mercoledì 12 dicembre 2012

Il fondamento dei diritti dell'uomo


I diritti umani, la questione del fondamento.

Premessa.
Volendo andare alla ricerca del prima, che tra l’altro non può essere scisso dal poi, rispetto alla Dichiarazione del 1948 si potrebbe arrivare a una riflessione paradossale: gli antecedenti della Dichiarazione sono rinvenibili nell’inizio stesso della storia dell’uomo, nel senso che il concetto stesso di uomo si lega all’indispensabile sussistenza di un nucleo di diritti indefettibili, reso via via manifesto, individuabile direttamente nell’esperienza storica. In tale ottica la nozione stessa di diritti fondamentali è connaturata all’uomo, per cui si potrebbe parlare di “diritti connaturati”, superando le antiche accezioni di diritti naturali e di diritti innati.
La posizione classica.
Prima di affrontare gli elementi che storicamente possono aiutare a fondare la connaturalità dei diritti in questione, nel senso che fa parte dell’essenza stessa dell’uomo la presenza di un nucleo indefettibile di diritti che si concretizza in un’ampiezza contenutistica e una valenza giuridica in relazione alle diverse esperienze storiche, occorre affrontare la problematica riguardo al fondamento dei diritti dell’uomo. A tal proposito, diverse furono le teorie: riassumendo, si può far riferimento alla differenza tra la visione classica, di tipo giusnaturalistico, basata su un fondamento assoluto, metastorico, dei diritti umani secondo cui ogni persona possiede diritti fondamentali e inalienabili, naturali e anteriori alla società stessa; e una prospettiva moderna, in base alla quale i diritti essenziali dell’uomo sono di volta in volta variabili, soggetti al flusso del divenire e traggono origine dalla società con riferimento ai movimenti della storia. Ma vi sono altre teorie fondative: ad esempio, alcuni pongono tale fondamento in una sorta di simmetria che implica la reciprocità tra diritto e obbligo, da cui discenderebbe sotto il profilo più propriamente filosofico la stessa universalità dei diritti fondamentali. Norberto Bobbio, invece, pone il fondamento dei diritti nella storia e nel consenso della moltitudine di popoli, asserendo che un tale fondamento assoluto non è né possibile né desiderabile. Bobbio fa riferimento a tre modalità:
-          il dedurli da un dato obiettivo costante, come la natura umana;
-          il considerarli come verità per se stesse evidenti;
-          lo scoprire che in un dato periodo storico sono generalmente acconsentiti, come viene provato in particolare dal consenso.
È proprio su quest’ultimo elemento insiste Bobbio, il quale ha evidenziato che il fondamento storico del consenso è l’unico che possa essere fattualmente provato e che la Dichiarazione universale dei diritti umani può essere accolta come la più grande prova storica, che mai sia stata data, del consensus omnium gentium, circa un determinato sistema di valori.
I precedenti nella storia del pensiero giuridico.
Il mondo greco-romano
Per la comprensione della genesi e del successivo sviluppo storico dei diritti umani è utile alla nostra trattazione premettere un breve exursus storico che, per ovvie ragioni, deve sorvolare sulla mole di materiale giuridico accumulatosi nel corso dei secoli pur senza trascurare i momenti salienti di tale sterminata produzione.  Le più antiche testimonianze di embrioni di diritti umani risiedono nei poemi epici di Omero: l’Iliade e l’Odissea. Già in questo contesto primordiale emerge una timida distinzione tra la themis e la dike. La prima nozione indica una decisione ispirata dagli dei, un comportamento moralmente doveroso anche se non conveniente, rispondente ad una sorta di coscienza sociale collettiva; il secondo termine può significare una legge terrena. Anche la tragedia dell’Antigone scritta da Sofocle intorno alla metà del V sec. a.C. è fondata sul dilemma tra l’adempimento o meno ad una norma scritta che cozza contro i valori morali diffusi nella collettività. In quest’opera Sofocle fa riferimento a leggi non scritte, inalterabili, fissate dagli dei, eterne e di origine soprannaturale. Da ciò derivò il principio del tirannicidio, principio rinvenibile nel XVII secolo, a cui si appellarono i padri costituenti americani e francesi per legittimare le loro rivoluzioni.
Quanto all’epoca romana, si può fare riferimento a Cicerone e ai suoi trattati De legibus e De Republica. Quasi anticipando le tematiche del giusnaturalismo medievale, Cicerone si richiama ad una vera legge, la retta ragione conforme alla natura, diffusa tra tutti, costante ed terna a cui non è lecito apportare modifiche né togliere alcunché né annullarla in blocco e che governerà tutti i popoli in ogni tempo. In Cicerone sono rinvenibili degli istituti giuridici, seppur a livello embrionale, particolarmente significativi a proposito di una concezione universale di certi diritti fondamentali dell’uomo, dai quali si deduce la loro spettanza a prescindere dalla cittadinanza o dall’appartenenza a particolari etnie e caste; si tratterebbero di diritti legati all’uomo in quanto tale e non dedotti giuridicamente da un’autorità statuale. A questa concezione di tali diritti si riferisce l’insieme dei doveri che il diritto romano prevedeva anche  ei confronti del nemico, le norme giuridiche comuni ai romani e agli stranieri e che tutti dovevano rispettare. Inoltre vi era lo ius gentium, ossia regole di diritto generalmente riconosciute nelle legislazioni dei diversi stati. Da ultimo, il diritto romano qualificava come “crimine” l’uccisione di ostaggi, la promozione arbitraria della guerra e tutte le iniziative volte a trascinare in guerra uno stato.
Il medioevo
In quest’epoca è possibile rinvenire, a dispetto del pregiudizio che giudicatale periodo oscuro, tracce di tutele giuridiche in senso moderno. Infatti una prima garanzia dei diritti fondamentali venne attuata giuridicamente a livello di diritto privato, fenomeno dovuto proprio alla frammentazione politica localistica tipica dell’epoca. Lo scontro, a volte aspro e cruento, tra autorità locali e soggetti di diritto favorì la nascita e l’acquisizione di diritti essenziali con conseguente protezione da parte dell’autorità. Questi diritti erano: diritto alla vita e alla integrità fisica, il diritto a non essere percosso ed ucciso, il diritto a non essere preso senza una causa legale, il diritto di scegliere il domicilio, di allontanarsi dalla dimora abituale senza difficoltà, il diritto a formare una famiglia, il diritto a non essere privato illegalmente delle cose legittimamente possedute. Tali diritti in un primo momento furono rutto di accordi tra l’autorità e particolari soggetti privati e gruppi, poi furono estesi a livello generale. Questo passaggio dal diritto privato al diritto pubblico segnò una tappa fondamentale nel riconoscimento e nella tutela dei diritti dell’uomo , ponendo le basi per le moderne dichiarazioni. A questo proposito è il riferimento alla Magna Charta del 1225, con cui Enrico III si rivolgeva al clero, ai nobili e a tutti gli uomini liberi del Regno, anche se di fatto solo i diritti dei nobili e del clero venivano effettivamente tutelati. In ogni caso si trattò di una dichiarazione di principio secondo la quale nessun uomo libero poteva essere arrestato, spogliato dei beni e della libertà, esiliato, senza giusta causa; il re si impegnava a far rispettare tali diritti. Su questa base, sempre in Inghilterra si avrà, secoli dopo, il Bill of rights sulla difesa dei diritti del Parlamento con contestuale limitazione dei diritti del Re (1689). Su questa scia vennero sanciti ulteriori diritti: libertà nelle elezioni, libertà di parola e di discussione, libertà di procedura in Parlamento, diritto di petizione dei cittadini al Re; l’Inghilterra si pose nell’agone internazionale come patria dei diritti.
Le Dichiarazioni americana e francese
Nel 1789 si giunse al modello normativo più significativo: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, approvata dall’Assemblea costituente francese. Con essa si ebbe una formulazione generale sui diritti che mai era stata raggiunta in precedenza, collocandosi così quale antesignana più diretta della Dichiarazione universale del 1948. Forti sono i legami della Dichiarazione francese con quella americana e ciò è significativo perché nel 1700 in due continenti diversi il costituzionalismo non ha potuto prescindere dalla centralità dei diritti dell’individuo, segno evidente di una maturazione ormai raggiunta nel pensiero umano. Nella Dichiarazione americana del 1776 vi sono tutta una serie di principi e diritti che sorprendono per la loro attualità: si richiamano i concetti di godimento della vita, di felicità, di sicurezza, di benessere in generale, del diritto di proprietà. Inserendo tali diritti direttamente nel testo costituzionale vi fu una precisa scelta di direzione della precettività, o in ogni caso della pregnanza giuridica, dei diritti enucleati.
Nuovi orientamenti.
Ritornando al cardine dell’interpretazione di Bobbio, indubbiamente il fatto del consenso ha un grande rilievo sotto il profilo sia politico sia giuridico. Ma sotto l’aspetto più propriamente filosofico il fondamento fattuale del consenso, di tipo evidentemente storico e come tale non assoluto, non esclude di per sé la riflessione intorno ad ulteriori fondamenti di ordine metastorico, potendosi ipotizzare una complementarietà tra fondamenti storico-fattuali e fondamenti assoluti, la ricerca dei quali però non deve comportare divisioni e incomprensioni di ordine teorico e con una ricaduta sotto il profilo giuridico. Né tanto meno può comportare un’attenuazione nella tensione verso una sempre maggiore efficacia nella difesa dei diritti enucleati. È noto che in linea astratta un fondamento giusnaturalistico ne teorizza una difesa assoluta, ritenendoli invalicabili. Invece, secondo un’impostazione giuspositivistica anche gli stessi diritti umani sono pur sempre di derivazione statuale e derivanti dalla autonoma volontà dello stato di autolimitarsi; per cui rimarrebbero pur sempre astrattamente disponibili; mentre sostanzialmente nella stessa logica si porrebbero le teorie contrattualistiche, che basano i diritti in questione sul “patto” fra le forze politiche e sociali definito con la Costituzione.
