L'aristotelismo di
Tommaso e i rapporti tra ragione e fede
La filosofia di Tommaso d'Aquino è
il frutto di un pensiero straordinariamente critico e al tempo stesso
sistematico, che convoglia nell'unità della nozione di "actus
essendi" l'intera produzione speculativa dei secoli precedenti, dando
origine all'edificio più armonico e completo della storia del pensiero umano.
Nell'opera di Tommaso d'Aquino, infatti, confluiscono tutti i sistemi di
pensiero sia classici che cristiani, tutti gli sforzi dell'umana ragione
manifestati attraverso le civiltà anteriori: greca, romana, alessandrina,
patristica, musulmana e scolastica. Tale confluenza non costituisce una sorta
di eclettismo e meno ancora di sincretismo, ma è l'oasi feconda ove la
filosofia si rigenera, immergendosi in un lavacro di luce e di vita; luce e
vita che Tommaso esprime con l'armonia e l'equilibrio del suo genio
sistematizzatore e, nello stesso tempo, innovatore.
Ma l'opera dell'Aquinate non è tutta
qui, e ciò appare evidente se si esamina con serena obiettività la dottrina
limpida e poliedrica del suo genio; in essa infatti non è difficile riconoscere
germi e premesse del pensiero metafisico, logico, antropologico, etico,
politico, pedagogico ed estetico delle epoche successive. La rivendicazione di
valori umani che emerge dal travaglio umanistico-rinascimentale italiano,
l'esaltazione della ragione nel razionalismo illuministico europeo instaurato
da Cartesio, lo stesso criticismo kantiano, il lirismo pseudo-logico
dell'idealismo tedesco, lo spiritualismo italiano, la concretezza vitale
dell'esistenzialismo contemporaneo, sono tutti motivi estratti, talvolta
inconsapevolmente, dall'opera di Tommaso d'Aquino, e sviluppati
soggettivamente, quindi spesso negativamente, secondo le esigenze storiche e
psicologiche dei pensatori che le espressero. Ciò fu possibile perché san
Tommaso non intese costruire un sistema chiuso, limitato a un complesso di
dottrine e di principi, condizionati a determinati schemi, o legati a
particolari esigenze storiche. E per questo che la sua opera non può essere
considerata l'ingenua e forzata "cristianizzazione di Aristotele",
quale sviluppo e approfondimento di quella del suo maestro sant'Alberto Magno,
come spesso e da molti critici si afferma. San Tommaso non intende
cristianizzare Aristotele, né tanto meno provare le verità della Rivelazione
con l'autorità delle dottrine aristoteliche; ciò sarebbe stato assurdo per il
genio delle distinzioni. E' elementare per san Tommaso rilevare che in tal caso
l'effetto sarebbe sproporzionato alla causa, o meglio che il mezzo non sarebbe
atto al fine, in quanto l'infinito o la sopra-natura non può essere contenuto
né compreso dal finito o dalla natura. Ma allora perché san Tommaso tributa il
culto massimo allo Stagirita, esaltandolo come l'autorità più grande nel campo
del pensiero? Inoltre perché si serve tanto spesso degli argomenti aristotelici
per difendere le verità della dottrina cattolica? Rispondere con la maggior
esattezza possibile a questi interrogativi significa avvicinarsi allo spirito
del grande pensatore, nella sua chiarezza e semplicità. San Tommaso infatti è
nemico di ogni confusione, superficialità, unilateralismo, soggettivismo,
settarismo polemico e sentimentalismo istintivo: le sue caratteristiche sono il
rigore logico, l'obiettività critico-costruttiva, la chiarezza argomentativa e
l'evidenza delle conclusioni in cui la mente riposa, per poi ricondurre tutto
alla verità suprema di Dio.
All'analisi critica che l'Aquinate
conduce intorno alla logica e alla storia del pensiero, appare fondamentale una
distinzione di carattere sia teoretico che pratico: la distinzione tra "recta
ratio" e "fides" E perché tale distinzione sia
storicamente inequivocabile, distingue la produzione filosofica precristiana da
quella che segue l'avvento del cristianesimo, in quanto la prima è frutto
esclusivo della libera attività della ragione, la seconda è opera della ragione
illuminata dalla Rivelazione e sopra-elevata dalla grazia. Con questa
distinzione san Tommaso si inoltra nell'esplorazione critica del pensiero
precristiano sintetizzando le tappe più importanti che la ragione ha raggiunto
con i pensatori classici. Attraverso l'esame comparato di questi luminari del
pensiero antico, vede nell'opera di Aristotele lo sforzo massimo e il risultato
più alto che la ragione abbia mai raggiunto; il sistema aristotelico gli si
presenta come il più omogeneo e il più perfetto, in quanto la filosofia dopo
Aristotele (ellenismo, neoplatonismo, pensiero romano e pensiero islamico), pur
avendo avuto grandi pensatori, non ha espresso verità di un genio capace di
superarlo. E' comprensibile dunque che san Tommaso, impegnato a individuare
criticamente la natura, il valore e la funzione della ragione, consideri
Aristotele la fonte più autorevole, l'argomento più probante del valore critico
della ragione umana.
