lunedì 30 dicembre 2013

Pluralismo sociale

La società oggi ha un’articolazione complessa e un’impronta pluralistica che inducono necessariamente l’esigenza di una vita civile dignitosa ma ciò presuppone il confronto e la scelta di modalità di convivenza che richiedono di mettersi d’accordo, di collaborare. La frammentazione rende, inoltre, liquida e incerta la società stessa e riduce, di conseguenza, l’area dei valori comuni e la predisposizione a vi è il rischio che la convivenza diventi impraticabile. Non si può, infatti, far parte di una società e insieme essere separati dagli altri: ci vuole uno scopo comune ed uno scopo minimo condiviso. La frammentazione favorisce il pluralismo morale che genera molteplicità e diversità dei valori individuali e sociali: ciò indica che la componente fondamentale del bene comune è quella morale. Se non vi è una base comune morale e non vi sono alcuni valori fondamentali condivisi, non vi è società. Infatti, senza la condivisione di valori, che qui si intendono come quella concezione desiderabile, individuale e collettiva, che influenza l’agire degli individui, selezionando i modi, i mezzi ed i fini, la società tende a sciogliersi in un grande mercato basato sulla produzione, lo scambio, il consumo. Il punto fondamentale è l’acquisizione di una dote personale di valori da confrontare con gli altri nel momento in cui l’individuo comincia ad interagire con loro quando inizia a far parte di una qualsiasi componente sociale, quando non è più da solo e per agire deve mettersi d’accordo con gli altri. Questa dote è il risultato di un processo intergenerazionale che ha trovato 
storicamente nella famiglia il luogo tradizionale di proposta, assunzione e condivisione di valori comuni. Volendo perseguire il bene comune gli individui devono inevitabilmente condividere i loro valori per associarli allo scopo comune. La prima resistenza a questa condivisione è proprio la conseguenza della fatica e della pazienza con le quali ciascuno ha elaborato e fatta propria la scala dei suoi valori. La seconda resistenza si incontra nel momento in cui le proprie convinzioni sono minoritarie rispetto a quelle degli altri. La resistenza più forte si manifesta, infine, con la messa in discussione dei cosiddetti valori non negoziabili, ossia quei valori morali di indirizzo e disciplina della convivenza che sono considerati assoluti. Questa resistenza è più forte poiché la sua non negoziabilità impone il rifiuto delle ragioni dell’altro. Come trovare valori condivisibili, allora? Innanzitutto va condivisa l’originalità di ciascun essere umano, la sua autenticità e irripetibilità. Quindi il rispetto degli altri che è la base dei rapporti umani e serve ad accettare e valorizzare le differenze di genere, razza, età, religione e visione della vita. Va condivisa la possibilità di cambiare in meglio la società senza pregiudizi e con molta convinzione. La fiducia come impulso vitale verso l’esistenza e la libertà di scegliere e di far scegliere. Infine l’amore come capacità di donarsi all’altro, considerato come nostro simile. Da questi valori condivisibili sarà possibile e meno difficile la ricerca e la costruzione del bene comune.

martedì 24 dicembre 2013

Teologia sacramentale dei Padri Riformatori

La teologia sacramentale rappresentava, agli occhi dei Riformatori, quel che di male c’era nella teologia medievale. Riconoscevano il bisogno di giungere a una versione più antica e più semplice della teologia cristiana. Per loro la teologia sacramentale si presentava come una pianta che necessitava di una potatura radicale. Venne lanciato, così, un attacco contro la concezione medievale del numero, della natura e della funzione dei sacramenti, riducendoli da sette a due: il battesimo e l’eucaristia.

Per ciò che concerneva la teologia dell’eucaristia, si aprì un grave contrasto tra Lutero e Zwingli, i leaders delle due ali della Riforma classica, i quali non riuscirono a trovare un’intesa sul significato della presenza di Cristo nell’eucaristia.
Secondo la teoria classica della transustanziazione, il pane e il vino della messa, dopo la consacrazione, pur mantenendo la loro apparenza esterna, sono trasformati rispettivamente nella ‘sostanza’ del corpo e del sangue di Cristo. Ma i Riformatori non erano dello stesso pensiero, in quanto la messa sarebbe divenuta una sorta di ‘ripetizione’ continua del sacrificio di Cristo.
La Riforma, invece, dava risalto al tema dell’adattamento divino alla debolezza umana, un’idea che si rifà a Calvino, il quale faceva questo ragionamento: tutti i buoni oratori conoscono i limiti intellettuali del loro uditorio e adattano il loro modo di esprimersi e modificano il proprio linguaggio, per venire incontro alle necessità del loro uditorio evitando parole e concetti difficili, e sostituendoli con locuzioni più adeguate. Ebbene, Dio fa lo stesso: si adatta alle nostre limitazioni, scende al nostro livello usando un linguaggio di immagini vigorose che gli permettono di rivelarsi a una grande varietà di persone.

Il fatto che Dio usi dei mezzi molto umili per rivelarsi, non implica alcuna debolezza o carenza da parte sua; piuttosto, la necessità di adottare mezzi espressivi, rispecchia la nostra debolezza e le nostre limitazioni, che Dio riconosce e di cui tiene conto. Egli usa svariati modi per creare e sostenere la fede: parole, concetti, analogie, modelli, segni e simboli. Il pane e il vino, vanno intesi come un elemento importante in questo arsenale di risorse. Dio ha così aggiunto alla sua Parola dei segni visibili e tangibili del suo favore e della sua misericordia. Insomma, una sorta di adattamento alle nostre limitazioni, al bisogno di avere dei segni. Il pane e il vino sono, per l’appunto, dei segni sacramentali che accrescono la nostra fede in Dio, ci rassicurano sulla realtà della divina promessa di perdono rendendoci più facile accettarla.

Lutero spiegò il pane e il vino della Santa Cena, usando l’idea di ‘testamento’, inteso come ‘atto di ultime volontà’. Ne trattò in modo esauriente nel suo scritto “La cattività babilonese della chiesa” (1520) in Scritti politici cit., pp.253-4:
“Si chiama testamento la promessa di chi sta per morire, promessa con cui definisce la sua eredità ed istituisce gli eredi. Il testamento comporta pertanto innanzitutto la morte del testatore, e in secondo luogo la promessa di un’eredità e la designazione degli eredi […]. Ciò noi vediamo chiaramente anche nelle parole di Cristo. Egli testimonia della sua morte quando dice: ‘Questo è il mio corpo che sarà dato, questo il mio sangue che sarà versato’; nomina e precisa l’eredità quando dice: ‘in remissione dei peccati’; istituisce poi gli eredi dicendo: ‘per voi e per molti’, cioè per quelli che accettano e credono nella promessa del testatore”.


Lutero scagliò un forte attacco contro la concezione cattolica dei sacramenti, ma Enrico VIII, re d’Inghilterra, ricevuto dal papa il titolo di Fidei Defensor (difensore della fede), riaffermò l’esistenza di sette sacramenti.
Nel corso dell’XI secolo, capitò che, alcuni laici poco attenti al modo in cui ricevevano il vino, versarono sul pavimento delle chiese, quello che la teologia della transustanziazione considerava il vero e proprio sangue di Cristo. Onde evitare un incidente così forte, nel corso del XIII secolo, i laici vennero esclusi dal ricevere il vino. Per Lutero, il rifiuto di offrire il calice ai laici era un peccato. Così, l’offerta del calice divenne un segno distintivo dell’adesione alla comunità della Riforma. Ma la dottrina della transustanziazione per Lutero era un’assurdità. Per lui, ciò che si deve credere è che Cristo è realmente presente nell’eucaristia.

La teoria della transustanziazione sostiene che il pane e il vino (ossia il loro aspetto esteriore) rimangono invariati, mentre cambia la ‘sostanza’ invisibile: cessa di essere quella del pane e del vino per diventare quella del corpo e del sangue di Gesù Cristo. Lutero rifiutò come assurda questa pseudo-filosofia e chiese che l’uso di tali idee aristoteliche venisse abbandonato. Non c’era posto per tali idee nella teologia cristiana! Lutero non contestava la ‘presenza reale’, ma soltanto quel determinato modo di spiegare tale presenza. Affermava che, se si fosse potuto dimostrare che tale idea era anti-biblica, sarebbe stato il primo ad abbandonarla. Perchè secondo lui, Matteo 26:26 “Questo è il mio corpo”, era perfettamente chiaro nel suo senso letterale e non ammetteva alcun’altra spiegazione.

Andrea Carlostadio, che era stato suo collega ed amico, aveva un’opinione diversa: secondo lui, nel dire quelle parole, Cristo indicava se stesso. Non fu difficile per Lutero liquidare tale idea come un’errata interpretazione del testo. Ma gli fu molto più difficile confutare l’affermazione di Zwingli secondo cui la parola “è” era una semplice figura retorica per dire “significa”, o “rappresenta”, e non andava quindi intesa letteralmente. La si doveva accostare ai casi in cui Gesù disse: “Io sono la porta”, o “Io sono la via”, come vedremo anche più avanti.

Zwingli era cappellano delle milizie della Confederazione svizzera. Ispirandosi all’uso militare del giuramento, Zwingli spiegò che il “sacramento” è sostanzialmente una dichiarazione di fedeltà che un individuo fa a una comunità. Come il soldato giura fedeltà al suo esercito, così il cristiano giura fedeltà ai suoi correligionari cristiani. Per Zwingli il sacramento è il mezzo con cui una persona dimostra alla chiesa di voler essere, o di essere ormai, un soldato di Cristo.
Mentre la predicazione della Parola di Dio è l’elemento fondamentale, i sacramenti sono come il sigillo su una lettera: si limitano a confermarne il contenuto.

