La nostra
penisola è come una lunga spada con l’elsa appoggiata nell’Europa
alpino-germanica e la lama puntata verso l’Africa, lama che divide il Mediterraneo occidentale in
due parti nettamente distinte. Lunga oltre mille chilometri, è morfologicamente
tormentata essendo formata da rilievi disordinati che separano nettamente i due
bordi marini e, nel suo interno, le differenti porzioni. Questo «curioso» lembo di terra sembra «naturalmente»
non predisposto a facili e comode relazioni tra le sue differenti porzioni ma,
qualora la natura non avesse agito in maniera sufficientemente decisa,
sarebbero massicciamente intervenute le comunità ivi stanziate con una storia che
ha visto frazionarsi in una miriade di unità politiche, sovente contrapposte,
le sue differenti porzioni. Quando la
storia ha portato la penisola alla sua unità politica, la classe dirigente del
tempo non ha avuto la lungimiranza (o forse non sono state disponibili risorse
sufficienti) di fare scelte interconnettive dei differenti gangli
urbano-territoriali idonee a porre le basi di un nuovo unitario aggregato
territoriale. Questa mancanza di visuale unitaria ha gravato su tutta la storia
successiva agli anni dell’unità nazionale e ancora fa sentire il suo peso. Solo
dopo l’ultimo conflitto mondiale si è sentita la necessità di porre in primo
piano l’esigenza di strutture connettive tra la parte settentrionale e
meridionale del paese con la costruzione di un asse autostradale Nord-Sud
tirrenico – unito ad un altro molto più tardivo adriatico – ancor oggi
approssimativo ed incompleto. Ma l’elemento che emerge è l’assoluta mancanza da
parte delle classi dirigenti nazionali, attuali e precedenti, di una visuale
strategica che identificasse nella rete delle comunicazioni, sia ferroviarie
sia stradali, il momento unificante politico e incentivante sotto l’aspetto
economico. Ad onor del vero, a cavallo del XIX e XX secolo, vennero impostate
tutte le linee portanti della rete ferroviaria nazionale che rimasero però
incomplete. Nel secondo dopoguerra poi venne definitivamente scartata l’ipotesi
di cerare un solido reticolo ferroviario pubblico quale fondamentale asse
portante della mobilità delle merci e delle persone, puntando invece sul
trasporto privato su gomma, purtroppo sovente facile preda di interessi
settoriali non limpidi. Si è poi del tutto ignorato un tipo di trasporto
interconnesso terrestre-marittimo, che poteva essere una nostra vera
specificità e potenzialità nazionale. Le conseguenze di una mancata strategia
nel sistema infrastrutturale dei trasporti si fa sentire in ogni settore
produttivo. Si è favorito uno sviluppo industriale meridionale senza prevedere
sicure possibilità di relazioni con i poli settentrionali, delegando questo aspetto
nodale del processo produttivo ad attori privati, lungo direttrici di incerta funzionalità.
Identicamente non si sono previste strutture protette, o modalità di trasporto
particolari, per la movimentazione e l’approvvigionamento energetico
indispensabile al sistema produttivo nazionale. Pensiamo all’importanza
strategica che la penisola potrebbe avere, stante la sua ubicazione mediana tra
l’Africa settentrionale e l’Europa occidentale. Ancora, pensiamo al turismo che
si potrebbe giovare di una rete di linee ferroviarie minori distribuite in aree
ad alto valore ambientale e di sicuro interesse paesaggistico. E oggi, in
questa mancata preveggenza di una strategia del sistema dei trasporti, ci
troviamo di fronte ad una fase congiunturale con forti esigenze finanziarie da
destinare all’innovazione con l’impossibilità di intervenire su un sistema di
infrastrutture di trasporto incompleto e in parte obsoleto, che avrebbe bisogno
di una radicale riconversione. Va tuttavia sottolineato con energia come, nell’attuale
fase dello sviluppo economico, un paese che non disponga di reti di trasporto
relative a ogni tipologia di elementi
conoscitivi o produttivi corra lo stesso rischio di un corpo umano avente organi
perfettamente funzionanti ma con un sistema vascolare ammalato, destinato
quindi a subire, prima o poi, un evento traumatico più o meno letale.