Veniamo ora alla seconda domanda:
perché cioè san Tommaso per provare la razionalità della fede ricorre agli
argomenti aristotelici; ciò infatti potrebbe apparire come un'assurdità, poiché
Aristotele, per quanto appaia il pensatore più razionalmente perfetto, nulla
può aver congetturato della Rivelazione cristiana. Quindi il suo pensiero, pur
essendo particolarmente valido nel campo della ragione, non potrebbe servire a
provare anche verità che superano le possibilità di conoscenza (diretta o
indiretta) della natura, perché patrimonio della fede rivelata, proposta dalla
Chiesa nei suoi dogmi e studiata dalla teologia. Ma questa argomentazione cade
nel vuoto quando si comprende che la verità cristiana, super-razionale per sua
natura, è stata rivelata concretamente all'uomo razionale, a quella stessa
ragione cioè di cui si è sempre valso l'uomo per fare filosofia: e i geni
dell'antichità e lo stesso Aristotele, che da san Tommaso non a torto è considerato
il più grande, fanno parte di quella specie, di quella identica natura. Ora si
deve tenere presente che la super-razionalità è qualcosa di ben distinto e
diverso dalla irrazionalità; infatti la sopra-natura non esclude la natura, ma
la presuppone come elemento essenziale, come condizione necessaria
all'efficacia della sua azione.
Perciò, se la Rivelazione presuppone
necessariamente la conoscenza razionale, tale presupposto dovrà essere il
valore fondamentale da cui ha inizio l'elevazione umana dalla razionalità alla
super-razionalità, cioè dalla mera umanità alla partecipazione della stessa
divinità. Ne consegue che tale elevazione non può attuarsi irrazionalmente,
facendosi cioè guidare dai sentimenti pseudo-mistici di plotiniana memoria,
spesso troppo esaltati, anche se in modo diverso, dai teologi come san Bernardo
di Chiaravalle e Guglielmo di Saint-Thierry. Per l'Aquinate l'elevazione deve
procedere coscientemente, cioè razionalmente e liberamente. Tale
processo richiede uno sforzo da parte della ragione, con cui l'uomo giudica,
con le proprie capacità intellettive, la Rivelazione in relazione alla sua
natura, e da questo giudizio ne attua l'adesione con la sua libera volontà. La
ragione del credente, dunque, sente tutta l'esigenza di giudicare la sua
natura, non solo secondo le sue capacità, che sono limitate, ma anche con
l'ausilio di quei geni del pensiero i quali, trascorrendo la loro esistenza
nella ricerca del vero e del bene naturale, raggiunsero fecondissimi risultati.
San Tommaso non si serve dunque dell'aristotelismo per "provare" il
dogma rivelato, ma invoca l'autorità di Aristotele per dimostrare che la
Rivelazione non si oppone alla ragione, non mortifica cioè le esigenze critiche
del pensiero. Un procedimento analogo è seguito da Dante: Virgilio infatti è la
pietra di paragone, la condizione necessaria perché il poeta possa dirigersi
verso Beatrice e ricevere da lei la luce della mistica visione. Senza la
ragione è impossibile l'accesso ai misteri soprannaturali. Virgilio impersona
la natura razionale per Dante, così come per san Tommaso l'opera aristotelica
rappresenta il frutto migliore della ragione umana. Non per provare il valore
della Rivelazione Tommaso invoca Aristotele, ma per rendere comprensibile logicamente
e mostrare la possibilità razionale della libera accettazione di una
verità soprannaturale che, per quanto indimostrabile razionalmente, non
contrasta con le leggi della ragione, anzi ne è conferma e potenziamento,
come la stessa storia della filosofia dimostra con gli sviluppi speculativi
determinati dalla Rivelazione.
Per comprendere i motivi
intrinsecamente razionali della adozione di Aristotele da parte di san Tommaso
è utile riportare qui il brano centrale di un celebre saggio di Etienne Gilson,
il quale ha saputo mettere in evidenza come l'aristotelismo di Tommaso d'Aquino
sia una necessità teoretica, derivante dall'intuizione metafisica
dell'intelligibilità intrinseca del reale, non sufficientemente garantita dal
platonismo; san Tommaso non esita per questo ad allontanarsi da sant'Agostino;
egli aveva ben visto - scrive Gilson - che ci sono solo due opzioni metafisiche
fondamentali:
"Da una parte c'è Platone
che porta alle estreme conseguenze logiche il materialismo e lo scetticismo dei
filosofi, i quali dicevano che non esistono altro che corpi e altra conoscenza
che la sensazione; i corpi però sono soggetti a incessante mutamento e i sensi
si contraddicono continuamente, e quindi così noi non possiamo attingere la
verità; è per questo che Socrate rinuncia alla filosofia della natura e si
dedica alla filosofia morale, mentre il suo discepolo Platone trasporta nel
mondo intelligibile delle idee tutta la realtà e tutta l'intelligibilità delle
cose; e da allora in poi tutti i platonici considereranno questo mondo di forme
pure come la sorgente di ogni efficacia e di ogni verità. Dalla parte opposta
c'è Aristotele che respinge lo scetticismo implicito nell'opzione platonica e
porta alle estreme conseguenze questo rifiuto, pensando che ci sia un elemento
di stabilità negli enti sensibili e che i sensi non si ingannano quando
giudicano in condizioni normali del loro proprio oggetto; di conseguenza, le
cose sono necessariamente intelligibili in sé stesse [ ... ]. Optare a
favore della dottrina di Aristotele contro quella di Platone significava per
san Tommaso ricostruire la filosofia cristiana su basi diverse da quelle di
sant'Agostino" [Pourquoi saint Thomas a critiqué saint Augustin,
in "Archives d'Histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age", 1
(1926-1927)].