In realtà, occorre trascendere dai fondamenti rigidamente teorici e impegnarsi perché prosegua il processo di protezione giuridica. Infatti, in ambito costituzionale interno si è passati in modo pressoché diffuso, nelle carte fondamentali della seconda metà del ventesimo secolo, dalla tradizione francese, che riteneva sufficiente per la protezione dei diritti la separazione dei poteri, l’autonomia dell’ordine giudiziario e la partecipazione dei cittadini mediante l’elezione dei rappresentanti, a quella americana che privilegia un sistema costituzionale rigido, modificabile solo mediante procedure aggravate, volto a garantire i diritti dei cittadini dai rischi di un’eventuale  dispotismo della maggioranza parlamentare.  Ciò che più conta è il non arrestare il processo di universalizzazione dei diritti umani; un’universalizzazione complessa, da considerare sotto una molteplicità di aspetti: il consenso generalizzato, la dimensione planetaria dei destinatari, la tendenza contenutistica a ricomprendere tutti i diritti che possano essere ricondotti alla sfera essenziale della persona.
Al di là delle singole impostazioni teoretiche sul fondamento dei diritti umani, in realtà, l’universalizzazione di tali diritti rappresenta di per sé un “valore” e non può non rappresentarlo per tutti. Guardando agli ultimi secoli, infatti, si può constatare come l’universalismo dei diritti dell’uomo sia passato dalle opere dei filosofi, in particolare dal giusnaturalismo moderno, attraverso i primi riconoscimenti nei diritti positivi di singoli paesi (a cominciare dalle Dichiarazioni dei diritti degli stati americani e dalla Dichiarazione francese del 1789), fino all’attuale diritto positivo internazionale a tendenza universalistica, il cui punto di partenza è rappresentato proprio dalla Dichiarazione universale del 1948. In tal contesto possiamo azzardare che i tanto conclamati sviluppi della odierna globalizzazione siano stati anticipati da oltre mezzo secolo dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.  Alla base, difatti, della Dichiarazione vi è il convincimento diffuso che per la promozione e la salvaguardia dei diritti umani l’azione individuale e autonoma dei singoli stati non possa ritenersi bastevole, sia per la limitatezza degli strumenti cui si ancorano le isolate sovranità nazionali, sia a causa della dimensione raggiunta dagli interessi umani, che si caratterizzano sempre più per la tendenza a trascendere gli ambiti delle singole statualità.
Ha ragione, quindi, chi ha sostenuto che la Dichiarazione universale del 1948 è solo l’inizio di un lungo processo di cui non siamo in grado di vedere ancora l’attuazione finale, ma ciò che la Dichiarazione contiene in germe, e che può rappresentare la meta giuridico-filosofica dei diritti umani, potrebbe essere la ricostruzione dell’unità del genere umano. Anzi, proprio l’indispensabile dimensione planetaria dei diritti umani, le cui garanzie possono essere riconosciuti, pone l’esigenza pratica di accantonare le contrapposizioni ideologiche derivanti dall’appartenenza a scuole filosofiche diverse in vista di un sommo bene comune, ossia nell’unificazione dei diritti umani, nella loro enumerazione e nella loro organizzazione concreta. Tale prassi richiede una trasformazione di queste culture morali preesistenti, che debbono essere capaci di parlare all’uomo del nostro tempo.
Piuttosto, la questione nevralgica di fondo sembra spostarsi dall’iniziale contrapposizione della doppia fonte, se quella indicata dai giusnaturalismi nella natura umana, oppure quella dei giuspositivisti nella sovranità autonoma degli stati, alla più attuale contrapposizione tra la vigenza costituzionale dei diritti degli umani, in quanto riconosciuti dagli stati nelle loro carte fondamentali, e il valore supercostituzionale degli stessi, ossia preesistenti alla costituzione e pertanto assoluti. In quest’ottica tali diritti hanno una validità assoluta, vanno riconosciuti nelle singole Costituzioni e, una volta diventati pubblici mediante tale riconoscimento, assumono anche una portata meta-costituzionale, nel senso che sarebbero sottratti ai procedimenti di revisione costituzionale. Si tratta di una speciale forma di protezione sostanziale, i cui tratti sono rinvenibili nella stessa giurisprudenza della Corte costituzionale italiana[1].
Il post-modernismo.
Vi è una recente impostazione, in chiave politica, volta a rilanciare i principi tradizionali del liberalismo nell’ottica della tutela dei diritti umani. Infatti, secondo questa teoria, le idee-guida di una società pluralista e di un’economia di mercato competitiva, l’etica dell’individualità e della responsabilità personale, il relativismo etico, il principio di tolleranza, le pari opportunità e in genere i cardini del liberalismo sarebbero particolarmente idonei nelle società della modernizzazione post-industriale e della mondializzazione per garantire i diritti universali dell’individuo. In questo contesto l’etica dei diritti finisce per connotarsi come una sorta di etica minima comune, che può consentire il libero dispiegarsi delle diversità morali. Di fatto si constata storicamente che i sistemi politici di tipo liberal-democratico occidentale sembrano aver dimostrato una maggior rispondenza alle esigenze della tutela dei diritti umani.
Conclusioni.
Concludiamo questa breve dissertazione sul fondamento dei diritti dell’uomo con un pensiero del filosofo del diritto Italo Mancini: “i diritti dell’uomo rappresentano il portento dell’età moderna come il diritto naturale lo è stato per l’età classica; un portento che ha contribuito a creare quella civiltà del diritto, in cui si deve porre il contributo fondamentale per il costituirsi della cultura e del sentire comune dell’Occidente”. Proprio il diritto internazionale ha mostrato che attualmente diritti naturali, diritti umani e diritti positivisticamente protetti tendono a coincidere, unificando di fatto le contrapposte teorie del giusnaturalismo e del positivismo giuridico venendo così a rendere superflua la problematica del fondamento di tali diritti.



[1] Sentenze del 29 dicembre 1988 n. 1146 e 23 luglio 1991 n. 366.

venerdì 30 novembre 2012

Il discorso apocalittico di Gesù


Sermone per la 1^ domenica di Avvento: Il discorso apocalittico di Gesù
L’evangelista Luca ha un certo interesse per il tema della salvezza; infatti il vocabolo greco soterìa compare 4 volte nel suo evangelo mentre una volta sola in Giovanni e mai in Marco e Matteo. Il titolo soter riferito a Dio o a Gesù si trova soltanto il Luca (2 volte) e in Giovanni (una volta). Anche il verbo sozein è proprio di Luca. Se questa è una posizione originale di Luca nell’ambito della tradizione sinottica, essa non è una novità nel quadro della tradizione biblica, la quale si sviluppa proprio intorno al tema della salvezza. Anche la tradizione cristiana primitiva ha trovato in Paolo il teorico della salvezza, dono di Dio agli uomini per mezzo della morte e risurrezione di Cristo. Il kerygma è appunto Cristo morto e risorto per i nostri peccati ci ha salvati dalla morte eterna. Il problema della salvezza, variamente formulato, è al centro delle istanze religiose, politiche e sociali dei popoli. Si chiami vittoria sulla morte o lotta per il superamento delle condizioni di fame o di dipendenza economico-sociale o culturale, impegno per realizzare l’eguaglianza e la giustizia o ricerca della salute, alla base vi è sempre il problema umano di sfuggire ad una minaccia e di garantire la vita piena, sicura e libera per tutti. Sorge spontanea una domanda: la proposta salvifica dell’evangelo, ossia la salvezza dell’uomo per mezzo di Gesù Cristo, che cosa ha da dire a tutte queste attese di salvezza che da sempre fermentano la storia umana? Qual è la rilevanza specifica della salvezza evangelica secondo Luca? Un aspetto comune nell’ambito della cultura occidentale moderna è che la soluzione dei problemi umani e delle contraddizioni storiche non è attesa dal di fuori, come dono di qualcuno, ma è attribuita allo sforzo e alla lotta degli uomini.  Qui sta la discriminante tra la salvezza prospettata dalla tradizione biblica e la salvezza che l’umanità rincorre.
Ora, il discorso apocalittico che Luca fa dire a Gesù è definito dagli esegeti “piccola apocalisse”. La parola apocalisse deriva dal greco e significa “rivelazione”. Nella Bibbia ci sono diverse sezioni apocalittiche, specie nei profeti, ma è nel libro di Daniele che possiamo rinvenire l’inizio del genere apocalittico nella letteratura biblica. L’apocalittica è un tipo di letteratura che si sviluppò nel giudaismo verso il III sec.d.C. fino al II-III sec. d.C.; venne così a coincidere con il periodo in cui si formarono i testi del NT.