Il cristiano commemora l’evento storico che diede origine alla chiesa cristiana (ossia la morte di Gesù Cristo) come segno del suo impegno verso la chiesa. L’eucaristia è dunque un memoriale dell’evento storico che ha determinato il sorgere della chiesa cristiana e una pubblica dimostrazione della fedeltà del credente alla chiesa e ai suoi membri.

Zwingli spiegò l’espressione di Gesù: “Questo è il mio corpo” (Matteo 26:26), dicendo che queste parole furono pronunciate da Cristo per indicare in che modo voleva essere ricordato dalla sua chiesa. E’ come se Cristo avesse detto: “Vi affido un simbolo di questa mia rinuncia che è il mio testamento, per ravvivare in voi il ricordo di me, di modo che, quando vedrete questo pane e questo calice offerti pubblicamente in questa cena commemorativa, vi ricorderete di come sono stato dato per voi, come se allora mi vedeste davanti a voi come mi vedete ora, mentre mangio con voi”.

Per Zwingli, l’eucaristia era “un memoriale delle sofferenze di Cristo, non un sacrificio”, e le parole: “Questo è il mio corpo”, non si possono prendere alla lettera, eliminando così il concetto di una ‘presenza reale di Cristo’, teologia sostenuta invece da Lutero.
Come un uomo che parte per un lungo viaggio lontano da casa può dare a sua moglie il proprio anello perché essa lo ricordi fino al suo ritorno, così Cristo lascia alla sua chiesa un segno affinché essa lo ricordi fino al giorno in cui egli ritornerà in gloria. Questo era per Zwingli il significato che assumevano il pane e il vino usati da Gesù nell’ultima Cena.
Vediamo di seguito, quali sviluppi portarono Zwingli a questa conclusione, in antitesi col pensiero di Lutero.

Nel 1509, una piccola Biblioteca dei Paesi Bassi, richiese un inventario. Il lavoro fu affidato a un certo Cornelius Hoen, il quale scoprì che la Biblioteca conteneva un’importante collezione degli scritti dell’umanista Wessel Gansfort (1420-89). Gansfort, pur non negando la dottrina della transustanziazione, sviluppava l’idea di una comunione spirituale tra Cristo e il credente.
Hoen, attirato da quest’idea, la rielaborò come critica radicale alla dottrina della transustanziazione, e la redasse sotto forma di lettera.
In questa lettera Hoen sostiene che la parola est non dev’essere interpretata letteralmente, come se significasse “è”, o “è identico a”, bensì come significat, “significa”, “indica”. Per esempio, quando Cristo dice: “Io sono il pane della vita” (Gv 6:48) evidentemente non s’identifica con una pagnotta, e neppure con il pane in generale. Qui la parola “è” va intesa in senso metaforico, non letterale. I profeti dell’AT hanno certamente detto che Cristo sarebbe “divenuto carne (incarnatus)”, ma ciò doveva avvenire una volta, e una volta sola. “In nessun momento i profeti annunziarono, o gli apostoli predicarono, che Cristo sarebbe, per così dire, ‘divenuto pane (impanatus)’ tutti i giorni mediante l’intervento di un qualsiasi prete che offrisse il sacrificio della messa”.

Hoen espresse l’idea che l’eucaristia sia come un anello che un giovane dà a una ragazza per rassicurarla sul proprio amore per lei. E’ un pegno d’amore: un’idea che si ritrova in tutti gli scritti di Zwingli su tale argomento. Gesù aggiunse alla promessa un pegno, nel caso vi fosse da parte loro una qualsiasi incertezza: come un giovane, nell’intento di rassicurare la sua donna, le dà un anello dicendo: “prendilo, sono io stesso che mi do a te”. E lei, nell’accettare l’anello, ha la certezza che lui le appartiene e distoglie il suo cuore da ogni altro pretendente e per compiacere il suo uomo si volge a lui e a lui soltanto.

L’altra idea sviluppata da Hoen è quella della commemorazione di Cristo in sua assenza. Hoen osserva che le parole: “questo è il mio corpo” sono immediatamente seguite dalle altre: “fate questo in memoria di me”, quindi suggerisce esplicitamente la commemorazione di una persona che è assente fisicamente.

Nell’estate del 1525 il dotto Ecolampadio, Riformatore di Basilea, pubblicò un libro in cui sosteneva che gli scrittori del periodo patristico non sapevano nulla della transustanziazione, né delle idee di Lutero sulla presenza reale, ma tendevano verso una posizione che veniva sempre più accostata al nome di Zwingli.
Zwingli sosteneva che la Scrittura usa diversi tipi di linguaggio, perciò la parola “è” significa talvolta: “è assolutamente identico a”, ma altre volte vuol dire: “rappresenta” o “significa”.
Nel suo trattato Sulla Cena del Signore (1526) egli scrisse: “In tutta la Bibbia troviamo delle figure retoriche, chiamate in greco tropos, ossia un parlare metaforico, che va inteso in un senso diverso. Per esempio in Giov.15 Cristo dice: “Io sono la vite”. Ciò significa che Cristo è come una pianta di vite nei confronti di noi che siamo sostenuti e cresciamo in lui come i tralci crescono dal ceppo […]. Allo stesso modo, in Giov.1, leggiamo: “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. La prima parte del versetto è un tropo, poiché Gesù non è un agnello in senso letterale”.

Zwingli conclude dicendo che, ci sono “innumerevoli passi della Scrittura in cui “è” vuol dire “significa”. Il problema da affrontare è dunque di sapere se in quel contesto la parola “è” non può essere intesa in senso letterale. Deve essere compresa in senso figurativo o metaforico. Nelle parole: “questo è il mio corpo”, il termine “questo” indica il pane, e il termine “corpo” indica il corpo che è stato messo a morte per noi. Perciò la parola “è” non può venir presa in senso letterale, perché il pane non è il corpo”.
Ecolampadio sostenne che, “trattando di segni, sacramenti, immagini, parabole e interpretazioni, occorrerebbe intendere le parole in senso figurato e non in senso letterale”.

L’essenziale per Zwingli è il rapporto tra il segno e la cosa significata. Egli si serve di questa distinzione per sostenere che è inconcepibile che il pane potesse essere il corpo di Cristo.
“Il sacramento è il segno di qualcosa di santo. Quando dico: ‘Il sacramento del corpo del Signore’ mi riferisco semplicemente al pane che è simbolo del corpo di Cristo, che fu messo a morte a nostro favore[…]. Ma il vero corpo di Cristo è quello che è seduto alla destra di Dio, e il sacramento del suo corpo è il pane e il sacramento del suo sangue è il vino, cui partecipiamo con rendimento di grazie. Ma il segno e la cosa significata non possono essere identici. Perciò il sacramento del corpo di Cristo non può essere il corpo stesso”. (ZWINGLI, Eine klare Unterrichtung vom Nachtmal Christi (1526), in Z, vol.91 (Lipsia, Heinsius, 1927), pp.796-800)

Per Lutero, Cristo è presente nell’eucaristia. Chiunque riceve il pane e il vino riceve Cristo. Ma Zwingli faceva notare che le confessioni di fede (i credi) e la Scrittura dicono che Cristo è attualmente “seduto alla destra di Dio”. Ciò implica che Cristo non è presente corporalmente nell’eucaristia. Non può trovarsi in due luoghi nello stesso tempo. Lutero sostiene invece che “la destra di Dio” è un’espressione metaforica che non va presa alla lettera.

L’idea di nutrirsi di Cristo, è un’immagine tradizionalmente collegata alla dottrina della transustanziazione. Se il pane è il corpo di Cristo, si può ben dire che mangiandolo il credente si nutre di Cristo. Zwingli insiste nell’affermare che tale immagine biblica va intesa in senso figurato come allusione alla fiducia che si ha in Dio per mezzo di Cristo.
Nella sua ultima opera, la Expositio christianae del 1531, indirizzata a Francesco I, re di Francia, il concetto è chiarissimo: “Mangiare spiritualmente il corpo di Cristo significa aver fiducia, con il cuore e con la mente, nella misericordia e nella bontà di Dio, per mezzo di Cristo, ossia, avere la costante certezza di fede che Dio ci concederà il perdono dei peccati e la gioia della salvezza eterna per merito di suo figlio che ha dato se stesso per noi… Perciò, quando vi avvicinate alla Cena del Signore per nutrirvi spiritualmente di Cristo, voi ringraziate il Signore per questo suo grande favore, per la redenzione che vi libera dalla disperazione, e per il pegno che vi dà la certezza della salvezza eterna”.

Che cosa, dunque, caratterizza il pane della comunione? Che cosa lo rende diverso da un altro pane qualsiasi? Se non è il corpo di Cristo, che cos’è? Zwingli risponde con un’analogia. Pensate all’anello di una regina e vedetelo in due contesti diversi. Potete immaginare che l’anello sia posato su un tavolo, e non ha alcun significato particolare. Ma pensatelo in un altro contesto, ossia al dito della regina come un dono che le ha fatto il re. Esso acquista dei connotati personali che derivano dal suo rapporto con il sovrano, con l’autorità, potere e maestà. In questo caso il valore dell’anello trascende di gran lunga il prezzo dell’oro di cui è fatto. Tutto ciò deriva dal fatto di passare da un contesto a un altro: ma l’anello in sé non cambia per nulla.
Zwingli si serve con particolare efficacia di tale analogia nella sua Expositio Fidei: “L’anello con cui Vostra Maestà è stato fidanzato alla regina Vostra consorte non è da lei valutato solo in quanto oggetto d’oro. E’ d’oro, ma in pari tempo non ha prezzo perché è il simbolo del suo regale consorte. Per questo motivo ella lo considera il più importante di tutti i suoi anelli, e se le capitasse di dover elencare e valutare i suoi gioielli direbbe: ‘Questo è il mio re, ossia, questo è l’anello con cui il mio regale sposo si è fidanzato a me. E’ il segno di un’unione e di una fedeltà indissolubili’”.