La metafisica e la teologia naturale.
La soluzione del problema metafisico
per san Tommaso costituisce il fondamento indispensabile, il presupposto
necessario di tutta la speculazione filosofica. La trattazione di questo
problema, perciò, occupa la sua indagine in tutte le opere, come elemento
inscindibile di tutti i problemi filosofici, di tutti i settori del sapere non
solo naturale, ma anche della Rivelazione. Proprio per questo si dice
giustamente che san Tommaso è genio eminentemente metafisico che completa,
approfondisce e supera lo stesso Aristotele. Tutto il problema metafisico
infatti, è semplificato e trattato da Tommaso, alla luce della nozione di
essere, che la ragione possiede come prima conquista, sia di sé che di ciò
che la circonda.
Siamo già di fronte a una profonda
innovazione del problema che non ci può permettere di ripetere, con molti
critici, che la metafisica di Tommaso altro non è se non una elaborazione di
quella di Aristotele. Se tutta la scienza metafisica per Tommaso è fondata
sulla nozione di essere, ne consegue la necessità di una coscienza
metafisica; perciò per apprendere e individuare l'oggetto sarà necessaria
la coscienza del soggetto apprendente ed individuante. Come si vede Tommaso non
considera l'oggetto come qualcosa di assolutamente indipendente dal soggetto,
ma lo giudica in relazione al soggetto, cioè in rapporto alla coscienza
con cui detto oggetto è appreso e giudicato; il primo principio della
metafisica tomista è sintesi di soggetto e oggetto, quale prima autorivelazione
della ragione che si apprende come coscienza dell'essere in quanto verum,
cioè intelligibile; la verità, infatti, è per san Tommaso percezione
intellettuale dell'adeguamento del soggetto conoscente all'oggetto conosciuto:
"adaequatio intellectus ad rem" o "adaequatio intellectus
et rei" (Summa theologiae, I, q. 16, a. 1). Perciò errano
coloro che giudicano il pensiero dell'Aquinate alla luce di un arido
oggettivismo, ignorando la ricchezza e la fecondità del soggetto, quali il
genio di Agostino aveva saputo valorizzare e Tommaso ha fatto sue.
L'essere e l'essenza
Per Tommaso la realtà è l'essere degli
enti; non solo l'opaca e insignificante presenza del singolo ente quale mi
appare nelle sue manifestazioni fenomeniche, percepite dai sensi, ma l'essere
in quanto tale, cioè la realtà appresa e intesa razionalmente in un "quid"
che è e, per il fatto che è, esiste. Dalla coscienza ontologica
perciò abbiamo l'essere come primo valore metafisico e l'esistenza
quale effetto immediato e necessario di essa. La coscienza
ontologica, dunque, è la valorizzazione dell'essenza aristotelica, mediante l'"actus
essendi" che per Tommaso ne è la base, il fondamento: l'atto di
essere, infatti, è l'essere stesso come atto; nei suoi confronti, la potenza
che lo riceve e lo limita è appunto l'essenza; di qui che tra l'essere e
l'essenza di un ente concreto debba esserci una specifica distinzione. Tale
distinzione è necessaria per comprendere la diversità di valore che intercorre
tra l'essenza (astratta) di un ente e la sua concreta esistenza; infatti
non tutti gli enti, per il fatto che si apprendono come possibili in base a
un'essenza astratta conosciuta, hanno di fatto l'esistenza, in quanto questa è
una determinazione attuale percepita dalla coscienza ontologica tramite i
sensi; quindi è un aspetto particolare dell'ente che connette l'oggetto
al soggetto che l'ha appreso come ente, cioè come essenza che si dà nella
realtà, in base alla nozione di essere, nozione universalissima e trascendente
che sostanzia la coscienza soggettiva. L'esistere dunque, non è
l'essere, ma ne è una determinazione, una particolare attuazione che la
ragione coglie e giudica attraverso i sensi che lo avvertono.
Le categorie
Come abbiamo visto, l'essenza per
san Tommaso è quello che era per Aristotele, ossia "ciò che una cosa
è", mentre l'esistenza è attività di ciò che è, atto di essere;
così la sostanza si può dire sinonimo di ente, in quanto è considerata "ente
in sé esistente" mentre l'accidente è ciò che non ha in sé la
ragione di essere; perciò "accidens est ens in alio". La causa è
l'origine dell'ente mentre l'effetto ne è il prodotto; il fine è
il motivo fondamentale di tutti gli atteggiamenti esistenziali dell'essere,
nelle sue determinazioni sia generiche che specifiche; tali determinazioni, per
san Tommaso, sono appunto le categorie.