Il genere apocalittico non influenzò solo il giudaismo ma anche molti ambienti cristiani, per poi tornare in voga intorno all’anno mille. Ma se esaminiamo l’uso di tale vocabolo all’interno del NT vedremo che è ben lungi dall’essere foriero di sventura. Paolo, ad esempio, afferma che il suo messaggio non è derivato da intuito umano bensì da una rivelazione (Gal 1,12); egli si recò a Gerusalemme in seguito ad una rivelazione (Gal 2,2). In realtà, nel genere letterario apocalittico si ha a che fare con una rivelazione mediata da esseri soprannaturali, in genere angeli. Si tratta di una finestra aperta in un mondo che va oltre ciò che è fisico; si svela una realtà soprannaturale, parallela al nostro mondo. La rivelazione è, appunto, svelare questo mondo parallelo le cui vicende influiscono sul nostro, o, meglio, le cui vicende del nostro mondo determinano le scelte operate nell’altro. Punto focale di tale svelamento è l’enfasi sulla fine di questo mondo, giudicato troppo cattivo per essere riformato. L’apocalittica, così, si salda con l’escatologia. Punto di partenza è sempre l’attualità storica, l’oggi che viene giudicato in una prospettiva che va oltre il presente storico. L’attualità, dunque, fornisce l’occasione all’apocalittica per formulare il suo giudizio sul presente, visto, però, in prospettiva futura. Così l’assedio e la distruzione di Gerusalemme diviene simbolo del giudizio escatologico di Dio sul mondo. La realtà attuale non è la vera realtà: l’apocalittica si propone di svelare il vero significato degli avvenimenti umani. La realtà vera è ciò che non si può cogliere con i normali sensi; occorre uno svelamento, un’apocalisse appunto, da parte di Dio. Simboli, segni , linguaggio criptico, tutto è combinato insieme per fornire una risposta alle interpellanze poste dagli avvenimenti che accadono; una eco simile è ravvisabile nelle parole della 2Pt 3,4: “e diranno: Dov’è la promessa della sua venuta? Perché dal giorno in cui i padri si sono addormentati, tutte le cose continuano come dal principio della creazione”. Lungi dall’essere puro catastrofismo, l’apocalittica vuol essere un messaggio di speranza per il popolo fedele. La testimonianza di fede si fa drammatica e solo chi persevera può sperare di salvarsi;questo è il messaggio di speranza dell’apocalittica: i giusti si salveranno e i reprobi periranno, finalmente la giustizia vera trionferà, il bene vincerà il male.
Ma tutto questo come ci riporta alle domande iniziali, ossia cosa significa per noi oggi che la salvezza viene per mezzo di Gesù Cristo? Nella tradizione biblica salvezza deriva dalla radice verbale jashà ossia “uscire al largo” al sicuro da uno stato di oppressione, di minaccia: così è salvezza la vittoria in guerra, lo scampare da un assedio, la guarigione da una malattia, il superare un processo. In queste situazioni il Signore si mostra salvatore. La tradizione giudaica accentua due aspetti di questo patrimonio biblico: l’attesa della salvezza con tinte apocalittiche (tipica la comunità di Qumram) e la salvezza vista in toni politici-nazionalisti dell’attesa messianica.  Nell’evangelo noi troviamo questi due aspetti spesso fusi insieme. Già Luca anticipa questo filone messianico-apocalittico nel vangelo dell’infanzia di Gesù, e in specie nel cantico di Zaccaria. Inoltre, sintetizza questa attesa nel cap. 4 dove Gesù presenta se stesso come colui che opera la liberazione degli oppressi. La salvezza nel progetto di Gesù è dunque la liberazione dell’uomo oppresso dal male fisico, dalla paura o fatalità della morte e dalla potenza pseudo-divina che lo rende schiavo, dal peccato che sta alla radice dell’esclusione e della solitudine. Ma la salvezza spirituale dell’uomo non esclude la sua salvezza la concretezza storica. Il realismo della speranza biblica da una parte e la situazione della Palestina occupata dai romani dall’altra, hanno dovuto provocare una presa di posizione da parte di Gesù. L’ingresso di Gesù in Gerusalemme, con lo stile degli antichi re e liberatori, il saluto entusiastico delle folle, hanno un contenuto politico. Gesù ha, dunque, proposto una salvezza anche con una dimensione pubblica e politica senza aderire, però, a nessun movimento politico. Il progetto storico di una comunità nuova, fondata sui Dodici, siglata dalla sua morte violenta è la risposta di Gesù alle attese messianiche del suo popolo e l’attuazione delle promesse profetiche sulla salvezza dei giusti. Luca è cosciente che il progetto salvifico di Gesù non termina con la sua morte, ma interessa la storia della comunità che lo annuncia e lo testimonia dopo la sua risurrezione. In Luca vi è spazio per la salvezza nella storia. La salvezza annunciata e data da Gesù non è un prodotto spontaneo della storia umana; neppure è qualcosa che stia ai margini della storia umana. Essa è al centro della storia umana. Per Luca la salvezza parte da Gesù, si matura nella storia dell’umanità e la comunità dei discepoli ne diviene testimone e garante storico e visibile di questa nuova speranza per l’umanità. In questo è la differenza tra la speranza del’apocalittica e la speranza cristiana.

martedì 27 novembre 2012

La Bibbia: un libro da esplorare


1- La Bibbia: un libro da esplorare.
Per il credente la Bibbia veicola la Parola di Dio e permette di entrare in dialogo con Dio, di ascoltarne la voce, di cogliere il progetto divino di salvezza che attraverso di essa diventa proposta per l’uomo di ogni tempo. D’altra parte, si tratta concretamente di un testo prodotto della cultura e delle capacità creative dell’uomo. Entrare perciò fino in fondo nel linguaggio umano e nelle sua modalità comunicative è l’unica via per una comprensione profonda del messaggio divino. Una maggiore conoscenza della Bibbia è richiesta anche da chi, non credente, si rende conto della grande influenza che la Bibbia ha avuto sulla cultura occidentale. Non è difficile scoprire che il linguaggio, la poesia, la letteratura, le arti, l’architettura, direttamente o indirettamente manifestano una radice biblica. Naturalmente il contesto più adeguato per approfondire la conoscenza della Bibbia è quello ecclesiale. Pur conservando un grande interesse per chi la accosta con l’occhio dell’antropologo, dello storico, del letterato, la Bibbia trova il suo ambiente naturale nella comunità dei credenti, prolungamento di quella comunità cristiana dalla quale gli scritti biblici ebraici furono accolti e nella quale nacquero gli scritti del NT. Se però accostare la Bibbia con un interesse esclusivamente culturale e non di fede ne limita il significato compromettendone la comprensione, è pure limitativo l’atteggiamento di chi ritiene di dover leggere e comprendere la parola di Dio senza prendere sul serio gli ausili che le attuali conoscenze scientifiche mettono a nostra disposizione. È il caso di tante letture di tipo “fondamentalista” condotte da individui, gruppi e sette religiose che ritengono superfluo considerare l’aspetto umano delle Scritture.
Per un corretto approccio alla Bibbia bisognerà dunque prendere sul serio la sua caratteristica fondamentale di parola divina nelle parole umane. Non è possibile, infatti, ignorare la storia, la cultura e tutto ciò che aiuta a capire il mondo di cui si parla e in cui quei testi si formarono, né è possibile ignorare le norme che guidano la lettura e la comprensione di un testo. In secondo luogo la Bibbia nasce in e per un contesto, il solo che riconosce quell’insieme di libri come Parola di Dio. Già da un primo contatto con la Bibbia ci si rende conto che non si tratta di un testo unitario. È una raccolta di 66 libri. Il termine Bibbia ci giunge, attraverso il latino, da un sostantivo greco biblia cioè “i libri”. In realtà quel testo da noi considerato come un libro unitario è piuttosto un’antologia di testi scritti in epoche diverse e da diversi autori, riuniti in due gruppi principali: l’AT e il NT. Testamentum è la traduzione latina dell’ebraico berit (alleanza), un concetto base per la comprensione della Bibbia. La divisione in AT e NT, propria delle Bibbie cristiane, utilizza un’espressione con la quale l’apostolo Paolo designò il patto tra Jwhw ed Israele, definendola appunto “antico patto” (2Cor 3,14). Così la Bibbia ebraica (BH), ereditata dai cristiani e compresa alla luce del nuovo patto avvenuto in Cristo, divenne l’antico patto (AT), distinta dai libri relativi al nuovo patto stipulato attraverso il sacrificio di Cristo (NT). Naturalmente la distinzione nelle due parti principali, AT e NT, è di origine cristiana, in quanto il giudaismo riconosce come sacri solo i libri che per i cristiani costituiscono l’AT.
Già prima dell’era cristiana i giudei raggrupparono i libri biblici in tre serie. La prima, chiamata in ebraico Torah, è il cuore della Bibbia ebraica: è la Legge o, meglio, l’insegnamento dato da Dio al suo popolo come segno tangibile dell’alleanza stipulata con Israele (alleanza sinaitica). Comprende i primi cinque libri, denominati anche Pentateuco in greco: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio. La seconda parte è detta in ebraico Nebi’im (profeti); comprende libri detti “profeti anteriori” (Giosuè, Giudici, i due libri di Samuele e dei Re) che narrano le vicende del popolo ebraico a partire dall’entrata nella terra promessa fino all’esilio babilonese, e i libri detti “profeti posteriori” (Isaia, Geremia, Ezechiele e il rotolo dei dodici profeti minori). La terza parte è più varia, come testimonia il titolo stesso Ketubim (scritti); essa comprende libri molto diversi tra loro: i Salmi, Proverbi, Giobbe, Cantico dei Cantici, Rut, Lamentazioni, Ecclesiaste, Ester, Daniele, Esdra, Neemia, i due libri delle Cronache. Tutti questi libri dell’AT sono mantenuti nelle bibbie cristiane con una divisione che tende a mettere in maggior risalto il collegamento storico tra essi, raggruppandoli in Pentateuco, libri storici, profeti e sapienziali. I primi cristiani aggiunsero ad essi, ritenendoli allo stesso modo Parola di Dio i libri del NT.