L’anello acquista dunque significato e valore secondo il contesto: non sono inerenti, ma acquisiti. Così, dice Zwingli, accade con il pane della comunione. Il pane, come l’anello, in se stesso non si trasforma, ma il suo significato cambia enormemente. Tale significato, ossia ciò che viene associato all’oggetto, può variare senza che vi sia alcuna modificazione nella natura dell’oggetto stesso. Zwingli avanza l’idea che, nel caso del pane e del vino, si realizzi lo stesso processo. Nel consueto contesto giornaliero sono pane e vino ordinati e comuni, senza significato particolare. Ma, trasferiti in un contesto diverso, assumono nuovi e importanti significati. Quando sono messi al centro di una comunità riunita per il culto e quando vengono nuovamente narrate le vicende dell’ultima notte della vita di Cristo, essi diventano efficacissimi ricordi degli eventi che fondano la fede cristiana. Il nuovo contesto dà loro questo significato, ma in se stessi rimangono inalterati.

è vero che ambedue i Riformatori rifiutarono lo schema sacramentale medievale. Il Medioevo aveva identificato sette sacramenti, mentre essi insistevano sul fatto che due soli sacramenti, il battesimo e l’eucaristia (o santa Cena), sono riconosciuti nel Nuovo Testamento. Tuttavia, Lutero e Zwingli non poterono trovarsi d’accordo sul significato delle parole: “Hoc est corpus meum”, di Matteo 26:26, ritenute fondamentali nell’eucaristia. Per Lutero est vuol dire “è”; per Zwingli vuol dire “significa”. Due maniere molto diverse d’interpretare la Scrittura.

mercoledì 18 dicembre 2013

L'aristotelismo di Tommaso e i suoi rapporti tra ragione e fede

L'aristotelismo di Tommaso e i rapporti tra ragione e fede

La filosofia di Tommaso d'Aquino è il frutto di un pensiero straordinariamente critico e al tempo stesso sistematico, che convoglia nell'unità della nozione di "actus essendi" l'intera produzione speculativa dei secoli precedenti, dando origine all'edificio più armonico e completo della storia del pensiero umano. Nell'opera di Tommaso d'Aquino, infatti, confluiscono tutti i sistemi di pensiero sia classici che cristiani, tutti gli sforzi dell'umana ragione manifestati attraverso le civiltà anteriori: greca, romana, alessandrina, patristica, musulmana e scolastica. Tale confluenza non costituisce una sorta di eclettismo e meno ancora di sincretismo, ma è l'oasi feconda ove la filosofia si rigenera, immergendosi in un lavacro di luce e di vita; luce e vita che Tommaso esprime con l'armonia e l'equilibrio del suo genio sistematizzatore e, nello stesso tempo, innovatore.
Ma l'opera dell'Aquinate non è tutta qui, e ciò appare evidente se si esamina con serena obiettività la dottrina limpida e poliedrica del suo genio; in essa infatti non è difficile riconoscere germi e premesse del pensiero metafisico, logico, antropologico, etico, politico, pedagogico ed estetico delle epoche successive. La rivendicazione di valori umani che emerge dal travaglio umanistico-rinascimentale italiano, l'esaltazione della ragione nel razionalismo illuministico europeo instaurato da Cartesio, lo stesso criticismo kantiano, il lirismo pseudo-logico dell'idealismo tedesco, lo spiritualismo italiano, la concretezza vitale dell'esistenzialismo contemporaneo, sono tutti motivi estratti, talvolta inconsapevolmente, dall'opera di Tommaso d'Aquino, e sviluppati soggettivamente, quindi spesso negativamente, secondo le esigenze storiche e psicologiche dei pensatori che le espressero. Ciò fu possibile perché san Tommaso non intese costruire un sistema chiuso, limitato a un complesso di dottrine e di principi, condizionati a determinati schemi, o legati a particolari esigenze storiche. E per questo che la sua opera non può essere considerata l'ingenua e forzata "cristianizzazione di Aristotele", quale sviluppo e approfondimento di quella del suo maestro sant'Alberto Magno, come spesso e da molti critici si afferma. San Tommaso non intende cristianizzare Aristotele, né tanto meno provare le verità della Rivelazione con l'autorità delle dottrine aristoteliche; ciò sarebbe stato assurdo per il genio delle distinzioni. E' elementare per san Tommaso rilevare che in tal caso l'effetto sarebbe sproporzionato alla causa, o meglio che il mezzo non sarebbe atto al fine, in quanto l'infinito o la sopra-natura non può essere contenuto né compreso dal finito o dalla natura. Ma allora perché san Tommaso tributa il culto massimo allo Stagirita, esaltandolo come l'autorità più grande nel campo del pensiero? Inoltre perché si serve tanto spesso degli argomenti aristotelici per difendere le verità della dottrina cattolica? Rispondere con la maggior esattezza possibile a questi interrogativi significa avvicinarsi allo spirito del grande pensatore, nella sua chiarezza e semplicità. San Tommaso infatti è nemico di ogni confusione, superficialità, unilateralismo, soggettivismo, settarismo polemico e sentimentalismo istintivo: le sue caratteristiche sono il rigore logico, l'obiettività critico-costruttiva, la chiarezza argomentativa e l'evidenza delle conclusioni in cui la mente riposa, per poi ricondurre tutto alla verità suprema di Dio.
All'analisi critica che l'Aquinate conduce intorno alla logica e alla storia del pensiero, appare fondamentale una distinzione di carattere sia teoretico che pratico: la distinzione tra "recta ratio" e "fides" E perché tale distinzione sia storicamente inequivocabile, distingue la produzione filosofica precristiana da quella che segue l'avvento del cristianesimo, in quanto la prima è frutto esclusivo della libera attività della ragione, la seconda è opera della ragione illuminata dalla Rivelazione e sopra-elevata dalla grazia. Con questa distinzione san Tommaso si inoltra nell'esplorazione critica del pensiero precristiano sintetizzando le tappe più importanti che la ragione ha raggiunto con i pensatori classici. Attraverso l'esame comparato di questi luminari del pensiero antico, vede nell'opera di Aristotele lo sforzo massimo e il risultato più alto che la ragione abbia mai raggiunto; il sistema aristotelico gli si presenta come il più omogeneo e il più perfetto, in quanto la filosofia dopo Aristotele (ellenismo, neoplatonismo, pensiero romano e pensiero islamico), pur avendo avuto grandi pensatori, non ha espresso verità di un genio capace di superarlo. E' comprensibile dunque che san Tommaso, impegnato a individuare criticamente la natura, il valore e la funzione della ragione, consideri Aristotele la fonte più autorevole, l'argomento più probante del valore critico della ragione umana.
Veniamo ora alla seconda domanda: perché cioè san Tommaso per provare la razionalità della fede ricorre agli argomenti aristotelici; ciò infatti potrebbe apparire come un'assurdità, poiché Aristotele, per quanto appaia il pensatore più razionalmente perfetto, nulla può aver congetturato della Rivelazione cristiana. Quindi il suo pensiero, pur essendo particolarmente valido nel campo della ragione, non potrebbe servire a provare anche verità che superano le possibilità di conoscenza (diretta o indiretta) della natura, perché patrimonio della fede rivelata, proposta dalla Chiesa nei suoi dogmi e studiata dalla teologia. Ma questa argomentazione cade nel vuoto quando si comprende che la verità cristiana, super-razionale per sua natura, è stata rivelata concretamente all'uomo razionale, a quella stessa ragione cioè di cui si è sempre valso l'uomo per fare filosofia: e i geni dell'antichità e lo stesso Aristotele, che da san Tommaso non a torto è considerato il più grande, fanno parte di quella specie, di quella identica natura. Ora si deve tenere presente che la super-razionalità è qualcosa di ben distinto e diverso dalla irrazionalità; infatti la sopra-natura non esclude la natura, ma la presuppone come elemento essenziale, come condizione necessaria all'efficacia della sua azione.
Perciò, se la Rivelazione presuppone necessariamente la conoscenza razionale, tale presupposto dovrà essere il valore fondamentale da cui ha inizio l'elevazione umana dalla razionalità alla super-razionalità, cioè dalla mera umanità alla partecipazione della stessa divinità. Ne consegue che tale elevazione non può attuarsi irrazionalmente, facendosi cioè guidare dai sentimenti pseudo-mistici di plotiniana memoria, spesso troppo esaltati, anche se in modo diverso, dai teologi come san Bernardo di Chiaravalle e Guglielmo di Saint-Thierry. Per l'Aquinate l'elevazione deve procedere coscientemente, cioè razionalmente e liberamente. Tale processo richiede uno sforzo da parte della ragione, con cui l'uomo giudica, con le proprie capacità intellettive, la Rivelazione in relazione alla sua natura, e da questo giudizio ne attua l'adesione con la sua libera volontà. La ragione del credente, dunque, sente tutta l'esigenza di giudicare la sua natura, non solo secondo le sue capacità, che sono limitate, ma anche con l'ausilio di quei geni del pensiero i quali, trascorrendo la loro esistenza nella ricerca del vero e del bene naturale, raggiunsero fecondissimi risultati. San Tommaso non si serve dunque dell'aristotelismo per "provare" il dogma rivelato, ma invoca l'autorità di Aristotele per dimostrare che la Rivelazione non si oppone alla ragione, non mortifica cioè le esigenze critiche del pensiero. Un procedimento analogo è seguito da Dante: Virgilio infatti è la pietra di paragone, la condizione necessaria perché il poeta possa dirigersi verso Beatrice e ricevere da lei la luce della mistica visione. Senza la ragione è impossibile l'accesso ai misteri soprannaturali. Virgilio impersona la natura razionale per Dante, così come per san Tommaso l'opera aristotelica rappresenta il frutto migliore della ragione umana. Non per provare il valore della Rivelazione Tommaso invoca Aristotele, ma per rendere comprensibile logicamente e mostrare la possibilità razionale della libera accettazione di una verità soprannaturale che, per quanto indimostrabile razionalmente, non contrasta con le leggi della ragione, anzi ne è conferma e potenziamento, come la stessa storia della filosofia dimostra con gli sviluppi speculativi determinati dalla Rivelazione.
Per comprendere i motivi intrinsecamente razionali della adozione di Aristotele da parte di san Tommaso è utile riportare qui il brano centrale di un celebre saggio di Etienne Gilson, il quale ha saputo mettere in evidenza come l'aristotelismo di Tommaso d'Aquino sia una necessità teoretica, derivante dall'intuizione metafisica dell'intelligibilità intrinseca del reale, non sufficientemente garantita dal platonismo; san Tommaso non esita per questo ad allontanarsi da sant'Agostino; egli aveva ben visto - scrive Gilson - che ci sono solo due opzioni metafisiche fondamentali:
"Da una parte c'è Platone che porta alle estreme conseguenze logiche il materialismo e lo scetticismo dei filosofi, i quali dicevano che non esistono altro che corpi e altra conoscenza che la sensazione; i corpi però sono soggetti a incessante mutamento e i sensi si contraddicono continuamente, e quindi così noi non possiamo attingere la verità; è per questo che Socrate rinuncia alla filosofia della natura e si dedica alla filosofia morale, mentre il suo discepolo Platone trasporta nel mondo intelligibile delle idee tutta la realtà e tutta l'intelligibilità delle cose; e da allora in poi tutti i platonici considereranno questo mondo di forme pure come la sorgente di ogni efficacia e di ogni verità. Dalla parte opposta c'è Aristotele che respinge lo scetticismo implicito nell'opzione platonica e porta alle estreme conseguenze questo rifiuto, pensando che ci sia un elemento di stabilità negli enti sensibili e che i sensi non si ingannano quando giudicano in condizioni normali del loro proprio oggetto; di conseguenza, le cose sono necessariamente intelligibili in sé stesse [ ... ]. Optare a favore della dottrina di Aristotele contro quella di Platone significava per san Tommaso ricostruire la filosofia cristiana su basi diverse da quelle di sant'Agostino" [Pourquoi saint Thomas a critiqué saint Augustin, in "Archives d'Histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age", 1 (1926-1927)].