L'essere dunque è la "prima
notitia" metafisica della realtà, sia soggettiva che oggettiva, intesa
come nozione originaria della mente che crea la coscienza ontologica. Non si
tratta di una concezione dell'essere statica, alla maniera di Parmenide, ma di
una visione metafisica realistica, con fondamento logico nella prima
evidenza del senso comune, che è quella del mondo come insieme di enti diversi;
la nozione tommasiana dell'essere non esclude insomma la molteplicità del
reale. L'essere infatti è conosciuto da noi come "esse commune
rerum", l'atto fondamentale e originario che cogliamo come elemento
comune di un insieme innumerevole di enti, tra i quali noi stessi e le cose che
apprendiamo per mezzo della sensazione. In tal modo tornano a risplendere di
nuova luce il concetto socratico, l'idea di Platone, l'essenza
aristotelica e la verità agostiniana, in una sintesi metafisica che
rivela l'armonia e il progresso con cui san Tommaso contribuisce alla storia
del pensiero.
Sicché il mondo della nostra
esperienza è costituito da una molteplicità di enti; ciascuno di essi risulta
composto di materia e di forma: di materia, intesa come capacità o
potenzialità a divenire; di forma, come attuazione di detta capacità o
possibilità.
Ogni ente, nella sua individualità e
perfettibilità, è ordinato alla realizzazione di sé, anche in rapporto con gli
altri esseri. Si tratta di una molteplicità di esseri di cui la ragione non
solo constata l'ordine e l'armonia, ma cerca l'origine, cioè la causa, per
possederne il valore. Ora il molteplice, essendo per sua natura contingente,
deve postulare l'Uno necessario; vi deve essere cioè un principio
trascendente e assoluto il quale, oltre a costituire l'efficienza e il fine
di tutti gli esseri, come aveva insegnato Aristotele, deve esserne, per san
Tommaso, causa libera, assoluta ed eterna, che lo produce dal nulla e
lo governa con quella sapienza e armonia con cui si manifesta.
Gli enti molteplici di cui è
costituito l'universo sono distinti l'uno dall'altro per la loro individualità,
caratterizzata dalla propria natura ontologica di materia e forma; sicché il
principio della individuazione dell'essere è, per san Tommaso, "materia
quantitate signata", cioè la determinazione quantitativa che la
materia riceve dalla forma: "materia quae sub determinatis
dimensionibus consideratur". Ciò riguarda la metafisica del molteplice
cosmico, cioè la cosmologia; il mondo però è considerato da san Tommaso
come un organismo in cui ciascuna parte, pur avendo ordine e individualità per
sé stessa, contribuisce efficacemente all'armonia e perfezione dell'insieme.
Queste sostanze, al pari degli
esseri cosmici, postulano metafisicamente una causa da cui hanno avuto il
loro essere. Tale causa non può essere un cieco impulso, inteso come
animazione della materia: se così fosse non ne potrebbe risultare ordine e
perfezione; né può essere una natura materiale, giacché si confonderebbe con il
molteplice, e non potrebbe essere causa delle sostanze immateriali; non può
essere neppure una potenza misteriosa, immanente negli esseri. inaccessibile
alle capacità razionali, poiché è proprio la ragione a rendersi conto
dell'impronta razionale e trascendente di cui è sostanziato l'intero universo.
Ne consegue che il molteplice, sia materiale che spirituale, è effetto di una
causa, o meglio è opera di un Essere incausato e causante, trascendente e
personale, la cui natura contiene in sé in modo eminente, infinito
ed eterno, tutto il valore ontologico e perfettivo che la ragione
riscontra nell'insieme degli esseri molteplici. Siamo giunti così al culmine
del problema, alla ricerca cioè dell'Essere-causa, dell'Uno-principio, donde ha
origine il molteplice degli enti e anche il fine del loro dinamismo. Tale
indagine ci trasferisce dal problema metafisico a quello teologico, rimanendo,
s'intende, sempre nel campo della ragione naturale.
Dio è l'Essere come Soggetto e
Persona, "ipsum esse subsistens", "ens participialiter
sumptum", che liberamente crea e perciò trascende l'universo: è causa
assoluta a cui ciascuna realtà deve la sua esistenza e tutte le sue
perfezioni, sia attuali che possibili. Ossia, "ens" come
participio presente del verbo "esse"; qui san Tommaso si rifà
sempre, nei suoi scritti, a come Dio si è rivelato a Mosè (cfr. Libro
dell'Esodo, 3, 14) dicendo che il suo nome proprio è "Colui che
è" (in ebraico Jahvè); dai primi filosofi cristiani (che abbiamo studiato
nel cap. VI) ai grandi dottori scolastici, la metafisica ha come fulcro
speculativo, assolutamente originale rispetto ai Greci, l'autorivelazione di
Dio, quella che Etienne Gilson chiama la "metafisica dell'Esodo" (cfr
L'esprit de la philosophie médiévale, Vrin, Parigi 193 l; God and
Philosophy, Yale Univ. Press, New Haven 1939). La sua natura è infinita
e onnipotente, la sua essenza è perfezione in atto, perciò
nel suo essere non si può dare alcuna distinzione tra essenza ed esistenza. Tale
distinzione infatti, è necessaria per spiegare la costituzione ontologica degli
enti molteplici e finiti, ossia "entia nominaliter sumpta", nei
quali l'essenza indica la potenza, e l'esistenza esprime l'attuazione
di tale potenza; ma in Dio non può aver luogo alcuna potenza, in quanto la
sua essenza è atto purissimo, cioè perfezione totale e inesauribile
eternamente in atto.
