lunedì 14 maggio 2012

Noè uomo giusto e irreprensibile

Noè uomo giusto e irreprensibile.[1]

Nel brano di Ge 6,9-13 Noè, da solo, viene messo a confronto con la totalità del mondo; nello stesso tempo parlare del solo Noè non sarebbe corretto perché egli non compare come individuo, ma è presentato in relazione alla “storia della famiglia” (genealogia, in ebraico toledot) descritta già nel cap. 5. Il passo recita:
“Questa è la posterità di Noè. Noè fu uomo giusto, integro, ai suoi tempi; Noè camminò con Dio (con la divinità[2]). Noè generò tre figli: Sem, Cam e Iafet. Or la terra era corrotta davanti a Dio; la terra era piena di violenza. Dio guardò la terra; ed ecco, era corrotta, poiché tutti erano diventati corrotti sulla terra. Allora Dio disse a Noè: Nei miei decreti, la fine di ogni essere vivente è giunta poiché la terra, a causa degli uomini, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò (ed ecco, io sono la sua rovina), insieme con la terra”.
Noè fa qui la sua comparsa e la sua condotta di vita viene messa confronto con quella di ogni “carne”: ma come viene descritto questo personaggio? Per quanto riguarda il testo nel suo complesso, la caratterizzazione di Noè fornisce una spiegazione relativa all’ultima frase del passo precedente, in cui si diceva che egli trovò benevolenza agli occhi di Dio, perché apparve al Signore così com’era al suo sguardo. La “grazia” di Dio non è né un atto di arbitrio, né una conseguenza prevedibile della virtù di Noè. Le affermazioni su Dio e su Noè sono affermazioni di relazione, e ciò risulta anche dalle parole che definiscono il cammino di Noè e che lo descrivono innanzitutto come saddiq, termine che per lo più viene tradotto con “giusto”. Questa traduzione non è errata ma non mette sufficientemente in risalto che si tratta di una categoria di relazione: saddiq, infatti, è colui che si comporta in modo conforme ai costumi della comunità, che dimostra solidarietà verso il prossimo e che perciò ha diritto anche alla solidarietà e alla fedeltà della comunità. Giuseppe, padre di Gesù, è detto uomo giusto  inserendosi in questa linea (cfr 1,18-19). La giustizia biblica, più che una norma, è una prassi, quella di coloro che prendono le parti dei più deboli e li aiutano a ottenere giustizia. Noè, evidentemente, non si è comportato in modo giusto solo una volta, ma è definitivamente diventato uomo giusto: ciò distingue il suo cammino, in cui egli fu tamin, affidabile, irreprensibile, e proprio in questo senso “devoto”. Un’ulteriore precisazione mostra qualcosa di enigmatico: Noè è stato tale “nelle sue generazioni”. Perché il plurale? Un uomo non appartiene soltanto ad una generazione, cioè alla propria? Ci sono varie possibilità di lettura su cui il plurale “generazioni” può richiamare l’attenzione. Forse esso intende esprimere il fatto che un uomo vive nell’ambito di diverse generazioni e spesso conosce nonni e genitori e, forse più tardi anche i propri figli e nipoti; inoltre vive a contatto con più generazioni. Nella tradizione esegetica rabbinica si fa riferimento a un’altra relazione e queste parole vengono lette come se Noè fosse stato un uomo eccellente in confronto alle sue generazioni. Da una parte possiamo affermare che Noè fu uomo straordinariamente buono rispetto agli esseri umani delle diverse generazioni che vissero al suo tempo, ma in altre epoche, per esempio quella di Abramo o di Mosè, la sua virtù non sarebbe emersa in modo così evidente; da questo punto di vista il testo conterrebbe una notevole limitazione e lascia adito ad una critica a Noè, soprattutto riguardo al fatto che egli si sia adoperato poco per gli altri esseri umani. L’altra possibile lettura sostiene invece il contrario ed interpreta quest’affermazione come una lode più grande, perché nelle sue generazioni, ossia in un mondo sempre più malvagio, il cammino di Noè fu segnato da giustizia e devozione: in altre epoche sarebbe stato più facile ma Noè riuscì ad essere uomo giusto ed integro persino in quelle. Quale di queste possibili letture è quella giusta? Non è  questa la domanda da porre. Quello che conta è richiamare l’attenzione sulle diverse possibilità che il testo offre; esso resta sostanzialmente aperto. Per quanto riguarda l’uso del plurale nell’espressione “nelle sue generazioni”, ci sono altre significative possibilità di