venerdì 3 gennaio 2014
L'obbligo della verità
Quando eravamo bambini il
problema della verità non era un problema. Bisognava dire la verità e non dire
bugie. “Di la verità!”: ed era chiaro ciò che si voleva dire. Le difficoltà
erano eventualmente nel rispettare queste regole, nell’evitare l’ambiguità,
nell’essere coerenti, ma non nella comprensione di ciò che le regole volevano
dire. Poi siamo cresciuti e il problema della verità è diventato effettivamente
un problema. La verità non era così univoca e certa come prima credevamo: ciò
che appariva vero a me non era considerato tale ad altri, anzi si arrivava al
caso limite che certe realtà o considerazioni che a qualcuno sembravano
inoppugnabili, per altre erano false e fuorvianti. Alla base di questa situazione c’è la considerazione che tutti
gli uomini sono influenzati dalla propria educazione, dalla propria cultura,
dalle proprie scelte ideologiche e tutto questo influenza la percezione della
verità. Ne deriva la tentazione di un assoluto relativismo della verità: non
esiste una verità assoluta, ma esistono tante verità e ciascuno assume come
verità quella che a lui sembra tale. La domanda di Pilato risulta quanto mai
attuale “Quod est veritas?”. Questa scelta è ulteriormente rafforzata dalla
coscienza che la verità cresce con il tempo e muta anche con il tempo a seguito
delle conquiste scientifiche e della riflessione filosofica ed antropologica. In
questo relativismo si fa sola eccezione, ma non sempre, per la verità dei
fatti, quelli che sembrano inoppugnabili: io oggi sono a Pescara, ho fatto
colazione ora sto scrivendo questo articolo… e per queste verità dei fatti
esiste la menzogna: se tu dici che io non ero a Pescara, che non ho fatto
colazione e che non ho scritto nulla, dici una bugia. Se neghi che la guerra è
violenza, che non esiste la povertà nel mondo e che non c‘è nessun problema
ambientale, neghi la verità. Ma appena il discorso passa dai fatti alla loro
interpretazione si riapre il dubbio sulla verità oggettiva e si legittimano
interpretazioni diverse e anche opposte. Non sembra, per molti, esistere un’unica
verità cui fare riferimento, cui cercare di obbedire, cui confermare la propria
vita ma piuttosto dei valori soggettivi cui adeguare la propria coscienza, o
anche, in modo meno nobile, delle convenienze personali. La domanda che a
questo punto si pone è se esiste una verità assoluta e come sia riconoscibile e
se essa vale per tutti gli uomini, di ogni tempo e luogo, al di là delle
differenze di educazione e di cultura, di religione e di politica.
Spesso si è abusato nel far passare
come verità assolute affermazioni contingenti e particolari, anche se
legittime. Ciò ha ovviamente contribuito a far torto alla verità. Esistono,
inoltre, delle verità nell’ordine dei fatti che non possono essere negate se
non con la menzogna. Vi è un dovere nel ricercare la verità oggettiva e di
darle testimonianza. Utilizzare il relativismo per giustificare la propria pigrizia
nella ricerca del vero è un peccato contro l’onestà. Tutto questo, però, con
spirito di grande umiltà. Gesù disse: “Conoscerete la verità e la verità vi
farà liberi”. Bisogna ricercare queste parole di verità avvertendo che questa
verità deve essere al servizio dell’uomo, non come una teoria assoluta che si
muove solo nello spazio dell’intelligenza, ma come una risposta che coinvolge
il cuore dell’uomo e ne determina l’azione.
La domanda che da bambini non ci
ponevamo è venuta crescendo e complicandosi con la vita; in Gesù avviene la
saldatura fra verità e amore, tra fede e amore e questo apre lo spazio alla
speranza (cfr 1Cor 13). La Verità è nell’Amore e questo illumina anche i
comportamenti di convivenza fra gli uomini e le donne. L’Amore è la Verità assoluta
e Cristo lo ha testimoniato sempre.
giovedì 2 gennaio 2014
La nostra economia è evangelica?