2- Come si è formata la Bibbia.
La storia salvifica, prima ancora di essere scritta in libri, costituì la vita stessa del popolo di Israele prima, della chiesa poi. In Israele i fatti accaduti venivano raccontati all’interno della famiglia, del clan. Le regole del culto e i ricordi storici ad esse collegati venivano tramandati nel contesto del tempio, soprattutto da parte dei sacerdoti. Le gesta di eroi popolari, dei grandi condottieri, dei re, venivano ricostruite epicamente e trasmesse in forma orale. È solo dopo un lungo processo formativo che tali tradizioni ebbero una forma scritta. La formazione della prima parte della Bibbia, il Pentateuco, è stata lungamente indagata da quando è stata abbandonata la semplice idea che il suo unico autore fosse Mosè, il grande profeta e legislatore di Israele sotto la cui guida il popolo fu liberato dalla schiavitù egiziana. Probabilmente Mosè mise per iscritto, com’è verosimile nel mondo Orientale antico, la legge del Sinai, alla quale Israele si obbligava attraverso il patto, l’Alleanza. Ma la stesura del Pentateuco, così come ci è giunto, fu molto più laboriosa. Sul suo processo di formazione scritta il parere degli studiosi è tutt’altro che concorde. Il grande contributo offerto dalla teoria cosiddetta Graf-Wellhausen è variamente discusso ai nostri giorni. Secondo i due studiosi, che svilupparono idee in parte elaborate prima di loro, il Pentateuco è frutto di un grande sforzo redazionale attraverso cui vennero fusi insieme documenti scritti sulla storia delle origini, sui patriarchi, sull’esodo dall’Egitto. il lavoro finale venne compiuto dal cosiddetto autore “sacerdotale”, uno o più autorevoli personaggi appartenenti alla cerchia dei sacerdoti esiliati in Babilonia alla metà del VI sec. a.C. La scuola sacerdotale fu autrice di una storia delle origini di Israele e del mondo che integrò con analoghi sforzi teologici compiuti già da israeliti. Raccolse così quanto gli mettevano a disposizione altri documenti composti molto tempo prima, il cosiddetto Deuteronomista, l’Elohista e, prima ancora, lo Jahvista.
Senza entrare nei dettagli di questa teoria, bisogna dire che la proposta appariva convincente per la capacità di chiarire molti di quei dubbi che avevano da sempre accompagnato la lettura e lo studio del Pentateuco: perché due racconti della creazione (Gn 2 e 3), perché ripetizioni e incoerenze nel racconto del Diluvio (Gn 6-8), ripetizioni ed incongruenze nelle storie patriarcali (Gn 12-36)? Fu proprio a partire da queste domande che la ricerca biblica mosse i primi passi verso lo studio della formazione della Bibbia. Ciò spiega il consenso quasi universale che questa teoria ebbe tra gli studiosi.
A grandi linee possiamo dire che la più antica redazione scritta avvenne con il documento jahwista (850-750 a.C.), così chiamata perché Dio è sempre indicato con il suo nome Jhwh, anche prima della rivelazione a Mosè (Es 3,6; cfr Gn 4,26). Poiché le vicende narrate hanno come scenario il sud, si suppone il documento (J) provenga dal regno di Giuda. Un documento più evoluto, databile all’VIII sec. a.C. è l’Elohista (E), considerato dagli studiosi influenzato dalla predicazione profetica del regno del nord, la sua patria di origine. Dopo la caduta di Samaria (722 a.C.), capitale del regno di Israele dopo la sua divisione da Giuda, un redattore denominato jeohwista unificò i due documenti. Nel 622 a.C., sotto Giosia, in occasione del restauro del Tempio fu scoperto il “libro della legge” da identificare con il Deuteronomio (2Re 22). Si tratterebbe in realtà di una stesura del Dt, cui seguirono parecchie edizioni con aggiunte e modificazioni; infine un redattore unì il Dt all’opera di JE con i necessari aggiustamenti. L’ultimo documento, quello sacerdotale (P) sarebbe opera dell’ambiente dei sacerdoti, composto dopo l’esilio e attribuibile ad Esdra, databile verso il 458 a.C. Verso il 330 a.C. tutti questi documenti vennero fusi insieme e il Pentateuco assunse la fisionomia definitiva. Lo sforzo è continuato e tutt’ora si cerca di correggere o integrare la teoria Graf-Wellhausen con nuove e più soddisfacenti prospettive.
Analoghe osservazioni vennero fatte anche sugli altri libri biblici. Già da tempo si parla di un primo. Un secondo ed un terzo Isaia, indicando sommariamente il fatto che il libro del grande profeta è in realtà frutto di almeno tre diverse composizioni risalenti la prima al profeta stesso, VIII sec. a.C. (capp. 1-39), la seconda dell’epoca esilica, VI sec. a.C. (capp. 40-55), la terza dell’epoca post-esilica, VI-V sec. a.C. (capp. 56-66).
È facile intuire che tutti i libri profetici nacquero come risultato di uno sforzo compositivo più o meno lungo e complesso. I profeti ebbero il compito di parlare a Israele, non di scrivere per Israele. Così pure per le riflessioni sulla vita, il dolore, la gioia, la morte, argomenti della lunga e continua riflessione sapienziale di cui i libri come Giobbe, Proverbi, Ecclesiaste, sono il risultato finale.

3-  La formazione dei Vangeli.
Non meno interessante è la storia della formazione del NT, avvenuta in temi più brevi ma non senza dei periodi di elaborazione e di rimaneggiamento degli scritti. Limitando la nostra osservazione ai vangeli, è stata soprattutto la cosiddetta scuola della “storia delle forme”, nata in Germania all’inizio del novecento, a studiare il lavoro di composizione letteraria che precedette l’ultima redazione dei Vangeli, quella che consegnò alla storia e alla fede i nostri attuali testi. Le osservazioni fatte da alcuni studiosi più attenti al ruolo che ebbero nella composizione le personalità proprie dei singoli evangelisti (storia della redazione) e da altri sul ruolo che ebbero le tradizioni orali che precedettero le stesure scritte, ci permettono oggi di considerare i diversi aspetti di quel processo compositivo.
Subito dopo la morte/risurrezione di Gesù, i discepoli, illuminati dal grande evento della risurrezione che permetteva loro una rilettura teologica dei fatti e delle parole del Maestro, trasmisero in più forme e diversi contesti le parole, i gesti miracolosi, le storie legate alla sua vita. Ciò avveniva regolarmente nelle liturgie battesimali, in cui si richiamavano specifiche espressioni di Gesù, nonché racconti sul battesimo di Gesù. Le riunioni venivano accompagnate con inni e confessioni di fede in Gesù Messia e Figlio di Dio. L’annuncio cristiano (kerygma) avveniva attraverso la proposta essenziale della fede, espressioni concise sulla passione-morte-risurrezione di Gesù. La catechesi per la preparazione al battesimo e per la vita della comunità riprendeva episodi illuminanti della vita di Gesù, letti a partire <dalla comprensione più profonda dei fatti all’indomani della risurrezione di Cristo. tutto ciò costituiva la vita stessa della comunità cristiana, la sua prassi cultuale e catechetica. Furono questi elementi a costituire, nella loro forma orale e nelle prime stesure per iscritto, il materiale di partenza a disposizione degli evangelisti.
Il primo racconto esteso sulla vicenda di Gesù fu quello della passione-morte-risurrezione, come approfondimento teologico dell’annuncio kerygmatico della fede, tanto più necessario tanto più scandaloso appariva a giudei e pagani la notizia di un Messia, Figlio di Dio crocifisso. Se Marco partì da questi elementi primitivi per scrivere il suo Evangelo, il primo, Matteo e Luca poterono utilizzare la composizione marciana e altre fonti a disposizione tra cui una in cui vennero raccolti i “detti” (loghia) di Gesù. Anche per gli Evangeli, dunque, benché in tempi più brevi (dal 30 al 90 d.C.) il processo formativo è stato molto articolato. Gli scritti che noi oggi possediamo, sia per l’AT che per il NT, sono frutto di un lavoro che ha coinvolto generazioni di uomini impegnati in un cammino di fede, in cui seppero distinguere tra gli avvenimenti della storia e le vicende della loro vita la rivelazione stessa di Dio. Tale rivelazione coinvolse non primariamente degli scrittori ma la vita e la storia di Israele, come quella dei discepoli di Gesù. La fissazione di questa rivelazione in libri attraversò un processo lungo e articolato, finalizzato a conservare nel tempo l’efficacia della Parola di Dio.  Tutto ciò lungi dal diminuire il carattere della Bibbia di “Parola di Dio”, fa riflettere sul come Dio entra in rapporto con l’uomo: non al di sopra della storia umana ma nei fatti e nelle situazioni della vita. Non consegnando all’uomo un “Libro sacro” da lui confezionato ma imprimendo un movimento che da fatti e parole giungerà a cristallizzarsi nella Scrittura, “luogo” privilegiato della divina rivelazione. Come ebbe a dire Lutero “Infatti Egli (Dio)non vuole dare a nessuno lo Spirito né la fede senza la Parola ”.
4- I testi originali e le traduzioni.