lettura e di interpretazione che pongono l’accento su diversi aspetti del personaggio Noè. Quest’uomo visse in due millenni ma, soprattutto, in due eoni; l’epoca precedente e quella successiva al diluvio. Egli è l’unico padre di una famiglia per cui valga tale particolarità. La suddivisione della vita di Noè in un’epoca anteriore e in una successiva al diluvio, espressa esplicitamente da Ge 9,28, prende il posto di quella che per gli altri patriarchi è data dalla distinzione tra l’anno che precede e quello che segue la generazione del primogenito (cfr Ge 5,4.7.10.13.16.19.22.26.30 con il punto su Noè in Ge 9,28). Per la vita di Noè, tuttavia, non è il fatto di diventare padre che contraddistingue in modo decisivo un “prima” e un “dopo”, bensì il diluvio. Egli visse pertanto in due epoche del mondo e, in questo senso, in due generazioni. Proprio per queste ragioni Noè va annoverato tra i patriarchi che vissero prima del diluvio e tra quelli postdiluviani; emerge una simmetria generazionale tra le due epoche: ai dieci patriarchi (da Adamo a Noè) di Ge 5 corrispondono i dieci patriarchi (da Noè a Tera) di Ge 11. Queste indicazioni meritano di essere approfondite perché raramente vengono prese in considerazione dalla tradizionale lettura ed esegesi cristiana della Bibbia: esse mostrano chiaramente come il testo biblico possa richiamare l’attenzione su determinati aspetti per poi convogliarla su altri particolari. Inoltre, tutto questo mostra come ogni testo biblico possa entrare in dialogo con altri dando avvio a interpretazioni sempre più complesse. La vita di Noè, quale appare nelle brevi indicazioni del testo biblico, diventa allora più ricca ma anche più contraddittoria; in altre parole è nei testi che Noè inizia a vivere realmente. Noè viene messo a confronto con un mondo corrotto, ma anche a questo riguardo dobbiamo esaminare attentamente le parole e i loro riferimenti trasversali: il termine “corrompere” (verbo shahat che nei vv. 11-13 compare quattro volte) è una parola chiave del passo, presentandosi in forme grammaticali precise, che evidenziano una relazione interna tra la terra corrotta e la distruzione che Dio vi porta. Il termine compare una prima volta in forma riflessiva: la terra si è corrotta perché tutto è pieno di violenza. Nel versetto successivo questa condizione è caratterizzata da un participio: Dio vede che la terra è corrotta. Subito dopo, lo stesso verbo si presenta in una forma che sembra indicare una responsabilità: la corruzione della terra consiste nel fatto che ogni essere vivente (ogni carne) ha corrotto il proprio cammino, al propria vita. La violenza è diventata epidemica ed ha contagiato tutto, perciò anche gli animali vanno sterminati, non perché cattivi in sé, perché contagiati dalla violenza. Al momento della creazione, in Ge 1, uomini e animali non si uccidono a vicenda perché vegetariani. Al v. 29ss ad essi vengono assegnati alimenti diversi, quasi occupassero spazi diversi nella casa della creazione. La violenza, però, ha abbattuto le pareti divisorie ed ora tutta la terra ne è contaminata: per questo tutto deve essere cancellato. Con il diluvio Dio porta alle estreme conseguenze la condizione che già regna sulla terra: dal punto di vista linguistico ciò è indicato dal fatto che nell’ultimo versetto Dio stesso si definisce “la rovina” e precisamente con un participio del verbo shahat, che in precedenza era stato usato per definire un tipo di azione cui segue un effetto[3]. Dio manda in rovina ciò che è corrotto. Ma chi ha causato questa corruzione? È possibile che essa fosse già insita nella creazione stessa? La risposta va cercata in quell’azione dei “figli di Dio” descritta in Ge 6,1-4? La storia biblica lascerebbe spazio a più di una risposta, ma in questo preciso contesto una sola è possibile: la causa della corruzione è, secondo Ge 6,5ss, la malvagità di tutto ciò che è prodotto dall’essere umano. Soltanto Noè fa eccezione: con lui tutto deve ricominciare e rinnovarsi. Sarà l’umanità a rinnovarsi, oppure Dio si accorge della dignità della propria terra e delle sue creature e non le colpirà più? Il racconto non è ancora giunto al momento della decisione, e non  vi è giunto neppure Dio. Per ora, la questione importante è che un'unica divinità deve conciliare in sé e con sé entrambe le cose: la distruzione e la salvezza.