“Prestate
senza sperare di ricevere in cambio” dice l’evangelo secondo Luca. In altre
parole, il Nuovo Testamento condanna il
prestito ad interesse. Il vangelo mette l’accento sull’amore e questo,
applicato al campo delle relazioni economiche, significa dare la precedenza
alla giustizia. Certo, si potrebbe obiettare che nel corso della storia il
cristianesimo ha ammorbidito le posizioni nette espresse nel Nuovo Testamento. Si
potrebbe ricordare che il Riformatore di Ginevra, Giovanni Calvino, ha permesso
il prestito ad interesse. Ma il Riformatore ha differenziato chiaramente due
tipi di prestito per usare termini attuali: il credito al consumo e il credito
alle imprese. Il credito alle imprese deve esigere un interesse moderato. Invece
il credito al consumo è accordato a qualcuno che è nel bisogno: tale prestito
deve essere privo di interessi e nemmeno ci si deve aspettare la riconoscenza
del debitore. Ritornando al nostro discorso, il sistema speculativo che
conosciamo oggi contraddice palesemente l’orientamento evangelico. Basta guardare
la speculazione sulle materie prime che aumenta ogni anno il loro prezzo del
15% mettendo in pericolo la vita di oltre un miliardo di persone. Quelle persone,
che vivono con meno di un dollaro e 25 al giorno, non sono assolutamente in
grado di pagare la differenza e sprofondano dunque nella miseria e nella fame. Come
si può giustificare da un punto di vista etico un simile comportamento. Il segretario
generale dell’osservatorio della finanza
svizzera, Paul Dembinski, dubita che la speculazione sia destinata a sparire. Anzi,
teme che il fenomeno continuerà a crescere. Il risultato è che le banche
centrali diffidano delle fluttuazioni del corso della moneta dovuta ad un
mercato diventato molto nervoso. Per ristabilire la fiducia molti invocano l’introduzione
della cosiddetta “tassa Tobin”, dal nome del premio nobel James Tobin che aveva
immaginato una tassa dell’ 1% su ogni speculazione, per calmare il mercato. Ma il
principale ostacolo è costituito dall’incapacità o dalla mancanza di volontà
dei governi di introdurre contemporaneamente ed ovunque la tassa Tobin. Se dovesse
essere applicata solo in alcuni paesi, la speculazione si riorganizzerebbe nei
paesi che non rispettano questa legge. L’impressione è che la crisi economica
del 2008 non abbia insegnato nulla. O forse ha solamente radicalizzato le
posizioni di chi sostiene la speculazione e di chi la combatte. Tutti abbiamo
capito che il nostro sistema ha di gravi limiti. Ma da qui a cambiare a fondo
le cose il passo sembra essere ancora lungo.
per un giusto governo
Le scene di giubilo - non tutte di buon gusto - in piazza del Quirinale in occasione della
crisi e delle dimissioni di Berlusconi, pur comprensibili, non sono durate più
di un week end. Se infatti la tempestiva decisione del presidente Napolitano di
nominare senatore a vita il professor Mario Monti e di affidargli l’incarico di
formare un governo per fronteggiare il drammatico indebitamento dell’Italia, ha
spazzato via l’inerzia irresponsabile del precedente governo, ciononostante “c’è
grande confusione sotto il cielo” e la situazione è tutt’altro che eccellente. Perdurano
varie incognite. Basterà il consenso assicurato dai leader di alcuni partiti? Visto
che tutti parlano di risanamento delle finanze statali, di riforma del fisco e della
giustizia, di sacrifici “lacrime e sangue” ma raramente dicono che cosa concretamente
vogliono fare, non sarebbe ragionevole e doveroso esplicitare, nella fase delle
consultazioni, 3-4 obbiettivi prioritari del nuovo governo? E sapere se farà
anche la riforma elettorale e se l’intenzione è di arrivare a fine legislatura
o d andare alle urne al più presto? Ed è verosimile che un governo concentrato
su misure di forte impatto economico e sociale si consideri “tecnico” e
non “politico” solo perché i suoi membri
non appartengono alla “casta” attualmente in servizio? È probabile che
precisazioni su questi temi vengano nei prossimi giorni dal capo del governo,
la cui serietà è riconosciuta a livello internazionale. Per il momento possiamo
individuare due punti fermi, alla luce dei quali valutare le sue future scelte.