Ma - si domanda giustamente Tommaso
-, come si spiega la creazione? Se Dio è purissimo atto, semplicità assoluta,
come può produrre l'essere di enti materiali, limitati, diversi tra loro e, si
può dire, contrastanti con la natura del Creatore? La sapienza classica in genere,
specialmente con Platone e Aristotele, aveva affermato l'eternità del mondo,
ma rimaneva la difficoltà metafisica secondo la quale non si può ammettere
l'eternità di enti per loro natura contingenti, mutabili e corruttibili,
poiché l'eternità è immutabilità, incorruttibilità, necessità e perfezione. Né
d'altra parte il mondo può essersi dato da sé l'esistenza, giacché ogni effetto
dipende da una causa che l'ha prodotto e il contingente non può essere causa
di sé stesso; rimane da vedere come ha fatto Dio a crearlo. La creazione è attività
libera, propria alla natura divina, con la quale, ab aeterno, si
hanno dal nulla le creature. Dio non genera il mondo, non produce gli esseri
derivandoli (come immaginava Plotino) dalla sua essenza spirituale, ma li trae
dal nulla con l'atto eterno del suo pensiero onnipotente; perciò si spiega
come la natura cosmica, pur essendo diversa da quella spirituale, sia anch'essa
effetto della creazione, della perfezione e della provvidenza di Dio. Sicché la
creazione di cui parla la Rivelazione, esaminata alla luce critica della
ragione, costituisce per san Tommaso un valore positivo della ragione, una
conquista irrinunciabile del pensiero. Ciò non significa che l'Aquinate voglia
razionalizzare la fede, sottoponendola e costringendola indebitamente al vaglio
della comprensibilità meramente razionale, ma si tratta di una elevazione delle
facoltà umane, con la quale la ragione acquista sempre più coscienza del suo
valore non contrastante ma in relazione intima con le verità eterne che Dio ha
rivelato all'uomo.
Le cinque "vie" per
arrivare alla certezza metafisica che esiste Dio come prima Causa efficiente e
finale
Alla stessa maniera san Tommaso
procede per provare l'esistenza di Dio; a tale proposito osserva che
l'argomento di sant'Anselmo (cfr cap. IX) non costituisce una prova vera e
propria dell'esistenza di Dio, poiché in esso non viene distinto
metafisicamente l'essere logico (o possibile) da quello reale (o sussistente).
Non a priori dunque ma a posteriori si può provare l'esistenza di
Dio, precisamente attraverso cinque argomenti, le celebri "cinque
vie", che si richiamano in parte al processo dimostrativo aristotelico e
che sono elencate nella Summa theologiae, 1, q. 2, a. 3 come cinque
diversi argomenti (nella Summa contra gentiles san Tommaso adopera
invece solo l'argomento del divenire, della causalità, dei gradi di perfezione
e dell'ordine: manca la "terza via").
1) La prima via riguarda il moto,
ossia il movimento a cui tutte le cose sono soggette e che implica un "motore",
ossia una causa motrice: "Se dunque l'ente da cui una cosa è mossa -
insegna san Tommaso - è a sua volta mosso [cioè, è soggetto al
movimento], è necessario che sia mosso da altro e questo da altro ancora: ma
non si può così procedere all'infinito, perché allora non vi sarebbe un primo
motore e per conseguenza non vi sarebbe nessun motore, in quanto i motori
secondi non muovono se non sono mossi dal primo [...]; perciò è
necessario giungere a un primo motore non mosso da altro: in esso tutti riconoscono
Dio". Qui, come nelle altre "viae", il punto di partenza
della dimostrazione non è di tipo "fisico" (in senso moderno, cioè
limitato ai corpi materiali e alla loro valutazione in termini di scienza
sperimentale) ma di tipo metafisico: il termine "motus", applicato -
come fa san Tommaso - a tutti gli enti in generale, indica il
"divenire", il passaggio dalla potenza all'atto, ossia la condizione
metafisica di base di ogni ente limitato e contingente, quali sono
assolutamente tutti gli enti creati: solo Dio infatti è l'Essere perfetto che
non "si muove", nel senso che non può né perdere né acquisire una sua
perfezione entitativa. Fatta questa precisazione si capisce che le obiezioni
moderne alla "prima via" che mettono in questione la concezione del
"moto" in senso fisico (cioè secondo quello che le scienze
fisico-matematiche considerano moto nel tempo e nello spazio) si basano su un
fraintendimento: san Tommaso non parla solo di moto "locale" (nel
luogo e nel tempo) né in generale di moto "fisico", ma di moto in
senso metafisico, che è una evidenza di senso comune, perché tutti si accorgono
che le cose cambiano incessantemente, in tutti i sensi. Si tratta insomma
dell'evidenza da cui partiva Eraclito quando ricordava che tutti gli enti
dell'esperienza subiscono il movimento.