[1] Liberamente tratto da J. Ebach,Noè, la storia di un sopravvissuto, ed. Claudiana, 2002.
[2] Il termine ebraico che indica Dio (Elohim), che non va confuso con il nome proprio del Dio d’Israele compare qui con l’articolo. Questa espressione usata a riguardo di Dio esprime una grande distanza, che viene espressa nella traduzione “la divinità”. Il fatto che essa venga tradotta al femminile è un utile ricordo del fatto che Dio, nella Bibbia, non è affatto ridotto ad un essere maschile.
[3] In Es 12,23 ricompare la stessa radice linguistica nella denominazione dello sterminatore (mashit) che uccide i primogeniti egizi. Anche qui il motivo della salvezza si collega in modo drammatico a quella distruzione, ed entrambi questi motivi a Dio.

L'Antico Testamento e sua lettura nel tempo

L’Antico Testamento e una sua lettura nel tempo.


L’AT è una collezione di libri diversi nel loro genere e prodotti nell’arco di svariati secoli. Tale collezione di Libri è stata ritenuta, sia da parte ebraica che cristiana, ispirata e veicolante la Parola di Dio e dunque normativa, ossia è stata codificata in un canone che riconosceva la loro ispirazione. Il riconoscimento di tale canone è parte integrante dell’esperienza di fede, non viene prima della fede. Ma prima di entrare a far parte del canone che valore avevano i singoli libri? Come venivano considerati? Da dove provenivano e in quale contesto furono prodotti? E ancora, sono stati scritti di getto oppure hanno avuto una lunga gestazione? Inoltre, sono indipendenti l’uno dall’altro oppure si sono influenzati a vicenda?
Intanto va tenuta presente una differenza temporale tra il NT e l’AT: tutti i libri del NT sono stati scritti nell’arco di una cinquantina di anni, sono nati all’interno di un contesto preciso, ossia la prima comunità cristiana, che da un punto di vista storico era uno dei tanti gruppi secondari del giudaismo del secondo tempio. Analogamente si potrebbe equiparare al contesto in cui nacque la comunità di Qumram. L’AT invece costituisce un insieme di testi prodotti in un lasso di tempo molto più lungo, almeno otto secoli, e provengono da diverse correnti ebraiche alcune delle quali non sono sopravvissute all’esilio oppure hanno subito una profonda trasformazione. Tuttavia è possibile avere un punto di riferimento storico durante il quale frammenti sparsi in tutte le tradizioni confluite nella bibbia ebraica hanno avuto un processo di assemblaggio quasi definitivo: più o meno all’epoca della riforma di Esdra, nel periodo persiano; in quel momento la Legge ed i Profeti raggiunsero uno stadio quasi definitivo di formazione. Più tardi e a ondate  
Se questa è stata la vicissitudine della formazione della Bibbia c’è da chiedersi cosa era accaduto prima del ritorno degli esiliati, cioè prima dell’epoca persiana. La Legge di Mosè in che modo ha attraversato indenne le varie epoche e i vari cataclismi sociopolitici che Israele ha attraversato? I testi di Osea e Amos, profeti del nord, come sono sopravvissuti alla caduta di Samaria nell’VIII sec. a.C. e poi anche alla caduta di Gerusalemme nel VI sec. a.C.? Sono rimasti intatti oppure sono stati rimaneggiati per essere adattati alla nuova situazione? Perché il libro di Isaia ha inglobato in sé oracoli profetici scritti secoli dopo?