Il primo riguarda il nesso stretto,
di simultaneità, che deve esserci tra i sacrifici ed il rilancio dell’economia.
Se le risorse limitate dai tagli non verranno investite per creare occupazione
in settori strategici (le energie pulite, l’ambiente, la sicurezza abitativa,
la ricerca, l’istruzione, la sanità, le infrastrutture di base), l’effetto immediato
sarà la contrazione dei consumi e la recessione, cioè più povertà e
disperazione fra i giovani e gli altri settori “deboli” della forza lavoro.
Il secondo punto fermo riguarda i sacrifici ed ha vari
nomi: equità, giustizia sociale, per alcuni anche misericordia. La Costituzione
la chiama solidarietà sociale. Occorre partire da una premessa: per effetto
della globalizzazione neoliberista dell’economia – e, in Italia, dell’intreccio
tra politica , economia, criminalità – negli ultimi trent’anni sono enormemente
cresciute le disuguaglianze. Si è calcolato che se negli anni settanta il rapporto
tra il salario minimo operaio e quello massimo di un manager era di 1 a 40,
oggi esso è di 1 a 400. A ciò si aggiunga che i ceti ricchi hanno perfezionato,
complici molti politici, sistemi di arricchimento legale (elusione fiscale,
condoni, depenalizzazioni) e illegale (evasione, fuga nei paradisi fiscali,
corruzione, ecc…). Di conseguenza qualsiasi provvedimento “lacrime e sangue” (si
tratti di Ici o di patrimoniale o di prelievo) per essere davvero “equo” non
può gravare nella stessa misura sul misero e sul miliardario. Il povero non
deve fare alcun sacrificio, mentre chi sta meglio o bene deve contribuire in
proporzione progressivamente crescente al proprio reddito o patrimonio. Analogamente
la riforma delle pensioni per essere equa deve partire dal taglio delle “pensioni
d’oro”, pubbliche e private, e dall’abolizione del vitalizio dei parlamentari. Se
non vi sarà questa equità (o misericordia, vedi Matteo 25, 34-46), allora sarà
anche da noi iniquità e immiserimento di masse crescenti di popolazione, come
quello che grandi istituzioni bancarie mondiali con le loro ricette
neoliberiste hanno già ampiamente provocato in vaste aree del mondo. Di questo
il senatore Monti (membro della Commissione Trilaterale fondata da Rockefeller
e tuttora consulente di quella Goldman Sachs che, secondo i dati diffusi da
Milano Finanza, avrebbe innescato l’ondata di vendite di Btp italiani, seguita
da altri “fonti tossici” americani) è buon conoscitore.
riflessione per il nuovo anno 2
È
arrivato il momento della verità. L’Italia è alla presa con una crisi vasta e
devastante. La situazione è troppo grave per non essere presa sul serio. Le
famiglie sono allo stremo. I giovani guardano al futuro con crescente
preoccupazione, l’inflazione, mai così alta negli ultimi anni, erode stipendi e
potere d’acquisto di chi fa fatica a mettere anche il cibo sulla tavola. Chi è
chiamato a guidare il Paese si trova davanti ad un bivio. C’è un disperato
bisogno di una svolta. Occorre un lavoro per i giovani, perché non si sentano
precari cronici; la riforma fiscale per la famiglia; la cittadinanza ai
lavoratori stranieri e alle loro famiglie. Ma è da chiedersi se davvero si vuole
attuare questa svolta. Pare che si continua piuttosto come si ha affrontato la
crisi in questi anni. Eloquente è la descrizione del modo in cui si procede che
fa Matt King del Citigroup: “L’atteggiamento dei mercati della zona euro è cose
se avessi tradito mia moglie e poi sono tornato a lei con un mazzo di fiori,
assicurando che l’amavo davvero, e poi ho sbagliato di nuovo e sono tornato con
un mazzo più grande, e poi più volte ancora con dei mazzi di fiori ogni volta
più abbondanti; il problema è che arriva un momento in cui il mazzo di fiori
non è più sufficiente per ripristinare la fiducia… almeno con mia moglie”. Con
gli strumenti di sempre si tenta di tamponare la situazione. E in tutto questo