La metafisica e la teologia naturale.

La soluzione del problema metafisico per san Tommaso costituisce il fondamento indispensabile, il presupposto necessario di tutta la speculazione filosofica. La trattazione di questo problema, perciò, occupa la sua indagine in tutte le opere, come elemento inscindibile di tutti i problemi filosofici, di tutti i settori del sapere non solo naturale, ma anche della Rivelazione. Proprio per questo si dice giustamente che san Tommaso è genio eminentemente metafisico che completa, approfondisce e supera lo stesso Aristotele. Tutto il problema metafisico infatti, è semplificato e trattato da Tommaso, alla luce della nozione di essere, che la ragione possiede come prima conquista, sia di sé che di ciò che la circonda.
Siamo già di fronte a una profonda innovazione del problema che non ci può permettere di ripetere, con molti critici, che la metafisica di Tommaso altro non è se non una elaborazione di quella di Aristotele. Se tutta la scienza metafisica per Tommaso è fondata sulla nozione di essere, ne consegue la necessità di una coscienza metafisica; perciò per apprendere e individuare l'oggetto sarà necessaria la coscienza del soggetto apprendente ed individuante. Come si vede Tommaso non considera l'oggetto come qualcosa di assolutamente indipendente dal soggetto, ma lo giudica in relazione al soggetto, cioè in rapporto alla coscienza con cui detto oggetto è appreso e giudicato; il primo principio della metafisica tomista è sintesi di soggetto e oggetto, quale prima autorivelazione della ragione che si apprende come coscienza dell'essere in quanto verum, cioè intelligibile; la verità, infatti, è per san Tommaso percezione intellettuale dell'adeguamento del soggetto conoscente all'oggetto conosciuto: "adaequatio intellectus ad rem" o "adaequatio intellectus et rei" (Summa theologiae, I, q. 16, a. 1). Perciò errano coloro che giudicano il pensiero dell'Aquinate alla luce di un arido oggettivismo, ignorando la ricchezza e la fecondità del soggetto, quali il genio di Agostino aveva saputo valorizzare e Tommaso ha fatto sue.
L'essere e l'essenza
Per Tommaso la realtà è l'essere degli enti; non solo l'opaca e insignificante presenza del singolo ente quale mi appare nelle sue manifestazioni fenomeniche, percepite dai sensi, ma l'essere in quanto tale, cioè la realtà appresa e intesa razionalmente in un "quid" che è e, per il fatto che è, esiste. Dalla coscienza ontologica perciò abbiamo l'essere come primo valore metafisico e l'esistenza quale effetto immediato e necessario di essa. La coscienza ontologica, dunque, è la valorizzazione dell'essenza aristotelica, mediante l'"actus essendi" che per Tommaso ne è la base, il fondamento: l'atto di essere, infatti, è l'essere stesso come atto; nei suoi confronti, la potenza che lo riceve e lo limita è appunto l'essenza; di qui che tra l'essere e l'essenza di un ente concreto debba esserci una specifica distinzione. Tale distinzione è necessaria per comprendere la diversità di valore che intercorre tra l'essenza (astratta) di un ente e la sua concreta esistenza; infatti non tutti gli enti, per il fatto che si apprendono come possibili in base a un'essenza astratta conosciuta, hanno di fatto l'esistenza, in quanto questa è una determinazione attuale percepita dalla coscienza ontologica tramite i sensi; quindi è un aspetto particolare dell'ente che connette l'oggetto al soggetto che l'ha appreso come ente, cioè come essenza che si dà nella realtà, in base alla nozione di essere, nozione universalissima e trascendente che sostanzia la coscienza soggettiva. L'esistere dunque, non è l'essere, ma ne è una determinazione, una particolare attuazione che la ragione coglie e giudica attraverso i sensi che lo avvertono.
Le categorie
Come abbiamo visto, l'essenza per san Tommaso è quello che era per Aristotele, ossia "ciò che una cosa è", mentre l'esistenza è attività di ciò che è, atto di essere; così la sostanza si può dire sinonimo di ente, in quanto è considerata "ente in sé esistente" mentre l'accidente è ciò che non ha in sé la ragione di essere; perciò "accidens est ens in alio". La causa è l'origine dell'ente mentre l'effetto ne è il prodotto; il fine è il motivo fondamentale di tutti gli atteggiamenti esistenziali dell'essere, nelle sue determinazioni sia generiche che specifiche; tali determinazioni, per san Tommaso, sono appunto le categorie.
L'essere dunque è la "prima notitia" metafisica della realtà, sia soggettiva che oggettiva, intesa come nozione originaria della mente che crea la coscienza ontologica. Non si tratta di una concezione dell'essere statica, alla maniera di Parmenide, ma di una visione metafisica realistica, con fondamento logico nella prima evidenza del senso comune, che è quella del mondo come insieme di enti diversi; la nozione tommasiana dell'essere non esclude insomma la molteplicità del reale. L'essere infatti è conosciuto da noi come "esse commune rerum", l'atto fondamentale e originario che cogliamo come elemento comune di un insieme innumerevole di enti, tra i quali noi stessi e le cose che apprendiamo per mezzo della sensazione. In tal modo tornano a risplendere di nuova luce il concetto socratico, l'idea di Platone, l'essenza aristotelica e la verità agostiniana, in una sintesi metafisica che rivela l'armonia e il progresso con cui san Tommaso contribuisce alla storia del pensiero.
Sicché il mondo della nostra esperienza è costituito da una molteplicità di enti; ciascuno di essi risulta composto di materia e di forma: di materia, intesa come capacità o potenzialità a divenire; di forma, come attuazione di detta capacità o possibilità.
Ogni ente, nella sua individualità e perfettibilità, è ordinato alla realizzazione di sé, anche in rapporto con gli altri esseri. Si tratta di una molteplicità di esseri di cui la ragione non solo constata l'ordine e l'armonia, ma cerca l'origine, cioè la causa, per possederne il valore. Ora il molteplice, essendo per sua natura contingente, deve postulare l'Uno necessario; vi deve essere cioè un principio trascendente e assoluto il quale, oltre a costituire l'efficienza e il fine di tutti gli esseri, come aveva insegnato Aristotele, deve esserne, per san Tommaso, causa libera, assoluta ed eterna, che lo produce dal nulla e lo governa con quella sapienza e armonia con cui si manifesta.
Gli enti molteplici di cui è costituito l'universo sono distinti l'uno dall'altro per la loro individualità, caratterizzata dalla propria natura ontologica di materia e forma; sicché il principio della individuazione dell'essere è, per san Tommaso, "materia quantitate signata", cioè la determinazione quantitativa che la materia riceve dalla forma: "materia quae sub determinatis dimensionibus consideratur". Ciò riguarda la metafisica del molteplice cosmico, cioè la cosmologia; il mondo però è considerato da san Tommaso come un organismo in cui ciascuna parte, pur avendo ordine e individualità per sé stessa, contribuisce efficacemente all'armonia e perfezione dell'insieme.
Queste sostanze, al pari degli esseri cosmici, postulano metafisicamente una causa da cui hanno avuto il loro essere. Tale causa non può essere un cieco impulso, inteso come animazione della materia: se così fosse non ne potrebbe risultare ordine e perfezione; né può essere una natura materiale, giacché si confonderebbe con il molteplice, e non potrebbe essere causa delle sostanze immateriali; non può essere neppure una potenza misteriosa, immanente negli esseri. inaccessibile alle capacità razionali, poiché è proprio la ragione a rendersi conto dell'impronta razionale e trascendente di cui è sostanziato l'intero universo. Ne consegue che il molteplice, sia materiale che spirituale, è effetto di una causa, o meglio è opera di un Essere incausato e causante, trascendente e personale, la cui natura contiene in sé in modo eminente, infinito ed eterno, tutto il valore ontologico e perfettivo che la ragione riscontra nell'insieme degli esseri molteplici. Siamo giunti così al culmine del problema, alla ricerca cioè dell'Essere-causa, dell'Uno-principio, donde ha origine il molteplice degli enti e anche il fine del loro dinamismo. Tale indagine ci trasferisce dal problema metafisico a quello teologico, rimanendo, s'intende, sempre nel campo della ragione naturale.
Dio è l'Essere come Soggetto e Persona, "ipsum esse subsistens", "ens participialiter sumptum", che liberamente crea e perciò trascende l'universo: è causa assoluta a cui ciascuna realtà deve la sua esistenza e tutte le sue perfezioni, sia attuali che possibili. Ossia, "ens" come participio presente del verbo "esse"; qui san Tommaso si rifà sempre, nei suoi scritti, a come Dio si è rivelato a Mosè (cfr. Libro dell'Esodo, 3, 14) dicendo che il suo nome proprio è "Colui che è" (in ebraico Jahvè); dai primi filosofi cristiani (che abbiamo studiato nel cap. VI) ai grandi dottori scolastici, la metafisica ha come fulcro speculativo, assolutamente originale rispetto ai Greci, l'autorivelazione di Dio, quella che Etienne Gilson chiama la "metafisica dell'Esodo" (cfr L'esprit de la philosophie médiévale, Vrin, Parigi 193 l; God and Philosophy, Yale Univ. Press, New Haven 1939). La sua natura è infinita e onnipotente, la sua essenza è perfezione in atto, perciò nel suo essere non si può dare alcuna distinzione tra essenza ed esistenza. Tale distinzione infatti, è necessaria per spiegare la costituzione ontologica degli enti molteplici e finiti, ossia "entia nominaliter sumpta", nei quali l'essenza indica la potenza, e l'esistenza esprime l'attuazione di tale potenza; ma in Dio non può aver luogo alcuna potenza, in quanto la sua essenza è atto purissimo, cioè perfezione totale e inesauribile eternamente in atto.