2) La seconda via ha per oggetto la causa
efficiente e consiste in uno sviluppo dell'argomento del motore immobile;
tutto il creato infatti è ordinato da una connessione di cause efficienti, le
quali, a loro volta, essendo effetti di altre cause, l'una connessa all'altra,
richiedono necessariamente un principio efficiente che non sia effetto di altri
e sia causa prima di tutte: "Dunque è necessario - insegna san
Tommaso - porre una prima causa efficiente che tutti chiamano Dio".
3) La terza via è connessa alle
prime due e riassume l'esigenza metafisica secondo la quale la contingenza degli
enti implica l'essere necessario, e non un necessario relativo ma un necessario
assoluto: "Perché - afferma san Tommaso - bisogna porre qualcosa
che sia necessario per sé e non abbia in altro la causa della propria
necessità, ma sia causa della necessità degli altri".
4) La quarta via si occupa dei "gradi
dell'essere", e così dalle perfezioni limitate si giunge a quella
infinita; ogni essere infatti contiene un grado di perfezione rispondente alla
sua natura: "Esiste dunque qualcosa - insegna san Tommaso - che
è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione di tutti gli esseri
che noi chiamiamo Dio".
5) La quinta via ha per oggetto l'ordine
sapiente che tutti gli enti, sia razionali che irrazionali, esprimono,
essendo per natura diretti sempre a un fine che indica bene e perfezione:
"Ora - conclude san Tommaso - le cose prive di conoscenza non
tendono al fine se non sono dirette da un essere, conoscente e intelligente,
come la freccia dell'arciere. Vi è dunque un essere intelligente da cui tutte
le cose naturali sono ordinate a un fine, e questo essere noi lo chiamiamo Dio".
L'esperienza comune è il punto di
partenza delle "vie"
Come si vede, il processo
dimostrativo tomistico è caratterizzato da una base oggettiva ed empirica che
lo differenzia da quello dell'agostinismo (sant'Agostino, sant'Anselmo, san
Bonaventura, ecc.). San Tommaso infatti non accetta la possibilità di una
conoscenza di Dio per immediata e mistica intuizione, ma procede secondo una
indagine schiettamente razionale nella quale i dati fondamentali
dell'esperienza sono gli strumenti di cui la ragione si serve per acquistare la
coscienza critica dell'esistenza di Dio. Con ciò non si può affermare che
l'Aquinate non abbia fiducia nella contemplazione mistica; questa per san
Tommaso sarà efficace come coronamento ed elevazione, allorché la ragione dal
suo livello naturale si trasferisce coscientemente e liberamente nel livello divino,
non più attraverso l'esperienza, ma per mezzo della Rivelazione e della fede; a
prova di ciò basta sapere che san Tommaso è uno dei più grandi mistici della
storia.
Lo schema logico delle "cinque
vie" conferma che si tratta di un'argomentazione a base fortemente
empirica e pertanto capace di ottenere il consenso di chiunque comprenda
l'universalità e l'evidenza degli aspetti che san Tommaso prende in
considerazione per cercarne filosoficamente il fondamento. Ecco come Battista
Mondin presenta tale schema logico, basato su quattro momenti: "1) Si
attira l'attenzione su un determinato fenomeno (il divenire, la causalità
secondaria, la possibilità, i gradi di perfezione, il finalismo); 2) si
evidenzia il suo carattere relativo, dipendente, causato, vale a dire la sua
contingenza: ciò che è mosso da altri; le cause seconde sono a loro volta
causate; il possibile riceve l'essere da altri; i gradi di perfezione ricevono
la perfezione da un massimo; il finalismo richiede sempre intelligenza, mentre
le cose naturali in sé stesse ne sono prive; 3) si mostra che la realtà
effettiva, attuale di un fenomeno contingente non si può spiegare facendo
intervenire una serie infinita di fenomeni contingenti; 4) si conclude dicendo
che l'unica spiegazione valida del contingente è Dio: Lui è il motore immobile,
la causa incausata, l'essere necessario, il sommamente perfetto, l'intelligenza
ordinatrice suprema" [BATTISTA MONDIN, Il sistema filosofico di
Tommaso d'Aquino, II ed., Massimo, Milano 1992, p. 195]. Da questo
schema logico deriva che ciascuna "via" e tutte le "vie"
nel loro insieme, pur essendo una rigorosa e geniale dimostrazione metafisica,
confermano ed esaltano la certezza che di Dio hanno tutti gli uomini per via
del senso comune; tale certezza è intuitiva e universale (sia pure non espressa
o male espressa), ma pur sempre basata su una inferenza, non sull'evidenza
immediata di Dio. Infatti san Tommaso, prima di esporre le prove dell'esistenza
di Dio ha cura di ribadire che noi non possiamo avere una conoscenza di Dio immediata,
ma dobbiamo partire da ciò che è immediato - il mondo, le cose
dell'esperienza conosciute attraverso i sensi - per arrivare con il
ragionamento all'evidenza (mediata, appunto) di una prima causa trascendente,
che è l'Essere sussistente. San Tommaso rifiuta dunque ogni ipotesi di
ontologismo; ma, se si comprende bene la differenza tra "evidenza
immediata" e "evidenza mediata da una inferenza", si comprenderà
anche che quest'ultima può essere non solo scientifica (cioè
consapevole, rigorosa e capace di dialettica per convincere gli altri) ma anche
spontanea, intuitiva, popolare, comune a tutti (come è appunto la
certezza del senso comune), e quella prima non fa che confermare questa
seconda. Su questo punto, insomma, non c'è sostanziale disaccordo tra
san Tommaso e san Bonaventura.