si guarda più alle banche, più causa che liberatori di questa “guerra
economica”, che alle persone reali. La salvezza delle banche non deve essere
necessariamente la salvezza della società. L’evangelo ci chiama ad un impegno
per una vita dignitosa per tutte le persone, e questo impegno chiede adesso
delle scelte coraggiose. Soprattutto in tre campi: quello dell’economia,
dell’immigrazione e dell’ecologia. Un’economia giusta, cioè equo-solidale,
un’accoglienza dell’immigrato nel rispetto delle persone, un modo di vivere che
non abusa più della terra. In tutti questi tre campi invece regna il fantasma
della paura. Paura degli immigrati, paura del crimine, paura di uno Stato
invadente, paura di una catastrofe ecologica. La paura non è un buon
cosigliere, ci tiene in gabbia, fa si che vediamo le catene che ci tengono
fermi come ancore di salvezza. L’evangelo, l’annuncio della libertà, è un
messaggio attuale come mai. In Cristo è possibile vivere come queste strutture
non avessero più potere su di noi. Siamo chiamati a vivere come esseri liberi,
non come esseri paurosi, che vogliono salvare l’esistente senza essere aperti
per il futuro.
riflessione per il nuovo anno
Nonostante i venti gelidi della
crisi che congelano non solo i sogni ma anche le speranze di vita delle
famiglie italiane; nonostante la totale immobilità della politica, preda
anch’essa di una crisi soprattutto di valori, idee, onestà; nonostante la
valanga di volgarità, furberie ed impunità che sta travolgendo le istituzioni;
ciononostante c’è ancora un’Italia sana, che non si arrende. Un’Italia buono
non buonista, che non si perde in parole, proclami e false promesse, ma si
rimbocca le maniche per salvare il Paese. A cominciare dalla difesa dei diritti
dei più deboli. È l’Italia solidale della società civile. A fronte
dell’inciviltà dei politici e delle caste, arroccate a difesa dei propri
privilegi, da non condividere con nessuno. È l’Italia delle famiglie, degli
uomini e delle donne di buona volontà che vogliono più giustizia, equità e
condivisione. È l’Italia degli onesti, non delle escort e dei faccendieri. Il
rispetto della legalità, in vista del bene comune, è nell’interesse di tutti.
Forse, mai come oggi, è necessario il risveglio delle coscienze. Prima che si
frantumino, assieme al Paese. E trasformare la crisi in opportunità. Con
profondi cambiamenti e stili di vita più sobri. In tutto: dalle parole ai
comportamenti. E poi, più partecipazione e meno deleghe. Soprattutto per chi
usa il consenso popolare per affari privati e gestisce la cosa pubblica come
bene personale. Se i nominati in Parlamento non muovono coda senza ordini
dall’alto ben vengano dal basso iniziative e proposte di legge. Il popolo è
sovrano. Ma sempre, non a corrente alternata o a convenienza. Sono campagne di
giustizia e solidarietà. Come “L’Italia sono anch’io” in favore della
cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia. Oppure “Vogliamo zero” dell’Unicef contro la mortalità infantile. O
la provocazione delle Famiglie numerose, che si sono incatenate a Roma per dire
“Basta!” ad una politica bugiarda per le tante promesse non mantenute. Mentre
la nave affonda, i timonieri continuano a sollazzarsi. Nel complice silenzio di
chi li copre, perché nulla cambi nei privilegi delle caste. Ma ora c’è bisogno
di più etica pubblica e privata. E di nuovi protagonisti in politica. Gente
onesta e preparata delle più diverse ispirazioni in Italia ce n’è. Andrebbero
individuati al più presto, attraverso un movimento di partecipazione, che nasca
il più possibile dal basso e punti su esperienza, competenza e serietà. Non è
più tempo di stare a guardare o di tenersi lontano dalla politica, col pretesto
di non sporcarsi le mani. Si sporca chi cede al compromesso, non chi si mette
al servizio degli altri.
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