Sono domande che a prima vista sembrerebbero insinuare dubbi sua provenienza divina della Bibbia, riducendola solo ad un libro umano, voluto da uomini e lasciato all’arbitrio degli uomini. In realtà, il tentativo di rispondere a tali domande consentirà di entrare nel mondo vivace della Scrittura, che non rimane fissata una volta per tutte bensì cresce con il tempo. Questo ci aiuterà a capire che il NT non è un’appendice o un secondo volume dell’AT e che interpretare ed attualizzare la Scrittura non significa forzare i testi ma inserirsi in una dinamica che appartiene alla rivelazione stessa. La Scrittura cambia nel tempo, si adatta ai mutamenti culturali, entra in dialogo con il tempo in cui si viene a trovare.
Alcuni  esempi tratti dalla Bibbia evidenzieranno come i singoli libri sono frutto di un lavoro redazionale che si è svolto in vari tempi:
-          i due racconti della Creazione (Ge 1-2),
-          le leggi sugli schiavi nei tre codici legislativi del Pentateuco (Es 20,22-23,19; Dt 12-26; Lv 17-26),
-          le due redazioni del Decalogo (Es 20 e Dt 5),
-          il profeta Amos.
Quest’attività di riscrittura si riflette anche nel NT, in modo particolare in Matteo, e continua nella vita del credente.
I due racconti della Creazione.
In Ge 1, in cui si narra la creazione in sei giorni, vi è un interesse nei confronti nell’astronomia e l’elemento dominante è l’acqua, che compare fin dall’inizio: l’abisso. L’opera di Dio consiste nel separare l’acqua in due: le acque superiori (quelle che ci danno la pioggia) e quelle inferiori, che a loro volta vengono raccolte in un sol luogo, per non sommergere la terra. L’uomo è creato alla fine, come compimento della creazione: tutto è buono e perfetto.  In Ge 2 l’acqua è assente: c’è la terra arida e l’uomo solo, in mezzo ad essa. Dio gli procura sostentamento (piante) e compagnia (animali prima e la donna poi). Il giardino di Eden sembra un’oasi nel deserto.
Il primo racconto fa pensare al contesto mesopotamico, dove vi era un interesse enorme per l’astronomia e vi è abbondanza di acqua, la quale spesso esce fuori dai suoi confini con le alluvioni: è così un potenziale pericolo; da notare che il racconto mitologico del Diluvio arriva in Israele attraverso i miti babilonesi. Il secondo racconto fa pensare all’area siro-palestinese, popolazioni nomadi, che hanno poca acqua la quale non è più segno di pericolo ma dono prezioso: il fiume che esce dall’Eden. La condanna peggiore per Adamo, dopo il peccato, è che deve lavorare una terra arida, ingrata. L’accortezza dell’autore biblico della Genesi è stata quella di non preferire un racconto a scapito dell’altro, ma di conservare entrambe le tradizioni del passato perché insieme rappresentano meglio la complessità del creato, nel quale vi sono spazi in cui l’acqua è così tanta da costituire un pericolo costante ma ve ne sono altri in cui la causa di morte è l’assenza di acqua. I due racconti insieme dicono di più sul mondo e sull’uomo piuttosto che presi singolarmente.
Le leggi sugli schiavi nei tre codici legislativi del Pentateuco.
Il primo in ordine cronologico è il Codice dell’Alleanza in Es 20,22-23,19; il secondo è il Codice Deuteronomico contenuto in Dt 12-26; l’ultimo in ordine cronologico, ma secondo in ordine di disposizione nel Pentateuco è il Codice di Santità in Lv 17-26. La tradizione li attribuisce tutti a Mosè. In realtà anche il codice più antico, contenuto nell’Esodo, risente chiaramente di un ambiente sedentario e statale, corrispondete al periodo monarchico. L’attribuzione a Mosè di tutte le Leggi garantisce la loro validità per la comunità posteilica, che non ha più la monarchia. Fra questi tre codici vi sono delle differenze e delle evoluzioni a proposito della legislazione sugli schiavi.