Dio è conosciuto, sia pure
imperfettamente, nella sua essenza, grazie all'analogia dell'essere
Dio dunque esiste, noi lo conosciamo
certissimamente come l'Essere, in quanto è Lui la causa che crea dal
nulla l'universo e lo governa con ordine e amore infinito. Ma che cosa si può
sapere intorno alla divina essenza? Come può la ragione umana comprendere la
natura di Dio? Tale pretesa non contiene forse l'errore dell'antropomorfismo? E
come può l'uomo ragionare di Dio senza evitare il pericolo di tale errore? Sarà
forse costretto a concludere con l'agnosticismo, rifugiandosi poi nel
misticismo irrazionalistico? San Tommaso, come già si è osservato, non ha
queste preoccupazioni, e dimostra con semplicità e chiarezza come il pericolo
dell'antropomorfismo e lo scoglio dell'agnosticismo teologico possono essere
nettamente eliminati con la dottrina dell'analogia.
Per l'intelligenza di tale dottrina
è necessario anzitutto tenere presente la triplice distinzione di termini, o
concetti, che caratterizza le relazioni tra gli esseri, il loro genere e la
loro specie, cioè il triplice concetto di equivocità, univocità e analogia:
a) il termine equivoco riguarda
il concetto che si applica a più esseri con significato del tutto diverso, come
per es. il termine "gallo" attribuito all'abitante della Gallia e il
termine "l'orsa" riferito alla costellazione, sono termini diversi e
contrastanti (quindi equivoci) da quello che si riferisce a due animali, il
gallo e l'orsa, propriamente detti.
b) il termine univoco è quello che
conviene a molti esseri in modo identico, come ad es. il termine di animale
bruto a ciascun animale e il termine di uomo a ciascun individuo razionale;
c) il termine analogico è quello che
si applica a molti esseri con un modo di significare che è in parte equivoco e
in parte univoco; si tratta di "termini medi - aveva insegnato
sant'Alberto Magno - tra quelli univoci e quelli equivoci, e sono attribuiti
agli oggetti secondo la sostanza, rispetto a uno a cui sono proporzionati".
Ciò premesso, san Tommaso esclude
che si possa parlare di Dio in senso equivoco (contro l'agnosticismo) o
in senso univoco (contro l'antropomorfismo); rimane perciò il senso analogico,
con cui si giunge alla coscienza della essenza divina indirettamente, secondo
l'analogia che si può stabilire criticamente per via di affermazione,
rimozione ed eminenza. Tali modi di concepire analogicamente Dio -
che san Tommaso riprende dallo Pseudo-Dionigi (cfr cap. IX, 1) - consistono
concretamente in questo:
I) affermazione significa
considerare che ogni creatura contiene un complesso di perfezioni, come
l'essere, l'esistere, la vita, l'intelligenza, la libera volontà, la bontà, la
bellezza, ecc.; queste perfezioni sono valori positivi che la creatura non si
può dare da sé, ma li riceve dall'autore che dal nulla l'ha creata. Ora,
siccome nessuno può dare ciò che non ha, ne consegue che Dio deve avere in sé
almeno quelle perfezioni di cui sono fornite le creature;
II) rimozione significa che,
negli enti, oltre alle perfezioni si notano le imperfezioni, caratterizzate dal
limite metafisico al quale sono soggetti, come la finitezza, la potenzialità,
la gradazione (da quelli meno perfetti a quelli ontologicamente più perfetti).
Queste imperfezioni sono dovute al fatto che tutte le creature per natura sono
soggette alla causa che le ha tratte dal nulla, cioè a Dio. Sicché tali
imperfezioni devono essere rimosse dalla nozione della natura divina, in quanto
Dio è atto purissimo, Essere metafisicamente per sé sussistente;
III) eminenza vuol dire che,
se le perfezioni degli esseri creati sono proporzionate al loro limite e al
loro grado di essere, è evidente che nella natura divina si devono trovare in
grado eminente, cioè illimitate e infinite, secondo l'infinità e l'eternità di
Dio stesso. Da ciò si deduce che Dio va concepito come "Colui che è",
cioè pienezza di essere, di vita, d'intelligenza, di libera volontà; è tutto
l'amore, tutta la giustizia, tutta la potenza, tutta la sapienza, la verità
assoluta.
Su queste basi critiche - la
teologia razionale, che giustifica al livello scientifico le certezze del senso
comune, che costituiscono già di per sé i necessari "praeambula
fidei" - l'Aquinate costruisce l'edificio della teologia
soprannaturale (da lui denominata "sacra doctrina") alla luce
della Rivelazione nonché delle dottrine dei Padri e di tutta la tradizione
cristiana, con tale coerenza e profondità da divenire nei secoli, fino a oggi,
la guida riconosciuta dei teologi.