Ma - si domanda giustamente Tommaso -, come si spiega la creazione? Se Dio è purissimo atto, semplicità assoluta, come può produrre l'essere di enti materiali, limitati, diversi tra loro e, si può dire, contrastanti con la natura del Creatore? La sapienza classica in genere, specialmente con Platone e Aristotele, aveva affermato l'eternità del mondo, ma rimaneva la difficoltà metafisica secondo la quale non si può ammettere l'eternità di enti per loro natura contingenti, mutabili e corruttibili, poiché l'eternità è immutabilità, incorruttibilità, necessità e perfezione. Né d'altra parte il mondo può essersi dato da sé l'esistenza, giacché ogni effetto dipende da una causa che l'ha prodotto e il contingente non può essere causa di sé stesso; rimane da vedere come ha fatto Dio a crearlo. La creazione è attività libera, propria alla natura divina, con la quale, ab aeterno, si hanno dal nulla le creature. Dio non genera il mondo, non produce gli esseri derivandoli (come immaginava Plotino) dalla sua essenza spirituale, ma li trae dal nulla con l'atto eterno del suo pensiero onnipotente; perciò si spiega come la natura cosmica, pur essendo diversa da quella spirituale, sia anch'essa effetto della creazione, della perfezione e della provvidenza di Dio. Sicché la creazione di cui parla la Rivelazione, esaminata alla luce critica della ragione, costituisce per san Tommaso un valore positivo della ragione, una conquista irrinunciabile del pensiero. Ciò non significa che l'Aquinate voglia razionalizzare la fede, sottoponendola e costringendola indebitamente al vaglio della comprensibilità meramente razionale, ma si tratta di una elevazione delle facoltà umane, con la quale la ragione acquista sempre più coscienza del suo valore non contrastante ma in relazione intima con le verità eterne che Dio ha rivelato all'uomo.
Le cinque "vie" per arrivare alla certezza metafisica che esiste Dio come prima Causa efficiente e finale
Alla stessa maniera san Tommaso procede per provare l'esistenza di Dio; a tale proposito osserva che l'argomento di sant'Anselmo (cfr cap. IX) non costituisce una prova vera e propria dell'esistenza di Dio, poiché in esso non viene distinto metafisicamente l'essere logico (o possibile) da quello reale (o sussistente). Non a priori dunque ma a posteriori si può provare l'esistenza di Dio, precisamente attraverso cinque argomenti, le celebri "cinque vie", che si richiamano in parte al processo dimostrativo aristotelico e che sono elencate nella Summa theologiae, 1, q. 2, a. 3 come cinque diversi argomenti (nella Summa contra gentiles san Tommaso adopera invece solo l'argomento del divenire, della causalità, dei gradi di perfezione e dell'ordine: manca la "terza via").
1) La prima via riguarda il moto, ossia il movimento a cui tutte le cose sono soggette e che implica un "motore", ossia una causa motrice: "Se dunque l'ente da cui una cosa è mossa - insegna san Tommaso - è a sua volta mosso [cioè, è soggetto al movimento], è necessario che sia mosso da altro e questo da altro ancora: ma non si può così procedere all'infinito, perché allora non vi sarebbe un primo motore e per conseguenza non vi sarebbe nessun motore, in quanto i motori secondi non muovono se non sono mossi dal primo [...]; perciò è necessario giungere a un primo motore non mosso da altro: in esso tutti riconoscono Dio". Qui, come nelle altre "viae", il punto di partenza della dimostrazione non è di tipo "fisico" (in senso moderno, cioè limitato ai corpi materiali e alla loro valutazione in termini di scienza sperimentale) ma di tipo metafisico: il termine "motus", applicato - come fa san Tommaso - a tutti gli enti in generale, indica il "divenire", il passaggio dalla potenza all'atto, ossia la condizione metafisica di base di ogni ente limitato e contingente, quali sono assolutamente tutti gli enti creati: solo Dio infatti è l'Essere perfetto che non "si muove", nel senso che non può né perdere né acquisire una sua perfezione entitativa. Fatta questa precisazione si capisce che le obiezioni moderne alla "prima via" che mettono in questione la concezione del "moto" in senso fisico (cioè secondo quello che le scienze fisico-matematiche considerano moto nel tempo e nello spazio) si basano su un fraintendimento: san Tommaso non parla solo di moto "locale" (nel luogo e nel tempo) né in generale di moto "fisico", ma di moto in senso metafisico, che è una evidenza di senso comune, perché tutti si accorgono che le cose cambiano incessantemente, in tutti i sensi. Si tratta insomma dell'evidenza da cui partiva Eraclito quando ricordava che tutti gli enti dell'esperienza subiscono il movimento.
2) La seconda via ha per oggetto la causa efficiente e consiste in uno sviluppo dell'argomento del motore immobile; tutto il creato infatti è ordinato da una connessione di cause efficienti, le quali, a loro volta, essendo effetti di altre cause, l'una connessa all'altra, richiedono necessariamente un principio efficiente che non sia effetto di altri e sia causa prima di tutte: "Dunque è necessario - insegna san Tommaso - porre una prima causa efficiente che tutti chiamano Dio".
3) La terza via è connessa alle prime due e riassume l'esigenza metafisica secondo la quale la contingenza degli enti implica l'essere necessario, e non un necessario relativo ma un necessario assoluto: "Perché - afferma san Tommaso - bisogna porre qualcosa che sia necessario per sé e non abbia in altro la causa della propria necessità, ma sia causa della necessità degli altri".
4) La quarta via si occupa dei "gradi dell'essere", e così dalle perfezioni limitate si giunge a quella infinita; ogni essere infatti contiene un grado di perfezione rispondente alla sua natura: "Esiste dunque qualcosa - insegna san Tommaso - che è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione di tutti gli esseri che noi chiamiamo Dio".
5) La quinta via ha per oggetto l'ordine sapiente che tutti gli enti, sia razionali che irrazionali, esprimono, essendo per natura diretti sempre a un fine che indica bene e perfezione: "Ora - conclude san Tommaso - le cose prive di conoscenza non tendono al fine se non sono dirette da un essere, conoscente e intelligente, come la freccia dell'arciere. Vi è dunque un essere intelligente da cui tutte le cose naturali sono ordinate a un fine, e questo essere noi lo chiamiamo Dio".
L'esperienza comune è il punto di partenza delle "vie"
Come si vede, il processo dimostrativo tomistico è caratterizzato da una base oggettiva ed empirica che lo differenzia da quello dell'agostinismo (sant'Agostino, sant'Anselmo, san Bonaventura, ecc.). San Tommaso infatti non accetta la possibilità di una conoscenza di Dio per immediata e mistica intuizione, ma procede secondo una indagine schiettamente razionale nella quale i dati fondamentali dell'esperienza sono gli strumenti di cui la ragione si serve per acquistare la coscienza critica dell'esistenza di Dio. Con ciò non si può affermare che l'Aquinate non abbia fiducia nella contemplazione mistica; questa per san Tommaso sarà efficace come coronamento ed elevazione, allorché la ragione dal suo livello naturale si trasferisce coscientemente e liberamente nel livello divino, non più attraverso l'esperienza, ma per mezzo della Rivelazione e della fede; a prova di ciò basta sapere che san Tommaso è uno dei più grandi mistici della storia.
Lo schema logico delle "cinque vie" conferma che si tratta di un'argomentazione a base fortemente empirica e pertanto capace di ottenere il consenso di chiunque comprenda l'universalità e l'evidenza degli aspetti che san Tommaso prende in considerazione per cercarne filosoficamente il fondamento. Ecco come Battista Mondin presenta tale schema logico, basato su quattro momenti: "1) Si attira l'attenzione su un determinato fenomeno (il divenire, la causalità secondaria, la possibilità, i gradi di perfezione, il finalismo); 2) si evidenzia il suo carattere relativo, dipendente, causato, vale a dire la sua contingenza: ciò che è mosso da altri; le cause seconde sono a loro volta causate; il possibile riceve l'essere da altri; i gradi di perfezione ricevono la perfezione da un massimo; il finalismo richiede sempre intelligenza, mentre le cose naturali in sé stesse ne sono prive; 3) si mostra che la realtà effettiva, attuale di un fenomeno contingente non si può spiegare facendo intervenire una serie infinita di fenomeni contingenti; 4) si conclude dicendo che l'unica spiegazione valida del contingente è Dio: Lui è il motore immobile, la causa incausata, l'essere necessario, il sommamente perfetto, l'intelligenza ordinatrice suprema" [BATTISTA MONDIN, Il sistema filosofico di Tommaso d'Aquino, II ed., Massimo, Milano 1992, p. 195]. Da questo schema logico deriva che ciascuna "via" e tutte le "vie" nel loro insieme, pur essendo una rigorosa e geniale dimostrazione metafisica, confermano ed esaltano la certezza che di Dio hanno tutti gli uomini per via del senso comune; tale certezza è intuitiva e universale (sia pure non espressa o male espressa), ma pur sempre basata su una inferenza, non sull'evidenza immediata di Dio. Infatti san Tommaso, prima di esporre le prove dell'esistenza di Dio ha cura di ribadire che noi non possiamo avere una conoscenza di Dio immediata, ma dobbiamo partire da ciò che è immediato - il mondo, le cose dell'esperienza conosciute attraverso i sensi - per arrivare con il ragionamento all'evidenza (mediata, appunto) di una prima causa trascendente, che è l'Essere sussistente. San Tommaso rifiuta dunque ogni ipotesi di ontologismo; ma, se si comprende bene la differenza tra "evidenza immediata" e "evidenza mediata da una inferenza", si comprenderà anche che quest'ultima può essere non solo scientifica (cioè consapevole, rigorosa e capace di dialettica per convincere gli altri) ma anche spontanea, intuitiva, popolare, comune a tutti (come è appunto la certezza del senso comune), e quella prima non fa che confermare questa seconda. Su questo punto, insomma, non c'è sostanziale disaccordo tra san Tommaso e san Bonaventura.