Il primo testo è Es. 21,2-11: “Se compri uno schiavo ebreo, egli ti servirà per sei anni, ma il settimo se ne andrà libero, senza pagare nulla. Se è venuto solo, se ne andrà solo; se aveva moglie, la moglie se ne andrà con lui. Se il suo padrone gli dà moglie e questa gli partorisce figli e figlie, la moglie e i figli di lei saranno del padrone, ed egli se ne andrà solo. Ma se lo schiavo fa questa dichiarazione: “Io amo il mio padrone, mia moglie e i miei figli; io non voglio andarmene libero”; allora il suo padrone lo farà comparire davanti a Dio, lo farà accostare alla porta o allo stipite; poi il suo padrone gli forerà l’orecchio con una lesina ed egli lo servirà per sempre. Se uno vende la propria figlia come schiava, questa non se ne andrà come se ne vanno gli schiavi. Se lei non piace al suo padrone, che si era proposto di prenderla in moglie, deve permettere che sia riscattata; ma non avrà il diritto di venderla a gente straniera, dopo esserle stato infedele. Se la dà in sposa a suo figlio, dovrà trattarla secondo il diritto delle figlie. Se prende un’altra moglie, non toglierà alla prima il né vitto, né il vestire, né la coabitazione. Se non le fa queste tre cose, lei se ne andrà senza pagare nessun prezzo”. Questa legge riguardava non gli schiavi permanenti, che non sono ebrei, ma persone ebree consegnate per pagare debiti. L’interesse della legge non verte sui diritti e doveri dei padroni verso i servi e le serve, ma vuole proteggere i diritti di famiglia. Sono clausole che riguardano soprattutto il diritto matrimoniale.
Il secondo testo è DT 15,12-18: “Se un tuo fratello ebreo o una sorella ebrea si vende a te, ti servirà sei anni; ma il settimo, lo manderai via da te libero. Quando lo manderai via da te libero, non lo rimanderai a mani vuote; lo fornirai generosamente di doni presi dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio; lo farai partecipe delle benedizioni che il Signore, il tuo Dio, ti avrà elargito; ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore, il tuo Dio, ti ha redento; perciò io ti do oggi questo comandamento. Ma se il tuo schiavo ti dice: “Non voglio andarmene via da te”, egli dice questo perché ama te e la tua casa e sta bene da te. Allora prenderai una lesina, gli forerai l’orecchio contro la porta, ed egli sarà tuo schiavo per sempre. Lo stesso farai per la tua schiava. Non ti dispiaccia rimandarlo libero, poiché ti ha servito sei anni e un operaio ti sarebbe costato il doppio, e il Signore, il tuo Dio, ti benedirà in tutto quel che farai”. Anche qui si tratta di schiavi ebrei; la durata della servitù è di sei anni e al servo che resta con il padrone si fa la stessa operazione di foratura dell’orecchio. Ma a differenza del testo di Esodo, ora anche le serve vengono affrancate al settimo anno: i servi e le serve sono fratelli e sorelle del padrone, appartenenti allo stesso popolo. Alla fine del servizio vi è diritto alla buona uscita, per avere un qualche mezzo di sostentamento una volta tornati in libertà. Il rito della foratura non avviene davanti a Dio ma a casa, in quanto per il Deuteronomio vi è un solo santuario: quello di Gerusalemme. Il testo lascia fuori le clausole matrimoniali. Vi è una interpretazione più teologica della legge, riagganciandola all’esperienza degli schiavi.