Analogia di attribuzione e di
proporzionalità
San Tommaso distingue una duplice
forma di analogia: di attribuzione e di proporzionalità. L'analogia
di attribuzione intercorre tra realtà che possono essere designate con uno
stesso termine, ma in ciascuna delle quali la nozione significata dal termine
si trova in modo del tutto diverso, in quanto in una di tali realtà la nozione
stessa si trova intrinsecamente e formalmente, mentre in tutte le altre
realtà si trova in modo estrinseco e solo in dipendenza da quella unica
cosa e in ordine ad essa; quest'ultima si chiama "analogato
principale" mentre le altre realtà si chiamano "analogati
inferiori". L'esempio classico è quello della salute, nozione analoga che
viene attribuita in maniera propria all'essere vivente (analogato principale) e
in modo subordinato e derivato ai cibi, all'aria, agli esercizi fisici, ecc.
(analogati inferiori). è, chiaro che il rapporto tra l'ente analogato
principale e gli enti analogati inferiori è un rapporto di causalità estrinseca
(efficiente e finale): nell'esempio che abbiamo fatto, certi cibi e certi
esercizi fisici vengono detti "sani" in quanto causano (contribuiscono
a causare o mantenere) la sanità dell'uomo (cfr Quaestiones disputatae de
veritate, q. 21, a. 4; In I librum Sententiarum, d. 19, q. 5, a. 2).
L'analogia di proporzionalità si verifica invece tra termini che hanno come
referente degli enti che posseggono tutti intrinsecamente la nozione indicata
nel termine stesso, sia pure non in modo identico ma solo somigliante;
l'analogia di proporzionalità, a sua volta, si suddivide in "propria"
e "metaforica" (quest'ultima è usatissima in poesia, ma anche nel
linguaggio comune, come quando l'aggettivo "ridente" si applica a una
cittadina). Il caso più importante in cui il linguaggio umano fa uso dell'analogia
di proporzionalità propria è quando si dice che il mondo e Dio
"sono": le cose create e il Creatore hanno in comune l'essere, anche
se "sono" in modo diverso; li unisce una somiglianza proporzionale
propria, avendo con l'essere un intrinseco rapporto di possesso, quantunque in gradi
e in modi del tutto diversi (Quodlibetales, 9, a. 3). "La
dipendenza causale - osserva Raimondo Spiazzi - è il fondamento
ontologico che rende possibile l'analogia di attribuzione nell'ordine
gnoseologico; la trascendenza delle proprietà analoghe - che si infrangono nei
diversi termini proporzionali costituendoli in reciproche somiglianze - è il
fondamento dell'analogia di proporzionalità nell'ordine gnoseologico. Se noi
possiamo stabilire dei rapporti o proporzioni o analogie tra la creazione e Dio
è perché nella realtà stessa esistono dipendenze e somiglianze: fondamenti di
analogia" [RAIMONDO SPIAZZI, Natura e grazia: fondamenti
dell'antropologia cristiana secondo san Tommaso d'Aquino, Ed. Studio
Domenicano, Bologna 1992, p. 46].
Fecondità filosofica del
principio di analogia
Gli studiosi contemporanei hanno
riscoperto nel principio tomasiano di analogia un fecondo indirizzo
metodologico, ossia "un modo di argomentare rigoroso che, in forza di
quell'intellettualismo possibile grazie all'analogia e che si colloca agli
antipodi del razionalismo, non elimina il mistero (come giustamente pretende la
sensibilità contemporanea) ma non rinuncia neppure a usare discretamente della
ragione anche a quei livelli superiori che si rivelano decisivi per dare significato
alla vita umana. [...] In altri termini, l'atteggiamento filosofico
tomasiano, adeguatamente essenzializzato, sembra in grado di contribuire a
gettare un ponte tra i due filoni fondamentali del pensiero contemporaneo tra i
quali c'è scarsa comunicazione: da un lato il filone empiristico e dell'analisi
linguistica, con la sua esigenza di chiarezza, di rigore e di rapporto con le
scienze; dall'altro il filone del pensiero esistenziale ed ermeneutico, con la
sua domanda di profondità" [ANGELO CAMPODONICO, Alla scoperta
dell'essere: saggio sul pensiero di Tommaso d'Aquino, Jaca Book, Milano
1986, p. 205]. San Tommaso al riguardo si esprime invero in modo assai
esplicito, distinguendo ciò che del mistero ci è permesso di conoscere in virtù
dell'analogia e ciò che invece rimane inconoscibile: "Per mezzo degli
effetti - egli scrive - noi sappiamo che Dio esiste e che Egli, in
quanto causa di tutti gli enti, è del tutto trascendente rispetto a essi e del
tutto diverso. Questo è l'estremo e più perfetto esito della nostra conoscenza
nella vita presente, e per questo dice giustamente Dionigi nella Teologia
mistica che noi ci uniamo a Dio senza poterlo conoscere; infatti, di Lui
sappiamo bene che cosa non è, ma non possiamo capire affatto che cosa sia in
positivo. Per questo stato nostro di ignoranza riguardo alla conoscenza più
sublime [sublimissimae cognitionis ignorantia], la Scrittura dice che
Mosè si avvicinò alla nube impenetrabile nella quale era Dio" (Summa
contra gentiles, III, c, 49).