Una delle domande più frequenti riguarda la fedeltà delle attuali traduzioni bibliche ai testi originali. È una domanda legittima che richiede una serie di informazioni specifiche sulle lingue in cui testi furono composti, il lavoro di “ricerca” degli originali, il lavoro di traduzione. I testi biblici furono composti in tre lingue: ebraico, aramaico e greco. L’AT fu composto quasi interamente in ebraico, una lingua appartenente al gruppo delle lingue semitiche di cui fanno parte l’aramaico e l’arabo. Si tratta di lingue molto diverse da quelle europee, sia per l’uso di suoni gutturali che per la grafia: da destra a sinistra e con segni del tutto differenti dall’alfabeto latino. L’ebraico della Bibbia è anche detto “quadrato” per la caratteristica forma delle consonanti mutuate dalla scrittura aramaica. A parte queste differenze, si tratta di una lingua dalla struttura semplice in cui si fa scarso uso di termini astratti e domina un tipo di costruzione che tende alla coordinazione dei periodi tra loro, piuttosto che alla subordinazione. Ed è proprio questa semplicità ed immediatezza che a volte costituisce un problema nelle traduzioni in lingue moderne. Già Girolamo, che tradusse dall’ebraico molti testi dell’AT, si rese conto che non era possibile trasporre le parole ebraiche in termini latini ma che bisognava rendere in traduzione lo stesso pensiero espresso nell’originale. Questo spiega a volte la differenza del testo nelle varie traduzioni.
In aramaico furono scritte solo poche parti dell’AT: Esdra 4,8-6,18; 7,12-26 e Daniele 2,4-7,28, con qualche parola in Geremia. Si tratta di una lingua che ha avuto un’evoluzione lunga e un uso ben più diffuso e vario dell’ebraico. A partire dal V sec. a.C., dopo l’esilio babilonese, gli ebrei stessi (compreso Gesù e gli apostoli) useranno sempre più l’aramaico come lingua comune, considerando però l’ebraico la lingua dei testi sacri. La diffusione dell’aramaico tra gli stessi ebrei fu tale che nei culti sinagogali si rese necessario tradurre oralmente i testi letti in ebraico. Queste prime traduzioni orali in aramaico (i targum) verranno messe per iscritto solo più tardi ma non sostituiranno mai, nel culto e nello studio, i testi originali in ebraico.
Il greco, che dal III sec. a.C. divenne la lingua dominante dell’intero bacino mediterraneo, fu la lingua utilizzata dagli scrittori del NT. Si tratta del greco comune (koinè) e non del greco classico. La lingua del NT risente della struttura del linguaggio semitico dato che la lingua parlata era l’aramaico. In greco, a partire dal III sec. a.C., fu realizzata un’importante traduzione dell’intero AT, la famosa versione dei LXX. Ciò dipese dalla consistenza delle comunità giudaiche che vivevano fuori della Palestina, e in cui si parlava comunemente il greco. Tale versione dell’AT fu utilizzata dai primi cristiani e fu proprio questa scelta che indusse gli ebrei a rifiutare quest’opera sostituendola, nel corso del II sec. d.C., con le nuove versioni in greco di Simmaco, Aquila e Teodozione.
Tornando alla domanda iniziale,possiamo dire che di fatto non possediamo i testi autografi degli scrittori biblici, neanche di quelli del NT. Possediamo, però una grande quantità di manoscritti di diversa antichità che costituiscono il materiale di base da cui partite per ricostruire gli originali. Tale necessità di ricostruzione del testo si rende necessario appunto perché si tratta di manoscritti per cui è sempre possibile che si sia introdotta una pur lieve alterazione rispetto all’originale. Talvolta si trattò di errori inconsci dei copisti (l’inversione di due parole, il salto di una frase racchiuso tra due termini uguali, la sostituzione di un termine dal suono simile); talvolta di errori coscienti, tendenti a migliorare il testo, ritenuto poco corretto. Si impone così un lavoro di ricostruzione che tende ad ottenere l’originale mettendo i vari manoscritti a confronto.
5- I manoscritti biblici e la critica testuale.
Per l’AT ebraico si parte generalmente da un testo riconosciuto dagli studiosi come molto accurato. Si tratta del Codice di Leningrado (1008 d.C.), dalla città in cui fu conservato. Tale testo viene poi completato da una serie di osservazioni fatte a partire da tutti gli altri manoscritti ebraici ritrovati. Dopo le grandi scoperte archeologiche dell’ultimo secolo, la più importante delle quali fu quella di Qumran del 1948, si è potuto verificare che il testo ebraico riportato dal manoscritto di Leningrado, detto Testo Masoretico, è sostanzialmente identico ai manoscritti risalenti sino al II sec. a.C. Il testo del Codice di Leningrado, accompagnato da un apparato critico che raccoglie tutte le osservazioni fatte dagli studiosi consultando gli altri manoscritti antichi, è stato utilizzato per l’edizione più diffusa della bibbia ebraica, il K. Ellinger – W. Rudolph, la cosiddetta Bibbia Hebraica Stuttgartensia, edita a Stuttgart negli anni 1967-1977.
Per il NT non si è scelto un manoscritto di base ma si è riscritto il testo a partire dal confronto tra i circa 2500 manoscritti antichi: codici (a partire dal IV sec. d.C.), papiri (a partire dal II sec. d.C.) e numerose altre testimonianze come, ad esempio, i lezionari, le citazioni patristiche di frasi o parti del NT. Dal confronto scientifico tra i “testimoni” del testo nasce il “testo critico” del NT, frutto di un’attenta e documentata ricostruzione. I suoi autori, citando in nota le varianti di fronte alle quali si sono trovati confrontando i manoscritti fra loro, indicano con precisione le motivazioni della loro scelta per una variante anziché per un’altra. Tra le diverse edizioni critiche del NT sono da menzionare l’edizione di K. Aland – M. Black, The Greek New Testament, United Bible Societis, Stoccarda 1975, il testo di A. Merk, Nuovo Testamento – greco e latino, ed. Dehoniane, Bologna 1990,
Lo stesso lavoro, dunque altri “testi critici”, è compiuto per le antiche traduzioni, in particolare per la traduzione greca dei LXX e la traduzione latina di Gerolamo, detta Vulgata. Il lavoro di traduzione nelle diverse lingue moderne avviene, solitamente, sui testi sopra citati, frutto del lavoro della “critica testuale” che si presenta sempre più, a partire dalla sua nascita, come un lavoro di gruppo al quale danno il loro contributo studiosi appartenenti alle diverse chiese cristiane. In questo campo il lavoro sulla Bibbia favorisce il dialogo tra le diverse confessioni cristiane.
Come detto sopra, il lavoro di traduzione è molto antico: per l’AT inizia già con la traduzione greca dei LXX, con i targumin e poi con traduzioni copte, siriache e latine. Oggi il lavoro di tradizione della Bibbia è condotto di solito con grande cura e non deve meravigliare che talvolta non ci sia una corrispondenza letterale tra un traduzione e l’altra. Ciò accade per le preferenze stilistiche di traduttori e per le intenzioni di fondo che guidano il lavoro. Anche l’aggiornamento linguistico è importante per una corrente traduzione della Bibbia: termini vetusti, desueti, vengono resi in lingua moderna. tutto questo lavoro circa il recupero dei testi biblici e la loro traduzione, richiede, come ogni altra ricerca del genere, l’accuratezza scientifica e  il rigore metodologico. La stima per questi sforzi, la collaborazione ecumenica tra gli studiosi, la possibilità di accostarsi con fiducia al testo biblico nelle sue molteplici traduzioni ed edizioni, costituiscono altrettanti aspetti di una fede che, illuminata dalla ragione e dalla scienza, si rivolge con accresciuta fiducia alla parola di Dio.


6- I libri della Bibbia e gli apocrifi: il canone ebraico.
Come è stato già ampiamente detto, la Bibbia è in realtà una collezione di molti libri ed è naturale che, per il suo lungo processo di formazione durato oltre un millennio, la sistemazione dei libri riconosciuti come appartenenti al canone sia avvenuta nel tempo. Vi sono, infatti, differenze tra la Bibbia Ebraica, la Bibbia Cattolica e la Bibbia Protestante. Con questo breve accenno al problema del canone biblico, risulta chiaro che anche per questo aspetto bisogna parlare della Bibbia in termini storici. È per questa sua caratteristica fondamentale che la Scrittura non può essere assimilata ad una sorta di scritto preconfezionato da Dio e semplicemente consegnato nelle mani dell’uomo. La collaborazione tra Dio e l’uomo iniziò già prima che nascessero i testi sacri, quando chiamò Abramo, quando svelò a Giacobbe il destino suo e del suo popolo; continuò nell’impulso divino che mosse alcuni uomini a mettere per iscritto esperienze e parole che avrebbero continuato a rivelare nel tempo la volontà e la natura di Dio; proseguì nell’opera di discernimento a cui i cedenti furono chiamati per accogliere le Scritture distinguendole da tanti altri scritti simili per forma ma non ispirati da Dio. È in questo contesto storico che va affrontato anche il problema del canone, altrimenti incomprensibile. La definizione del canone ebraico fu, dunque, graduale. Nel mondo ebraico venivano venerati come scritti sacri i rotoli della Toràh; la loro origine divina non fu messa in dubbio nemmeno nelle travagliate vicende storiche che portarono a conflitti e separazioni all’interno dello stesso ebraismo. Ad esempio i Samaritani, pur divisi ed in lotta con i giudei, conservarono e venerarono sempre, fino ad oggi, la Toràh come parola di Dio. Anche per gli scritti profetici, i Nebi’im, vi sono testimonianze molto antiche circa il loro uso liturgico ed il riconoscimento della loro ispirazione. La terza categoria di scritti, ossia i Ketubim, fu quella più fluttuante. Comprendeva, infatti, libri di diverso genere: dai salmi ai sapienziali a libri storici. Dall’altra parte vi sono testimonianze antiche circa l’uso di libri che non entreranno nel canone ebraico né in quello cristiano. Ciò non fa meraviglia: il canone fu definito non in base ad un principio prestabilito ma per la graduale, comune presa di coscienza che alcuni di quei libri presentavano autenticamente la parola di Dio a differenza di altri che pure utili, non la esprimevano autenticamente.