Il terzo testo è Lv 25,39-43: “Se uno dei vostri diventa povero e si vende a te, non lo farai servire come uno schiavo; starà da te come un lavorante, come un ospite. Ti servirà fino all’anno del giubileo; allora se ne andrà via da te insieme con i suoi figli, tornerà a casa sua e rientrerà nella proprietà dei suoi padri. poiché essi sono i miei servi che ho fatto uscire dal paese d’Egitto; non devono essere venduti come si vendono gli schiavi. Non lo dominerai con asprezza, ma temerai il tuo Dio”. Siamo all’interno del capitolo sulle disposizioni per l’anno giubilare, che cade ogni cinquant’anni. Tra le varie leggi vi sono quelle che riguardano lo schiavo ebreo dipendente da padroni ebrei, lo schiavo straniero e infine lo schiavo ebreo dipendente da padrone non ebreo. Ci occupiamo solo della prima disposizione, che è parallela a Deuteronomio ed Esodo. Questa legge definisce, come il Deuteronomio, lo schiavo “fratello” ma non parla più della serva. In realtà il Levitico abolisce del tutto la schiavitù all’interno del popolo di Israele, perché chi deve pagare i debiti è assunto come dipendente. L’affrancamento però non è più al settimo anno ma la cinquantesimo,l’anno del giubileo, per cui vi è una dipendenza più vincolante. Alla fine il salariato può rientrare nel suo clan. Anche qui il trattamento del servo è giustificato richiamando l’esperienza dell’esodo.
Alla fine di questo rapido confronto si scorgono delle somiglianze ma anche delle differenze, eppure si trovano tutte all’interno dello stesso corpus legislativo e sono tutte attribuite sa Mosè. In realtà i tre testi appartengono a epoche diverse e li abbiamo confrontati in ordine cronologico. In tal modo è possibile notare una certa evoluzione del’istituzione della schiavitù: nell’Esodo viene liberato solo il maschio, dopo sette anni; nel Deuteronomio la libertà viene estesa anche alla donna motivando teologicamente l’affrancamento sull’esperienza dell’esodo, che ha significato la liberazione dalla schiavitù dell’intero popolo per cui non è ammissibile che i singoli membri non beneficino del dono della libertà dato da Dio a tutti. Nel Levitico la schiavitù viene addirittura abolita; tuttavia il  mancato accenno alla donna, dovuta all’origine sacerdotale del testo, fa fare un passo indietro alla normativa: solo il maschio, nell’epoca dell’egemonia sacerdotale, è considerato a pieno titolo israelita.
Prima di trarre delle conclusioni generali sulla presenza di leggi contrastanti nel Pentateuco, diamo un breve sguardo alle due redazioni del decalogo in Es 20,1-17 e Dt 5,6-21.
Innanzitutto vi è un diverso contesto: in Esodo il Decalogo costituisce il prologo di tutto il Codice dell’Alleanza; in Deuteronomio invece esso ha valore in se stesso, ed è posto ben distante dal Codice Deuteronomico. Il testo di Es 20 è strutturato effettivamente come un decalogo, in quanto è costituito da dieci singoli comandi, tutti espressi i forma negativa, tranne il comando sul Sabato e quello sull’onore dei genitori. Il testo di Dt 5 invece è diviso in tre parti: nella prima (vv. 6-11) sono espressi i comandi relativi a Dio; nella seconda, che costituisce il centro, vi è il comandamento sul Sabato; nella terza vi sono i comandamenti sociali, correlati tra loro attraverso la congiunzione we. La centralità del Sabato è data dal fatto che esso insieme un comando nei riguardi di Dio (aperto verso la prima parte) e un comando di tipo sociale in quanto la motivazione della necessità di cessare il lavoro è data dal fatto che bisogna aver riguardo nei confronti degli schiavi. In un certo senso il comandamento del sabato dice che se veramente si vuole onorare Dio bisogna rispettare la dignità dell’uomo. Qui vi è una differenza dalla motivazione data da Es 20, che è specificamente religiosa e cultuale: bisogna rispettare il Sabato in quanto è il giorno in cui Dio si è riposato dalla creazione; siamo di nuovo in un contesto sacerdotale, più tardivo, ma per certi versi meno evoluto rispetto a Deuteronomio. Un’altra differenza è data dall’ultimo comandamento: qui c’è un’evoluzione rispetto a Esodo in quanto la donna (intesa come moglie) non è considerata parte dei beni della casa dell’uomo, ma precede tutti gli altri beni, ha uno status di persona in coerenza con la legge sugli schiavi che in Deuteronomio prevede la libertà sia per l’uomo che per la donna.