Dio è conosciuto, sia pure imperfettamente, nella sua essenza, grazie all'analogia dell'essere
Dio dunque esiste, noi lo conosciamo certissimamente come l'Essere, in quanto è Lui la causa che crea dal nulla l'universo e lo governa con ordine e amore infinito. Ma che cosa si può sapere intorno alla divina essenza? Come può la ragione umana comprendere la natura di Dio? Tale pretesa non contiene forse l'errore dell'antropomorfismo? E come può l'uomo ragionare di Dio senza evitare il pericolo di tale errore? Sarà forse costretto a concludere con l'agnosticismo, rifugiandosi poi nel misticismo irrazionalistico? San Tommaso, come già si è osservato, non ha queste preoccupazioni, e dimostra con semplicità e chiarezza come il pericolo dell'antropomorfismo e lo scoglio dell'agnosticismo teologico possono essere nettamente eliminati con la dottrina dell'analogia.
Per l'intelligenza di tale dottrina è necessario anzitutto tenere presente la triplice distinzione di termini, o concetti, che caratterizza le relazioni tra gli esseri, il loro genere e la loro specie, cioè il triplice concetto di equivocità, univocità e analogia:
a) il termine equivoco riguarda il concetto che si applica a più esseri con significato del tutto diverso, come per es. il termine "gallo" attribuito all'abitante della Gallia e il termine "l'orsa" riferito alla costellazione, sono termini diversi e contrastanti (quindi equivoci) da quello che si riferisce a due animali, il gallo e l'orsa, propriamente detti.
b) il termine univoco è quello che conviene a molti esseri in modo identico, come ad es. il termine di animale bruto a ciascun animale e il termine di uomo a ciascun individuo razionale;
c) il termine analogico è quello che si applica a molti esseri con un modo di significare che è in parte equivoco e in parte univoco; si tratta di "termini medi - aveva insegnato sant'Alberto Magno - tra quelli univoci e quelli equivoci, e sono attribuiti agli oggetti secondo la sostanza, rispetto a uno a cui sono proporzionati".
Ciò premesso, san Tommaso esclude che si possa parlare di Dio in senso equivoco (contro l'agnosticismo) o in senso univoco (contro l'antropomorfismo); rimane perciò il senso analogico, con cui si giunge alla coscienza della essenza divina indirettamente, secondo l'analogia che si può stabilire criticamente per via di affermazione, rimozione ed eminenza. Tali modi di concepire analogicamente Dio - che san Tommaso riprende dallo Pseudo-Dionigi (cfr cap. IX, 1) - consistono concretamente in questo:
I) affermazione significa considerare che ogni creatura contiene un complesso di perfezioni, come l'essere, l'esistere, la vita, l'intelligenza, la libera volontà, la bontà, la bellezza, ecc.; queste perfezioni sono valori positivi che la creatura non si può dare da sé, ma li riceve dall'autore che dal nulla l'ha creata. Ora, siccome nessuno può dare ciò che non ha, ne consegue che Dio deve avere in sé almeno quelle perfezioni di cui sono fornite le creature;
II) rimozione significa che, negli enti, oltre alle perfezioni si notano le imperfezioni, caratterizzate dal limite metafisico al quale sono soggetti, come la finitezza, la potenzialità, la gradazione (da quelli meno perfetti a quelli ontologicamente più perfetti). Queste imperfezioni sono dovute al fatto che tutte le creature per natura sono soggette alla causa che le ha tratte dal nulla, cioè a Dio. Sicché tali imperfezioni devono essere rimosse dalla nozione della natura divina, in quanto Dio è atto purissimo, Essere metafisicamente per sé sussistente;
III) eminenza vuol dire che, se le perfezioni degli esseri creati sono proporzionate al loro limite e al loro grado di essere, è evidente che nella natura divina si devono trovare in grado eminente, cioè illimitate e infinite, secondo l'infinità e l'eternità di Dio stesso. Da ciò si deduce che Dio va concepito come "Colui che è", cioè pienezza di essere, di vita, d'intelligenza, di libera volontà; è tutto l'amore, tutta la giustizia, tutta la potenza, tutta la sapienza, la verità assoluta.
Su queste basi critiche - la teologia razionale, che giustifica al livello scientifico le certezze del senso comune, che costituiscono già di per sé i necessari "praeambula fidei" - l'Aquinate costruisce l'edificio della teologia soprannaturale (da lui denominata "sacra doctrina") alla luce della Rivelazione nonché delle dottrine dei Padri e di tutta la tradizione cristiana, con tale coerenza e profondità da divenire nei secoli, fino a oggi, la guida riconosciuta dei teologi.
Analogia di attribuzione e di proporzionalità
San Tommaso distingue una duplice forma di analogia: di attribuzione e di proporzionalità. L'analogia di attribuzione intercorre tra realtà che possono essere designate con uno stesso termine, ma in ciascuna delle quali la nozione significata dal termine si trova in modo del tutto diverso, in quanto in una di tali realtà la nozione stessa si trova intrinsecamente e formalmente, mentre in tutte le altre realtà si trova in modo estrinseco e solo in dipendenza da quella unica cosa e in ordine ad essa; quest'ultima si chiama "analogato principale" mentre le altre realtà si chiamano "analogati inferiori". L'esempio classico è quello della salute, nozione analoga che viene attribuita in maniera propria all'essere vivente (analogato principale) e in modo subordinato e derivato ai cibi, all'aria, agli esercizi fisici, ecc. (analogati inferiori). è, chiaro che il rapporto tra l'ente analogato principale e gli enti analogati inferiori è un rapporto di causalità estrinseca (efficiente e finale): nell'esempio che abbiamo fatto, certi cibi e certi esercizi fisici vengono detti "sani" in quanto causano (contribuiscono a causare o mantenere) la sanità dell'uomo (cfr Quaestiones disputatae de veritate, q. 21, a. 4; In I librum Sententiarum, d. 19, q. 5, a. 2). L'analogia di proporzionalità si verifica invece tra termini che hanno come referente degli enti che posseggono tutti intrinsecamente la nozione indicata nel termine stesso, sia pure non in modo identico ma solo somigliante; l'analogia di proporzionalità, a sua volta, si suddivide in "propria" e "metaforica" (quest'ultima è usatissima in poesia, ma anche nel linguaggio comune, come quando l'aggettivo "ridente" si applica a una cittadina). Il caso più importante in cui il linguaggio umano fa uso dell'analogia di proporzionalità propria è quando si dice che il mondo e Dio "sono": le cose create e il Creatore hanno in comune l'essere, anche se "sono" in modo diverso; li unisce una somiglianza proporzionale propria, avendo con l'essere un intrinseco rapporto di possesso, quantunque in gradi e in modi del tutto diversi (Quodlibetales, 9, a. 3). "La dipendenza causale - osserva Raimondo Spiazzi - è il fondamento ontologico che rende possibile l'analogia di attribuzione nell'ordine gnoseologico; la trascendenza delle proprietà analoghe - che si infrangono nei diversi termini proporzionali costituendoli in reciproche somiglianze - è il fondamento dell'analogia di proporzionalità nell'ordine gnoseologico. Se noi possiamo stabilire dei rapporti o proporzioni o analogie tra la creazione e Dio è perché nella realtà stessa esistono dipendenze e somiglianze: fondamenti di analogia" [RAIMONDO SPIAZZI, Natura e grazia: fondamenti dell'antropologia cristiana secondo san Tommaso d'Aquino, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1992, p. 46].
Fecondità filosofica del principio di analogia
Gli studiosi contemporanei hanno riscoperto nel principio tomasiano di analogia un fecondo indirizzo metodologico, ossia "un modo di argomentare rigoroso che, in forza di quell'intellettualismo possibile grazie all'analogia e che si colloca agli antipodi del razionalismo, non elimina il mistero (come giustamente pretende la sensibilità contemporanea) ma non rinuncia neppure a usare discretamente della ragione anche a quei livelli superiori che si rivelano decisivi per dare significato alla vita umana. [...] In altri termini, l'atteggiamento filosofico tomasiano, adeguatamente essenzializzato, sembra in grado di contribuire a gettare un ponte tra i due filoni fondamentali del pensiero contemporaneo tra i quali c'è scarsa comunicazione: da un lato il filone empiristico e dell'analisi linguistica, con la sua esigenza di chiarezza, di rigore e di rapporto con le scienze; dall'altro il filone del pensiero esistenziale ed ermeneutico, con la sua domanda di profondità" [ANGELO CAMPODONICO, Alla scoperta dell'essere: saggio sul pensiero di Tommaso d'Aquino, Jaca Book, Milano 1986, p. 205]. San Tommaso al riguardo si esprime invero in modo assai esplicito, distinguendo ciò che del mistero ci è permesso di conoscere in virtù dell'analogia e ciò che invece rimane inconoscibile: "Per mezzo degli effetti - egli scrive - noi sappiamo che Dio esiste e che Egli, in quanto causa di tutti gli enti, è del tutto trascendente rispetto a essi e del tutto diverso. Questo è l'estremo e più perfetto esito della nostra conoscenza nella vita presente, e per questo dice giustamente Dionigi nella Teologia mistica che noi ci uniamo a Dio senza poterlo conoscere; infatti, di Lui sappiamo bene che cosa non è, ma non possiamo capire affatto che cosa sia in positivo. Per questo stato nostro di ignoranza riguardo alla conoscenza più sublime [sublimissimae cognitionis ignorantia], la Scrittura dice che Mosè si avvicinò alla nube impenetrabile nella quale era Dio" (Summa contra gentiles, III, c, 49).