Gesù e i suoi discepoli condivisero questo uso spontaneo delle Scritture. Il culto sinagogale prevedeva la lettura dei Profeti (cfr. Lc 4,16-19). Tuttavia all’epoca non è ancora possibile parlare di canone ebraico. Il bisogno di tale definizione si fece sentire soprattutto nel conflitto con la nascente chiesa cristiana. Il fatto che i cristiani si ritenessero eredi legittimi delle scritture, portò Israele a rifiutare la traduzione greca della Bibbia (la LXX), usata appunto dai cristiani, sostituendola con le nuove versioni greche di Simmaco, Aquila e Teodozione. Il processo di definizione fu sollecitato anche dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera dei romani nel 70 d.C. e successiva deportazione dei giudei, distruggendo di fatto il mondo giudaico. Fu necessario il recupero della propria identità nazionale e religiosa e separarsi da quanti giudei non erano più e tra questi anche i cristiani. Fu così che gli ebrei esclusero alcuni libri di cui non si conosceva l’originale ebraico o che furono composti in greco: i cosiddetti deuterocanonici (Tobia, Giuditta, 1-2 Maccabei, Baruk, Siracide, Sapienza e delle sezioni di Daniele ed Ester). Al canone ebraico si uniformarono i Riformati definendo apocrifi questi libri e non includendoli nella loro versione della Bibbia, mentre i cattolici li includono considerandoli ispirati al pari degli altri.
7- I libri della Bibbia e gli apocrifi: il canone cristiano.
L’origine del NT segue lo stesso procedimento storico relativo all’AT. Anche per le comunità cristiane delle origini abbiamo testimonianze di un uso antichissimo e costante di libri ritenuti universalmente ispirati (è il caso dei vangeli, delle lettere paoline), ed un uso diversificato di altri libri, ritenuti sacri ed utilizzati in alcune comunità e non in altre. È il caso dell’epistola agli Ebrei, quella di Giacomo,la seconda lettera di Pietro, la seconda e la terza lettera di Giovanni, quella di Giuda e l’Apocalisse. Al contrario, vi furono testi utilizzati da alcune comunità che saranno abbandonati e non riconosciuti, alla fine, come ispirati. Anche per il NT non esistette un criterio per decidere della canonicità, benché l’origine apostolica (reale o apparente) e la conformità degli scritti alla fede apostolica dovettero essere elementi importanti nel discernimento. La formazione del canone dipese dalla coscienza dell’ispirazione. Nella misura in cui ebraismo e cristianesimo si andavano organizzando e uniformarono gli usi nelle diverse comunità, sporse il problema di elencare con precisione i libri da proporre alla comunità dei credenti. Testimonianze di questa esigenza risalgono a tempi molto antichi. È il caso della lista contenuta nel famoso “Frammento Muratoriano” del II sec. d.C.; della lista di Origene del III sec.; di quella di Eusebio del IV sec. Tuttavia solo alla fine del IV sec., con le liste di Atanasio e di Agostino, e soprattutto con quelle dei concili di Ippona (393) e di Cartagine (397 e 419) si avrà una lista valida nell’Occidente cristiano. Si tratta del canone ripreso poi dal concilio di Firenze del 1441. Nessuno di questi concili, però, aveva affrontato il problema in maniera esplicitamente definitiva, quasi non avvertendone il bisogno che si presentò quando i riformatori esclusero dal canone i libri deuterocanonici. Infatti, il concilio di Trento, che poteva essere una proficua occasione di distensione tra riformatori e cattolici, definì solennemente il canone biblico inserendo anche i libri che erano stati esclusi. I riformatori designarono tali libri come “apocrifi” perché non riconosciuti come libri ispirati. Questi libri conservano naturalmente un interesse di tipo storico e culturale, nella misura in cui si distingue anche per essi il genere letterario, le circostanze e le finalità per le quali vennero scritti.
Caso particolarmente interessante è quello dei cosiddetti vangeli apocrifi. Non è difficile notare come si differenzino dai vangeli canonici. Mentre questi ultimi conservano una certa sobrietà nel raccontare le vicende di Gesù, gli apocrifi abbondano di tratti descrittivi che hanno a che fare con la ricerca del prodigioso. Ne sono testimonianza alcune storie di cui ritroviamo l’eco in racconti sull’infanzia di Gesù o alcune rappresentazioni della passione. Altri scritti apocrifi, come il vangelo di Tommaso, il vangelo di Filippo ed altri, hanno una più delineata origine gnostica. Proprio l’uso di questi libri da parte di gruppi eterodossi determinò la loro esclusione dal canone.
Oggi, nel mondo Protestante, le bibbie presentano l’AT nella forma voluta dai primi riformatori. Alcune bibbie riportano in appendice i sette libri deuterocanonici chiarendo che essi sono esclusi dal canone ebraico, ma perlopiù si tende a non riprodurli. Non vi sono differenze, invece, tra protestanti e cattolici per quanto riguarda il canone del NT. Proprio la questione del canone biblico, uno dei motivi di rottura tra le due famiglie cristiane, si presenta oggi come un campo fecondo di riflessione e di dialogo ecumenico, ove i cattolici riconoscono una superiorità nel campo ai fratelli protestanti.
8- La verità della Bibbia
Molte volte il credente, leggendo alcune pagine della Scrittura, si trova di fronte a problemi di coerenza apparentemente insolubili. Le acquisizioni scientifiche rivelano infatti l’incongruenza tra alcuni passi della Bibbia e le posizioni della scienza. Come sostenere che la creazione è frutto dell’attività divina descritta nei primi capitoli della Genesi? In Gn 1 si parla della creazione dell’universo e dell’uomo in sei giorni, mentre la scienza parla di miliardi di anni dall’origine del cosmo all’apparizione dell’uomo. E come si potrà sostenere la creazione dell’uomo dal fango attraverso un soffio divino di fronte alla fondata, benché discussa, teoria dell’evoluzione? Domande sulla coerenza della Bibbia con la verità oggettiva dei fatti vanno oltre l’ambito delle scienze naturali coinvolgendo questioni storiche e conoscenze geografiche. Alcune domande nascevano anche tra gli antichi lettori della Bibbia che si imbattevano in discordanze interne alla stessa narrazione, come nel caso del diluvio di Gn 6-9. In ogni tempo si è cercato di interpretare queste discordanze in molti modi. Gli antichi rabbini sostenevano che le cose sarebbero risultate chiare con il ritorno di Elia, che avrebbe spiegato le apparenti discrepanze. Gli antichi scrittori cristiani sottolinearono spesso l’aspetto di “mistero” intrinseco alla Scrittura, che la rendeva solo apparentemente incongruente. Spesso si ricorse alla lettura “allegorica” della Bibbia, sottolineando il fatto che le notizie, la descrizione dei fatti, avevano in realtà come vero scopo la rivelazione di una realtà superiore, spirituale, di fronte alla quale la coerenza della historia o della littera biblica diventava del tutto secondaria. Benché questo principio della “lettura spirituale” della Bibbia abbia dominato nell’antichità cristiana e nel Medio Evo, l’esigenza di risposte più precise ai problemi scaturenti dal confronto tra Scrittura e scienza divenne sempre più pressante fino a determinare una vera e propria crisi allorché, con l’era moderna, si verificò quel progresso di conoscenza che determinò il superamento dell’antica, unificata concezione del cosmo e dell’uomo. Il caso più noto ed emblematico è quello di Galileo Galilei con il problema dell’eliocentrismo. L’antica concezione tolemaica veniva minata e con essa la base su cui alcune affermazioni bibliche potevano essere spiegate. Che senso avrebbe avuto a quel punto il comando di Giosuè “Sole fermati su Gabaon, e tu, luna, sulla valle d’Aialon!” (Gs 10,12-14) se la scienza poteva dimostrare che a girare era la terra e non il sole? Emergeva con drammaticità il problema che avrebbe dominato la coscienza dell’uomo moderno: proseguire nel cammino scientifico con la forza della ragione avrebbe voluto dire abbandonare le antiche concezioni sull’uomo e sul mondo di cui tanti riflessi appaiono anche nella Bibbia? Una curiosità: anche Calvino fu accusato di oscurantismo in quanto avrebbe negato la verità della teoria eliocentrica; in realtà egli non fece mai tale affermazione ma fu l’arcivescovo anglicano di Canterbury ad introdurla per la prima volta nell’Ottocento.
Non sono mancati casi di conciliazione, come la teoria del “concordiamo” che di fronte alla teoria evoluzionistica propose di leggere il dato biblico sulla base delle conoscenze scientifiche, e così i giorni della creazione andrebbero intesi come ere geologiche. In realtà il giusto atteggiamento è intendere la Scrittura come parola divina/umana: essa riguarda l’ambito della fede e non della scienza. La Bibbia va studiata scientificamente per scoprire in essa i generi letterali: si tratta della questione della critica letteraria e testuale, della formazione e della redazione, dell’ambiente vitale che ha prodotto i testi, di cui abbiamo già parlato. Questa attenzione al genere letterario non toglie nulla alla verità del messaggio comunicato dai testi, anzi è l’unica via per non confondere i modi di espressione con il messaggio di salvezza.