Perché nel Pentateuco sono conservate formulazioni così diverse delle stesse leggi e quale di loro è la più vincolante? La più antica o la più recente? In realtà la spiegazione è di tipo teologico. In Israele nessuno poteva cambiare la legge se non Dio, il quale si era rivelato una sola volta attraverso Mosè. Con il passare del tempo,però, le leggi dovevano essere adattate alle nuove situazioni e perché l’adattamento divenisse vincolante, lo si faceva risalire all’unica rivelazione del Sinai. Tuttavia nell’applicazione pratica si teneva conto della formulazione più recente, che veniva considerata una forma nuova dell’antica legge. Tale fenomeno non è finito con la conclusione del Pentateuco ma è continuato oltre, sia nell’ebraismo che nel cristianesimo. Nella tradizione rabbinica si è sempre affermato che Mosè non ha ricevuto sul Sinai solo la Toràh scritta ma anche quella orale, ossia l’interpretazione attualizzante dei rabbini, dando origine alla Mishnah e al Talmud. La legge di Mosè non è stata quindi mai applicata alla lettera ma sempre attraverso l’interpretazione dei rabbini, che di solito ha sempre umanizzato la norma.
Anche il NT si colloca in questa prospettiva, soprattutto nella predicazione di Gesù. Infatti nelle famose antitesi di Matteo, Gesù non vuole abolire o criticare la Legge di Mosè quando afferma “avete udito che fu detto agli antichi… ma io vi dico…” bensì sta facendo un’attualizzazione e cerca di insegnare lo spirito della legge, andando più in là della lettera. In tal senso ha potuto dire: “Non pensate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento” (Mt 5,17), cioè per capirla nella sua essenza.
Per la nostra lettura dell’AT, già partendo da quanto fin qui detto possiamo trarre un insegnamento: è stupido affermare, come si fa un certi stati cosiddetti democratici attuali, i quali si ammantano di religiosità, che la pena di morte è ammissibile in quanto prevista nell’AT, perché la tradizione interpretativa ebraica da un lato e il messaggio d’amore di Gesù dall’altro hanno già ridotto la radicalità di certe norme, in quanto hanno messo al primo posto la dignità della persona umana, spesso dimenticata lungo la storia proprio dalle istituzioni che si rifacevano a Gesù. Leggere la Scrittura in maniera non conforme alla mente giuridica di coloro che l’hanno scritta e tramandata, significa produrre i più grandi crimini contro l’umanità appoggiandosi, per di più, pretestuosamente alle parole di Dio. Ovviamente questo principio vale anche per la lettura personale della Bibbia e per le sua attualizzazioni nel quotidiano: non si può pensare di essere cristiani praticanti facendo nostre le parole dei salmi imprecatori  se prima non le abbiamo lavate ben bene nel sangue della passione di Cristo, che sulla croce ha pregato per i suoi persecutori.
Finora abbiamo considerato testi che, sebbene si trovino nello stesso contesto, sono abbastanza distinti e si comprende che erano letti come tali. Tuttavia tutti i libri dell’AT hanno una crescita nel tempo, hanno subito degli adattamenti e delle riattualizzazioni nei diversi contesti in cui furono accolti, fino alla loro definitiva fissazione nel canone dei libri ispirati. Facciamo un esempio attraverso il profeta Amos. La scelta di questo profeta è per due ordini di ragioni: per la sua brevità (appena 9 capitoli) e per la sua antichità, per cui più facilmente ha potuto subire adattamenti con il passare del tempo. Amos ha proclamato i suoi oracoli nell’VIII sec. a.C., all’epoca del re di Israele Geroboamo II, ed è ritenuto da tutti il primo profeta del quale si conservano le parole scritte. Esaminando il libro notiamo che le notizie storiche riportate riguardano soprattutto i re di Giuda e non di Israele, sebbene tutto il libro tranne un breve oracolo sia rivolto al regno di Israele. Inoltre alla fine del libro troviamo un oracolo di speranza che contrasta nettamente  con il tono di giudizio dell’intero libro. In questo oracolo non si parla del regno di Samaria ma si preannuncia la rinascita della “capanna di Davide” (9,11); il testo allude chiaramente alla casa reale del regno di Giuda, che non è stato distrutto quando invece