Messaggio per l'Avvento

Il cap. 25 del Levitico, dopo le prescrizioni relative all’anno sabatico, così ordina: “Conterai pure sette settimane d'anni: sette volte sette anni; e queste sette settimane d'anni ti faranno un periodo di quarantanove anni.  Poi, il decimo giorno del settimo mese farai squillar la tromba; il giorno delle espiazioni farete squillar la tromba per tutto il paese.  E santificherete il cinquantesimo anno, e proclamerete l'affrancamento nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognun di voi tornerà nella sua proprietà, e ognun di voi tornerà nella sua famiglia”. La chiamata giubilare non era una chiamata al culto o perlomeno non lo è nell’accezione precisa del termine, perché le prescrizioni di Lev. 25 non comportano sacrifici. Ma poiché per l’ebreo ogni precetto eseguito è culto, si può dire che per Israele l’anno del giubileo è il più grande culto. La sua fondazione religiosa è il sabato, che attraverso il ritmo settenario determina l’anno sabbatico e, quindi, il giubileo quale conclusione di sette cicli sabbatici: ciò vuol dire che, come nel sabato, l’uomo deve sospendere il proprio dominio sul mondo e deve restituirlo a Dio, riconoscendosi ospite di Dio nella terra di Dio. Qui appare la funzione sociale del giubileo: se in esso l’uomo cessa di considerarsi creatore e padrone, cessano anche i debiti e le servitù, i crediti ed i diritti acquisiti. Gli schiavi ebrei tornano liberi, come nell’anno sabbatico, i debiti decadono, i campi  e le case vendute tornano ai primitivi proprietari, perché non si formino accumuli di ricchezza e perciò di potere, e la terra di Israele conservi l’antico catasto stabilito da Mosè e Giosuè. L’intero paese vive questo anno di libertà: i poderi non arati e non seminati restano, come gli abitanti, esposti alla grazia di Dio; ognuno è come il primo uomo dell’Eden ma anche come un bambino che riceve. Non bisogna vedere in queste immagini una condanna del fare, del lavorare per produrre beni, del possedere: è divino il comando di dominare la terra e Dio premia con molti beni i Patriarchi e Giobbe. Ma il sabato, l’anno sabbatico ed il giubileo proclamano la liberazione da una conseguenza del lavoro e dei beni, cioè dalla dipendenza di un uomo da un altro uomo. La libertà ebraica vede nella dipendenza da Dio la totale indipendenza da idoli, re, signori. L’anno giubilare probabilmente non fu mai attuato, a differenza dell’anno sabbatico che veniva celebrato anche ai tempi di Erode. Il messaggio del giubileo non risiede nella sua precisa e storica esecuzione quanto nella tensione che esprime: la tensione ad allargare, da un tempo ad un tempo più grande, la sovranità di Dio, la fraternità tra gli uomini, la giustizia e la libertà da tutto ciò che asservisce noi ed il mondo. In tal senso, il giubileo è una mappa messianica e, proprio come il tempo messianico, può essere vissuto attendendolo e raccontandolo. Oggi lo si definirebbe un ideale: ma è proprio dell’ideale rimanere “utopico”, di nessun luogo. L’uomo biblico crede, non spera, che ciò che tarda avverrà. Di questa fede il giubileo è un segno, anzi una parabola.
L’augurio per questo Natale 2013 è che questo tempo di Avvento segni per noi un giubileo dai nostri tanti affanni.

Legittimità dello Stato

Socrate muore per obbedire alle leggi. A Critone che gli ricorda la sentenza ingiusta e la corruzione della città e la facilità con cui corrompere i carcerieri, Socrate risponde immaginando di veder apparire la personificazione delle Leggi e dello Stato. “Che cosa hai intenzione di fare Socrate”, chiedono le Leggi, “(…) se non distruggere noi che siamo le Leggi… O ti pare che possa ancora sussistere e che non venga sovvertita quella città in cui le sentenze emesse non hanno vigore, ma ad opera di privati cittadini vengono destituite del loro potere e distrutte?”. Platone anticipa, per bocca di Socrate, le potenzialità dello stato di diritto. Secoli dopo Norberto Bobbio riflette: “La mia preferenza va al governo delle leggi, non a quello degli uomini. Il governo delle leggi celebra oggi il proprio trionfo nella democrazia. Che cos’è la democrazia se non un insieme di regole per la soluzione dei conflitti senza spargimento di sangue?”.  Da queste parole sembra di capire che lo stato di diritto, con il  rispetto delle leggi, garantisca il raggiungimento del bene comune. In realtà lo stato di diritto è sicuramente necessario per la realizzazione del bene comune, ma esso non è sufficiente. Il governo delle leggi deve mantenere un rapporto dialettico con il governo degli uomini. Lo stato di diritto offre delle preziose garanzie e tra queste il principio di subordinazione di ogni potere al diritto. Un governo legittimo è appunto un governo che è creato nei limiti e con le caratteristiche volute dallo spirito costituente e che, proprio per questo, impedisce qualsiasi deviazione quando viene tentata dagli individui che di volta in volta lo compongono. È garanzia di uguaglianza perché la costituzione, come ogni legge, è generale ed astratta. Generale perché si riferisce sempre a fattispecie funzionali e mai a singoli individui. Astratta perché non dà un comando che si esaurisce qui ed ora, ma stabilisce un modello, una regola che dura nel tempo. Ma il governo delle leggi deve essere collocato in una prospettiva più ampia; solo così perde la tipica rigidità di ogni strumento e la miopia del formalismo. È proprio il tema della libertà che denuncia l’aspetto necessario ma non sufficiente dello stato di diritto. Cosa dovrebbe essere in fondo una legge se non il programma di una realizzazione? Una comunità sovranamente si impone uno scopo ed indica gli strumenti per raggiungerlo. Lo spirito costituente deve essere riscoperto in ogni stagione. L’esercizio critico deve continuamente combattere le astuzie della retorica e le prevaricazioni degli interessi. Le leggi si cambiano o si mantengono, ma quel “si” o indica tutti gli uomini e allora la dignità è garantita, o indica una classe, i suoi interessi e i suoi fiancheggiatori, e allora lo stato di diritto diviene un astuto espediente per istituzionalizzare la prepotenza. 

sabato 22 giugno 2013

Per la durezza del vostro cuore.

