” di Dio sull’umanità esiste
realmente, ma il “no” di Dio è stato inchiodato e cancellato sulla croce da
Cristo. Dopo la croce e la risurrezione resta solo il “si”, solo la
predestinazione alla salvezza. In Cristo la doppia predestinazione diventa
un’unica predestinazione: quella alla salvezza e alla vita eterna. Che si
accetti o meno la posizione di Barth, la predestinazione fonda il trionfo della
grazia in quanto l’elezione in Dio precede assolutamente ogni merito dell’uomo;
essa è il corollario del primato della grazia, cara alla Riforma, e addirittura
il suo coronamento. Per questo Calvino affermava che questa dottrina “non è
soltanto utile, ma anche dolce e saporita per i frutti che reca”.
sabato 12 settembre 2015
Sola Scriptura?
Dire sola Scriptura significa escludere la possibilità che nella
conoscenza e nel rapporto con Dio abbiano una validità orientatrice al di sopra
di ogni critica l’esperienza e la tradizione della chiesa. I fedeli non sono
immuni dall’errore. Fedeltà a Dio non significa che i credenti in Cristo non
possano errare nei loro orientamenti, nelle loro scelte, nella loro teologia
che resta legata a condizionamenti culturali, epocali, psicologici. Affermare
il contrario significa non tener conto della storicità della propria
professione di fede, come se alla possibilità del peccato morale e del dissenso
non potesse corrispondere l’infedeltà sul piano dottrinale. Tutto questo
storicamente è già accaduto: basti ricordare le invettive dei profeti a
Israele, il popolo eletto, che invocano l’ira di Dio contro un popolo ostinato
e ribelle (Is 5,24; Ger 4,22), il cui culto è divenuto un peso (Is 1,14-15; Am
5,21-23); perfino il Tempio non costituisce più garanzia di approvazione (Ger
7,14), i pastori sono guide incapaci (Ger 2,8). La predicazione di Gesù si
inserisce nella linea profetica accusa i giudei di non conoscere Dio (Gv 8,55)
di essere chiusi all’Evangelo (Gv 8,37.43.47), di non credere alla verità (Gv
844-45). Di fronte a tutta la tradizione religiosa ed etica giudaica Gesù
contrappone il suo “Ma io vi dico” (Mt 5,22.28.32.34.39.44), accusa i giudei di
trasgredire e annullare la Parola di Dio per la loro tradizione (Mt 15,3.6; Mc
7,8.9.13). Anche le prime comunità di seguaci di Cristo non sono immuni da queste infedeltà.
Paolo reagisce con estrema energia contro i credenti di Galazia, di Corinto, di
Filippi, che sono stati ammaliati da falsi fratelli, da falsi apostoli, così da
passare dall’evangelo di Cristo ad un altro evangelo predicato da
sovvertitori. Giacomo polemizza con
Paolo sulla questione delle opere necessarie alla giustificazione mentre per
Paolo solo la fede giustifica. L’autore degli Atti presenta un Paolo docile
alla tradizione giudaica mentre nelle sue lettere l’apostolo considera
spazzatura tale tradizione. L’Apocalisse denuncia quelli che si fanno chiamare
apostoli e non lo sono (Ap 2,2; 3,1). Possono bastare questi cenni per
dimostrare che è illusorio supporre, anche alle origini, l’esistenza di una
chiesa unita, pura e fedele, capace di adeguarsi alla norma evangelica e di
essere lei stessa norma per i credenti. Già nel NT si registra la presenza di
tendenze contrastanti e inconciliabili, ciascuna delle quali rivendica per sé
l’autentica interpretazione dell’Evangelo. Nei secoli successivi tale fenomeno
si accentuerà in proporzioni massicce. Se dunque neppure la chiesa è la norma
capace di rappresentare con autorità l’Evangelo, dove si deve ricercare tale
norma? La tradizione protestante risponde “sola Scriptura”.
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