Samaria fu invasa dagli Assiri nel 722 a.C. La fine della casa di Davide avvenne con la caduta di Gerusalemme ad opera dei babilonesi nel 587 a.C. Come comprendere un annuncio di speranza rivolto a Giuda e per di più proiettato ben due secoli dopo, mentre tutto il libro era rivolto al regno di Israele? Questo si comprende se ammettiamo che il libro di Amos non è stato scritto tutto nell’VIII sec, ma è stato riedito e adattato in seguito. In effetti un’ipotesi plausibile è che il profeta abbia parlato contro il re di Samaria e i suoi dignitari; quando i discepoli di Amos hanno assistito alla distruzione del regno di Israele, hanno constatato la veridicità delle parole del profeta per cui il testo ha acquistato un sigillo di sacralità ed è stato portato insieme ad altri testi nel sud, nel regno di Giuda, dove molti si erano rifugiati. All’epoca della crisi del regno di Giuda, le parole di Amos sono tornate attuali e sono servite per leggere gli eventi (quello che normalmente si fa oggi con la Scrittura) e la caduta di Gerusalemme ha confermato quella lettura. I sopravvissuti all’esilio che hanno conservato le parole di Amos hanno ritenuto di completare il testo alla luce della speranza nata dall’avvento dei persiani: di qui l’oracolo positivo finale e gli adattamenti redazionali all’interno del libro. Per cui il libro di Amos, da testo del nord è diventato testo autorevole della nuova comunità nata dall’esilio, che ha conservato le sue parole come ispirate.
Da questo esempio deduciamo che il lavoro di attualizzazione della Parola di Dio, scritta o orale, è testimoniato già all’interno della Bibbia per cui i vari processi di attualizzazione e rilettura che facciamo, e dobbiamo fare, nel nostro tempo non sono forzati bensì connaturali al testo. In effetti anche il NT non è altro, da un certo punto di vista, che una rilettura attualizzante delle Scritture ebraiche con un di più dovuto alla presenza di Gesù, Dio incarnato, che porta a compimento ma supera anche le possibilità di interpretazioni dell’AT. Esempi di rilettura dell’AT li troviamo nella descrizione di Gesù che fa Matte lo come nuovo Mosè, con il quale condivide perfino il rischio corso all’inizio della vita: all’uccisione dei bambini maschi da parte del faraone corrisponde, infatti, la strage degli innocenti ordinata da Erode.
Concludendo, possiamo affermare che l’AT, così come il NT, non è un libro antico che deve solleticare la nostra fantasia oppure un testo di racconti moraleggianti da qui trarre qualche ricetta per vivere meglio, ma è un testo che già in se stesso è carico delle gioie, dei dolori, delle speranze di molte generazioni di credenti che per quei testi hanno dato la vita e che vi hanno aggiunto qualcosa di nuovo che rendesse il testo sempre attuale. Ad un certo punto della storia l’AT si è caricato di un nuovo significato, grazie all’evento Cristo e alla prima comunità cristiana che ha prodotto il NT che è la reinterpretazione per eccellenza dell’AT; inoltre tutta la Scrittura, da Gesù ai nostri giorni, ha continuato a caricarsi di nuovi significati quanti sono stati i cristiani che l’hanno veramente messa al centro dei loro pensieri, delle loro vite, delle loro scelte (pensiamo alla Riforma nata appunto per tornare alla purezza dell’Evangelo, pensiamo a uomini come Lutero che l’hanno tradotta contribuendo allo sviluppo delle loro lingue attuali); è cresciuta e si è accresciuta con l’esperienza e la vita di chi l’ha letta per cui oggi sta nelle nostre mani non come libro del passato ma come parola viva che ha attraversato i secoli e ha dato concretamente la vita a qualcuno. Se la lettura della Bibbia non cambia la vita, dobbiamo dire semplicemente e realisticamente che leggera è tempo perso. Un giorno “un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova [Gesù], e gli disse: Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna? Gesù gli disse: Nella legge che cosa sta scritto? Come leggi? Egli rispose: Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso. Gesù gli disse: Hai risposto esattamente; fa questo, e vivrai” (Lc 10,25-28). Sia questo l’insegnamento che ci viene dalla lettura dell’Antico Testamento.