9- La Bibbia e la storia (parte 1)
All’interno del più ampio discorso sul rapporto tra racconto biblico e dati delle diverse scienze merita particolare attenzione la questione del correlazione tra la “narrazione” biblica e gli avvenimenti che furono alla base di quella narrazione, gli “eventi” narrati. Per entrare nel discorso è necessaria una prima considerazione: tra la composizione dei libri biblici e i fatti narrati passa un periodo di tempo talvolta molto lungo (è il caso del pentateuco), talaltra più breve (è il caso dei Vangeli). La narrazione dei fatti che riguardano l’origine del mondo, le vicende patriarcali o anche l’uscita dall’Egitto come ne parla il Pentateuco, sono di molto anteriori alle prime stesure scritte di quei racconti. Anche l’avvenimento più recente di quella storia, l’esodo dall’Egitto, vicenda che risale al XIII sec. a.C., dista non poco dalla più antica fonte scritta del Pentateuco (la fonte Jahvista), che risale al X sec. a.C. Questa semplice considerazione ci consente una prima distinzione tra le storie o la storia narrata dai testi biblici e il tempo storico in cui i libri vennero composti. Si pensi che per la redazione finale del Pentateuco bisognerà attendere il V sec. a.C. Il riflesso di questa distanza è osservabile nell’impostazione stessa dei racconti che narrano vicende antiche con lo scopo di illuminare il presente storico di Israele. Sempre fermandoci al caso del Pentateuco, non è difficile immaginare quanto le vicende della promessa fatta ai patriarchi, della fatica per uscire dalla schiavitù egiziana, della lotta contro l’idolatria e della speranza di raggiungere la terra promessa, fossero vissuti come sentimenti vivi all’epoca della redazione finale(redattore Sacerdotale), epoca in cui Israele visse la dura prova dell’esilio babilonese (VI sec. a.C.). Il fatto che i testi, nella loro composizione, venivano percepiti come veicolo della parola di Dio, significa che essi esprimevano la volontà divina circa la costituzione di Israele come popolo, che le narrazioni di quei fatti antichi ripresentavano il progetto liberatore di Dio, valido per sempre, per Israele. Quegli scritti, dunque, garantivano l’autenticità della rivelazione di Dio e della sua volontà, non l’esattezza delle descrizioni dei singoli fatti storici. È quella che i padri della Riforma definiranno dottrina della sufficientia Scripturae.
Il problema risulta evidente quando si parla dei racconti della creazione  e dei patriarchi (Gn 1-11), che pur sottratti oggi da una interpretazione di tipo storico, che vedeva in essi il resoconto di fatti avvenuti nei primi giorni di vita del mondo, sono ampiamente approfonditi e rivalutati per il messaggio di cui sono portatori, messaggio raggiunto grazie al contributo che ci è venuto dalla considerazione dei generi letterari. Tanti libri e passi biblici, un tempo letti come resoconti storici, sono stati liberati dall’apparente contraddizione con la scienza, per la semplice acquisizione che essi non hanno la pretesa di presentarsi come “cronache” dei fatti accaduti, ma come narrazioni delle esperienze storiche fatte dall’antico Israele. I contributi che provengono dall’antropologia e dalla filosofia sul concetto di “mito” aiutano a non considerare i racconti mitici semplici storielle ma a cercarvi il significato delle cose. Si tratta di una forma che precede l’approccio scientifico e filosofico alla natura e ai fatti della storia, che a partire dall’esperienza umana intende offrire delle spiegazioni sufficienti. Gli agiografi si servono di alcuni di quegli antichi racconti per rivelare in forma di narrazione il progetto di Dio, il senso della creazione.
10- La Bibbia e la storia (parte 2)
La scorsa volta abbiamo visto come vadano intesa la storia biblica eppure vi sono nella Bibbia libri che si presentano come narrazioni storiche. A partire da Gn 12 inizia un racconto continuo che presenta i patriarchi di Israele come discendenza di padre in figlio: Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe. La storia continua con Mosè che guida il popolo verso la terra promessa (Es-Dt). L’ingresso in Canaan avviene sotto la guida di Giosuè (Gs), a cui seguì il tempo dei giudici (Gdc) che amministrarono la vita delle tribù di Israele fino all’avvento della monarchia (1-2Sam). La storia della monarchia davidica  (X sec.a.C.) continua con Salomone e, alla morte di questi, con la divisione di Israele in due regni (Israele e Giuda)fino alla caduta del regno di Israele ad opera dell’Assiria nel 722 a.C. e di Giuda da parte dei babilonesi nel 587 a.C. (1-2Re). i due libri delle Cronache, scritti in epoca più recente, ripercorrono l’intero arco storico da Adamo fino a Ciro re di Persia. Esdra e Neemia narrano la ricostruzione di Gerusalemme al ritorno dall’esilio babilonese. La maggior parte dei dati storici che possediamo sull’Israele antico dipendono dalla lunga descrizione Deuteronomista. Essa descrive la storia non come mera registrazione di fatti ma li narra su una trama costruita sul tema della salvezza proposta da Dio. La prospettiva dell’autore biblico, per noi cristiani che rileggiamo l’AT, è teologica, tende cioè a mettere in rilievo la presenza e la guida di Dio che si manifesta negli avvenimenti della storia israelitica. Il problema nasce quando questa lettura della storia viene considerata semplicemente come descrizione storica ed assunta quale ricostruzione della storia di Israele. Le vicende di Abramo e della sua discendenza, la narrazione dell’esodo e della conquista di Canaan, venivano assunte come veri e propri rapporti storici da integrare, eventualmente con i dati forniti dalle scoperte archeologiche. In realtà per una vera e propria ricostruzione storica i dati offerti  dalla Bibbia, almeno fino alla monarchia davidica, sono insufficienti. Si tratta di racconti che riguardano fatti specifici di antichi clan, di vicende epicizzate come l’uscita dall’Egitto o la conquista. Si pensi alla tradizione esodica che parla ripetutamente di seicentomila uomini israeliti usciti dall’Egitto, senza contare donne e bambini. Si tratta ovviamente di un dato sproporzionato, per quei tempi.
Per il lavoro storiografico vero e proprio è necessario un quadro più ampio di riferimento: dati di tipo amministrativo, politico, ecc… Non possediamo descrizioni o racconti paralleli a quelli biblici per poter ricostruire i fatti narrati dalla Bibbia. Tutto ciò vale almeno fino alla monarchia davidica. È solo da Davide in poi che i dati cominciano ad essere più completi: la stessa narrazione biblica accanto a racconti relativi ad individui ed al loro rapporto con Dio cominciano a fornire anche dati di tipo politico,amministrativo e militare. gli studiosi di storia israelitica hanno seguito due diverse vie: da una parte chi, mantenendo il dato biblico come base, cerca il confronto con situazioni e dati forniti dall’ambiente antico orientale conosciuto da altre fonti; dall’altro chi rinuncia a fornire una ricostruzione storica delle fasi più antiche della storia di Israele, preferendo partire da periodi sui quali si può disporre di maggiori informazioni. Nell’uno e enll’altro caso non viene negato il fondamentale riferimento delle narrazioni bibliche a fatti storici, viene semplicemente valutata la difficoltà di una vera ricostruzione storica. Ad esempio, la maggior parte degli studiosi del Pentateuco vedono nel collegamento generazionale tra i patriarchi (padre-figlio) un legame forse artificiale, dovuto all’antica tradizione ebraica che in tal modo poté presentare in una storia continua le vicende legate a personaggi che in origine appartennero a singole tribù di Israele e che solo più tardi divennero padri “comuni” all’intero Israele.
11- La Bibbia e la storia (parte 3)
Continua la nostra anali del rapporto tra storia e Bibbia. Ci occupiamo adesso del NT. Il problema di questo rapporto tra Bibbia e storia per quanto riguarda il NT è stato posto in maniera netta a partire dalla fine del XIX sec. e l’inizio del XX. È nota la posizione di R. Bultmann, uno studioso tedesco che portò alle estreme conseguenze l’acquisizione ormai comune che gli Evangeli non fossero semplici descrizioni storiche della vicenda di Gesù ma la testimonianza di fede in Gesù come Messia e Figlio di Dio che di lui, attraverso quelle narrazioni, avevano dato le comunità cristiane  primitive. Nel momento più acuto di questa critica alla storicità dei Vangeli si arrivò a distinguere nettamente tra il Gesù della storia ed il Cristo della fede. Solo il Cristo della fede sarebbe raggiungibile dalle fonti a nostra disposizione. Per il Gesù storico, certamente non negato, veniva semplicemente ammesso che la sua vicenda terrena non fosse più raggiungibile storicamente perché narrata da uomini interessati a mostrare, attraverso pallidi ricordi della sua vita, la fondatezza della propria fede in Gesù come Messia e Figlio di Dio. Già i discepoli di Bultmann, e sempre più esegeti e storici successivi, hanno fatto notare come l’annullamento del valore di testimonianza storica dei Vangeli fosse eccessivo, anche se è ormai pacifico riconoscere che le narrazioni evangeliche su Gesù comunicano la memoria di fatti storici in una testimonianza di fede. Il che è pienamente spiegabile, dal momento che l’interesse che nacque negli apostoli e nella chiesa primitiva intorno alla persona di Gesù fu motivato proprio dalla fede in lui come Signore, fede maturata solo all’indomani della risurrezione. Fu da questa fede nel Risorto, dal desiderio di annunciarla alle comunità e al mondo, che nacquero le narrazioni evangeliche, nello stesso tempo “memoria storica” e “testimonianza di fede”.