La chiesa cattolica considera il matrimonio un sacramento istituito, anche se non direttamente, da Cristo stesso. Da questo assunto fa derivare tutta la sua teologia del matrimonio fino a farne il puntum dirimens della condotta dei fedeli: chi trasgredisce su questo punto è allontanato senza appello dal frequentare i sacramenti, in specie l’eucaristia. Eppure il cammino che ha portato questa istituzione puramente umana ad essere sacralizzato è stato lungo. È solo recentemente che il matrimonio viene visto come unione d’amore tra i coniugi; il codice del1917 vedeva in esso ancora un remedium concupiscientiae ed un semplice contratto tra un uomo ed una donna in vista della procreazione. In tempi recenti, invece, sulla scia dell’apertura mostrata dal Concilio Vaticano II, la riflessione della chiesa cattolica si è arricchita degli apporti delle scienze umane che hanno modificato la visione teologica ma non quella, purtroppo, giuridica. Ad uno sguardo sincero e scevro da pregiudizi, la teologia cattolica appare inficiata da alcune pregiudiziali di ordine biblico, teologico, giuridico e pratico. Ma procediamo con ordine.
Il dato biblico.
Il matrimonio nell’AT ha come funzione primaria il procurare una discendenza (Ge 1,28ss); pur di raggiungere questo scopo è consentita la poligamia (Ge 16,1ss) ed in tale ottica è da intendersi l’istituto del levirato (Dt 25,5ss; Lv 20,22). Dai patriarchi fino al periodo monarchico compreso, la poligamia appare un dato pacifico: Abramo, Giacobbe, Davide, Salomone, per citarne alcuni, hanno più mogli. Tuttavia il matrimonio monogamico comincia a farsi strada, soprattutto nella concezione sacerdotale (cfr. il racconto di Ge 1,28 e 2,18ss). Nel Deuteronomio addirittura la monogamia viene imposta al re (Dt 17,17). Naturalmente l’adulterio è punito severamente (Dt 22,22); eso sconvolge l’unità matrimoniale che viene messa in relazione con la violazione dell’alleanza (Ge 20,3ss). L’adulterio viene considerato un tratto distintivo in negativo dei popoli pagani, per questo va evitato.
Il dato biblico offre, così, una presentazione ambivalente del matrimonio: da una parte esalta la fedeltà coniugale offrendo esempi da imitare, dall’altra vi è tutta una panoramica di stampo opposto ove le infedeltà occupano ampio spazio, coinvolgendo anche personalità ragguardevoli della storia sacra veterotestamentaria. Tutto questo dimostra come la Bibbia vive della stessa tensione dell’esistenza umana: da un lato l’ideale e dall’altro la pratica quotidiana. È su questa tensione tra ideale e reale che si instaura l’operato profetico. Il matrimonio è visto come simbolo dell’alleanza tra Dio e il popolo d’Israele e la sua violazione è paragonata all’adulterio. I testi profetici sono pieni di immagini desunte dall’ambiente familiare per indicare la relazione esistente tra Dio e il popolo (cfr. Is 66,9; 49,15-16; 50,1; 61,10; 62,5). Sarà Osea il primo profeta a fare dell’immagine nuziale un concetto teologico di riferimento per designare l’alleanza Dio/Israele (Os 1-3). I culti idolatrici a cui Israele si abbandona vengono paragonati alle infedeltà in ambito matrimoniale. Geremia riprende questi temi ma ne stempera i toni (Ger 2,2; 3,8ss). Anche Ezechiele utilizza questa simbologia (Ez 16,8; 23). Ma è in Malachia che tale similitudine raggiunge il vertice: Mal 2,14-15. Il passo presenta non poche difficoltà di critica testuale ma il matrimonio è presentato come alleanza. Tutto il filone della letteratura sapienziale esalta, anche con riferimenti pratici alla vita quotidiana, i valori del matrimonio e della famiglia. Il libro di Proverbi parla frequentemente delle seduzioni della donna straniera (zanah) e della forestiera (makrijjah), termini esprimenti la stessa cosa ossia la donna appartenente ad un altro uomo. La donna forestiera deve essere evitata per il fatto che il matrimonio è in rapporto con l’alleanza e come non è lecito tradire l’alleanza così non si può violare il matrimonio. Naturalmente questo vale solo all’interno del popolo di Israele. I matrimoni misti, ossia con donne non appartenenti al popolo eletto, vengono scoraggiati per un’esigenza di purità cultuale e nazionale. All’epoca nomadica e del primo insediamento in Palestina, dunque fino ai Giudici, vi era una naturale ripugnanza per le popolazioni del luogo. Fu quando Israele si rese stanziale che i divieti sui matrimoni misti persero il loro carattere vincolante. Per questo un certo filone profetico, che si vorrebbe far risalire a Samuele, non accettò di buon grado lo stabilirsi in modo definitivo in Terra Santa preferendo l’ideale dell’esodo. Ma è il Cantico dei Cantici ad osannare l’amore umano. Si tratta di un messaggio molto profondo in cui l’esperienza umana, che già può intuire le esigenze dell’amore vero, si fonde con il messaggio profetico che rende questa esperienza simbolo dell’amore di Dio verso il suo popolo. È questo il motivo del suo inserimento nel canone biblico.
πορνεύω = prostituire; πόρνη = prostituta; πόρνος = fornicatore; πορνεία = prostituzione, impudicizia. In greco tali vocaboli indicavano le diverse forme di rapporti extraconiugali. μοιχεύω = commettere adulterio; μοίχος = adultero; μοιχεία = adulterio. In ebraico zānāh = prostituire e nāāpf adulterio. Nel tardo giudaismo zenut indica sia la prostituzione e ogni rapporto extraconiugale, sia tutti i matrimoni di parentela non permessi dal diritto. L’incesto e tutti i rapporti contro natura furono considerati prostituzione. Nel NT questi vocaboli ricorrono 55 volte, di cui 21 solo in Paolo.
Anticamente “nei primi secoli i cristiani si sposavano allo stesso modo degli atri senza andare in chiesa”.[1]Il NT recepisce l’istituto matrimoniale come dato scontato, facendolo rientrare nell’ottica del progetto di Dio per la creazione, come dimostrano le citazioni del racconto delle origini contenute in Ge 1,17 e 2,26 (cfr Mc 10,6; Mt 19,4ss; 1Co 6,16; Ef 5,31). Esso è un dato ovvio è va difeso dall’impudicizia (Eb 13,4). Anche Gesù difende il matrimonio: per lui è peccato anche il solo desiderare di tradire (Mt 5,27) eppure è pronto a perdonare tale peccato (Gv 8,1ss). A prima vista sembrerebbe che il NT appoggi un no di principio al divorzio e Gesù stesso sarebbe all’origine di tale ordinamento. Al tempo di Gesù meretrici e pubblicani erano esclusi dalla salvezza mentre Gesù annuncia anche ad essi il suo messaggio salvifico. Non è chiaro se le clausole di Mt 5,32 e 19,9 vadano intese come rapporti extraconiugali o come prostituzione.
È il testo di Ef 5,21-33 che viene usato per fondare la teologia cattolica sul matrimonio. In esso la chiesa vede un riflesso del rapporto Cristo/chiesa. Tale immagine non si esaurisce nell’essere un simbolo ma diviene segno sensibile ed efficace della grazia, in pratica un sacramento: gli sposi oggettivano nel loro matrimonio l’unione tra Cristo e la chiesa. Ed è qui che la teologia cattolica opera un indebito passaggio dal piano simbolico al piano reale, rendendo una realtà concreta ed oggettiva, dunque riproducibile, quella che è solo un simbolo. D’altronde è lo stesso indebito passaggio operato dalla dottrina della transustanziazione, la quale reifica tutta la simbologia della Santa Cena. Da dire che in quest’opera di sacramentalizzazione del matrimonio ha influito molto una certa traduzione biblica. Infatti la Vulgata traduceva la parola greca mysterion con la parola latina sacramentum e questo ha facilitato lo sviluppo della teologia cattolica sul matrimonio. E anche quando fu riconosciuta questa cattiva traduzione, il danno ormai era fatto. Non c’è ragione di far emergere dal testo più di quanto esso non dica, infatti proseguendo con la lettura del brano si nota come certi aspetti sociali vengano toccati. Se si procedesse con la loro sacramentalizzazione bisognerebbe ritenere ogni lotta per il progresso e la libertà contraria al volere divino, cosa che peraltro storicamente è stato fatto.
Paolo fa riferimento al mistero intendendo l’unione tra Cristo e la Chiesa la quale funge da modello per le unioni matrimoniali. Infatti in altri passi quando parla del matrimonio, Paolo utilizza un tono esortativo e non assolutorio come nel caso degli abusi durante la Santa Cena. Il problema è sempre nell’interpretazione dei testi: chi intende il matrimonio come sacramento leggerà nei testi tale intendimento; chi al contrario non considera il matrimonio un sacramento, vedrà nei testi solo un  modello di comportamento. È chiaro che i primi cristiani intendevano il matrimonio non un sacramento, data la sua genesi tardiva in tal senso.
Si parte dalla teologia biblica della creazione e la si rapporta con l’alleanza. Dio ha creato l’universo e l’uomo avendo in mente ciò che sarà alla fine: la perfetta comunione di vita con il Padre nel Figlio per mezzo dello Spirito. In Gn 2,24 vi è il progetto originario per il matrimonio e Gesù si riallaccia ad esso. Gn 1-2 non parla primariamente di cosmologia ma di alleanza: Dio crea l’uomo in vista dell’alleanza. L’etica matrimoniale deriva dal mistero dell’alleanza tra Cristo e la Chiesa e non in forza di una legge. Il matrimonio umano è copia terrena del matrimonio celeste. Siamo in un linguaggio simbolico, che per sua natura rimanda ad altra realtà.
È ovvio ritenere il matrimonio,  sulla scia della simbologia veterotestamentaria che il NT recepisce, come simbolo dell’alleanza Cristo/chiesa ma da qui a fare di questo simbolo un sacramento il passo è lungo. Gesù in un passo disse: “che la sapienza “ quali opere ha prodotto la teologia cattolica sul matrimonIo? In passato comportamenti ipocriti, coppie separate di fatto ma formalmente ancora unite, uomini che conducevano una doppia vita, uxoricidi commessi al solo scopo di liberarsi da un vincolo divenuto oppressivo. Nel presente migliaia di sinceri cristiani esclusi dal sacramento per la loro condotta coniugale; migliaia di nuove felici unioni non benedette poiché considerate peccato; inoltre non sono pochi i sacerdoti che rifiutano il battesimo a bimbi nati all’interno delle nuove unioni.




[1] Nuovo Dizionario Teologico, voce Matrimonio, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, p. 877.