Come si può notare dai pochi esempi accennati, non si tratta di concludere decidendosi in maniera complessiva per l’affermazione o la negazione della storicità della Bibbia. L’argomento va considerato in maniera molto più attenta, tenendo presenti alcuni fattori:
1- distinguere tra “storia” come fatti accaduti e “storia salvifica”. Con questo indichiamo il punto di vista dei narratori biblici: la lettura degli avvenimenti alla luce del piano di Dio che, proprio attraverso i “fatti” manifesta;
2- la diversa valutazione delle singole parti della Bibbia, AT e NT, a cui uno studioso deve sottoporle per ricostruire una storia dell’AT, di Gesù o della comunità cristiana primitiva;
3- l’irrinunciabilità di una ricerca storica intorno alla storia salvifica.
Nella fede ebraica e cristiana, diversa,ente dalle altre religioni, la rivelazione è avvenuta gestas verbisque, ossia con parole e fatti. Non è sufficiente, come è accaduto nel passato e tutt’ora in alcune comunità di fede, separare i contenuti della fede dai fatti storici che sostanziano la fede. D’altra parte, lo stesso credo cristiano, come le maggiori espressioni di fede ebraica, pone alla base della fede non delle verità astratte ma dei fatti. Per il cristiano la nascita, la vita, la passione, la morte e la risurrezione di Gesù, ben circostanziate (fu crocifisso sotto Ponzio Pilato) entrano nella professione di fede (Credo).
Concludendo, la Bibbia nella sua descrizione della storia salvifica, degli interventi di Dio nella storia di Israele, di Cristo e della Chiesa antica, ci riporta ad un mondo lontano da noi, per la cui ricostruzione storica non è sufficiente mettere semplicemente in ordine tutti i dati ricavabili dalle narrazioni bibliche. Se si intende ricostruire una “storia” precisa di quel mondo, bisognerà attenersi ai criteri della storiografia, studiare le fonti bibliche come si studiano altre fonti storiche, sottoponendole ad analisi e ai confronti con altri materiali. Di grande importanza saranno i riscontri archeologici, non solo diretti, come conferma o smentita di un fatto o luogo biblico, ma anche indiretti, come illustrazione di situazioni che fanno da sfondo al racconto biblico. È questo, ad esempio, il caso delle conoscenze che si hanno attraverso scoperte archeologiche del contesto egiziano all’epoca dell’esilio. Effettivamente si costruivano grandi depositi, insieme a palazzi e templi che simboleggiavano il potere di Ramses II. Gli esempi si potrebbero moltiplicare man mano che ci avviciniamo all’epoca di Gesù. Storia si, dunque, ma storia salvifica, letta e narrata da uomini di fede per persone di fede o, almeno, alla ricerca autentica di Dio.
12- L’interpretazione della Bibbia nel mondo ebraico
La comprensione di un testo letterario, di qualunque genere e di ogni tempo, chiede uno sforzo interpretativo che aumenta se tra lettore e testo vi è una grande distanza di tempo e di cultura. È questo il caso dei testi biblici. Dalle prime redazioni dei racconti biblici ci separano circa tre millenni. Inoltre, si tratta di testi scritti in lingue diverse e lontane dalla  nostra. Il tentativo di una interpretazione autentica diventa più delicato per il fatto che quei testi trasmettono, per il credente, la parola di Dio, parola a cui riferirsi per avere un orientamento di vita. Per l’evidenza di questi fattori è ovvio che giudei e cristiani si siano posti il problema dell’interpretazione autentica della Bibbia e, soprattutto, dei criteri per conseguirla. La  consapevolezza che le Scritture vadano non solo lette ma approfondite e meditate fu viva già all’epoca della formazione dell’AT. Le narrazioni bibliche, ad esempio l’esodo, sono frutto di una interpretazione teologica delle vicende vissute o raccolte da narrazioni altrui. Così all’interno della Toràh esistono diverse presentazioni di un medesimo avvenimento, esse stesse interpretazioni di quel fatto originario; è il caso, ad esempio, del Decalogo (cfr. Es 20,1-17; Dt 5,1-22). Alcune vicende, come l’uscita dall’Egitto, vengono riproposte in diverse fasi e contesti della vita di Israele (Es 14-15; Is 40,1-11.17-20; Sal 78,105). Diversi autori riprendono le narrazioni bibliche precedenti e le ripresentano ai credenti della propria epoca, ne illustrano il significato per recuperare il messaggio attuale. È quanto accade del messaggio del profeta Isaia raccolto e attualizzato dal Deuteroisaia e Tritoisaia. Su questa linea interpretativa si inserisce il midrash, una forma di interpretazione attuata nelle scuole rabbiniche. Dal V sec. a.C. la necessità di tradurre i testi in aramaico per i tanti giudei non più in grado di leggere l’ebraico, causò la nascita del targum (traduzione), in cui il testo veniva tradotto ricorrendo spesso a parafrasi per una sua corretta interpretazione ed attualizzazione. L’adattamento della Bibbia alle nuove circostanze fu compito specifico dei soferim (da sefer, libro), i famosi dottori della legge. L’interpretazione midashica si dipartiva in due forme: la halakà (da halak, camminare)in cui si cercava di trarre le norme di comportamento attualizzando e sviluppando i testi legali, e la haggadà (da nagad, narrare) riguardante i testi narrativi in cui si cercava di approfondire la fede.
Questi modelli interpretativi erano già diffusi all’epoca di Gesù. Paolo utilizzò l’interpretazione midrashica nella sua applicazione del racconto di Abramo. Questo modo di interpretare la Bibbia continua fino ai nostri giorni. Sarebbe errato pensare che l’interpretazione della Scrittura sia solamente cristiana; il popolo ebraico ha continuato a meditare e a vivere la parola di Dio, una ricchezza per tanto tempo ignorata.
13- L’interpretazione della Bibbia nella chiesa antica
Con Gesù l’esigenza di una interpretazione autentica delle Scritture si manifesta in maniera nuova. Egli fa appello non solo ai criteri interpretativi già in uso al suo tempo ma si propone, egli stesso, come autentico interprete della Bibbia, mostrando come un’interpretazione parziale o schiava della tradizione rabbinica potesse compromettere la comprensione della vera volontà di Dio (cfr. le antitesi del Sermone sul monte “Voi avete udito… ma io vi dico”, Mt 5,21-48). La comunità primitiva vede in Gesù  un principio ermeneutico vivente, che avrà valore perenne per coloro che lo seguono: “E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo riguardavano” (Lc 24,27). Qui il greco dice espressamente διηρμήνευσεν, cioè Gesù dà la vera interpretazione dell’AT mettendoli in relazione con la sua persona, in particolare con la sua morte-risurrezione. Gli evangelisti presentano, così, un criterio centrale dell’interpretazione cristiana  che non dipende né dai tempi né dalle scelte metodologiche: l’interpretazione della Bibbia per un cristiano parte dall’evento Gesù Cristo che diventa una chiave ermeneutica imprescindibile (Gv 5,39.46; 19,28-30). L’insegnamento di Gesù viene applicato dagli scrittori del NT allorché richiameranno personaggi e fatti dell’AT per offrirne la giusta interpretazione: è il caso di Rm 5,14 in cui Adamo è presentato come τύπος (figura, tipo), da comprendere alla luce nuova di Gesù Cristo, l’αντίτυπον (cfr. 1Co 10,6-11; 1Pt 3,21). Ma il cristianesimo non è debitore solo al mondo ebraico per la sua interpretazione della Bibbia. E’ necessario segnalare un altro evento culturale che influenzerà l’interpretazione della Scrittura per secoli e, più in generale, la teologia. Si tratta dell’incontro tra cristianesimo e cultura ellenica. Anche per i giudei tale incontro era avvenuto, benché radicati nella loro cultura e tradizione. Esempio di interpretazione giudaica in dialogo con la cultura greca si ebbe con Filone Alessandrino che, attraverso la lettura allegorica delle Scritture, cercò di renderle comprensibili ed accettabili alla cultura ellenistica. Fu proprio l’allegoria, a diventare la caratteristica dominante della scuola alessandrina a cui fecero capo alcuni dei più antichi scrittori e teologi cristiani. È il caso di Origene, che alla ricerca filologica tesa a fissare con precisione il testo delle Scritture e a definirne il senso letterale, faceva seguire la ricerca del senso nascosto, di quel senso che è possibile scoprire solo andando oltre la lettera. Si delineano così, fin dall’inizio, i due livelli che guideranno il lettore fino ad oggi: il significato letterale del testo ed il suo significato profondo, spirituale. L’uno e l’altro verranno più o meno sviluppati nelle diverse “scuole” e nei commentari degli scrittori antichi. La scuola di Alessandria, in particolare, sviluppò soprattutto il metodo allegorico-spirituale, mentre la scuola Antiochena fece più attenzione al livello storico-letterale. Tra i diversi contributi degli scrittori antichi, quello di Origene fu senza dubbio particolare: egli raccolse sistematicamente gli spunti esegetici già noti alla sua epoca (II sec. d.C.) per trasmetterli in un sistema ermeneutico (cfr. il trattato Sui Principi, Libro IV). I metodi di ricerca si affineranno nel Medioevo. La lettura spirituale verrà articolata in uno schema che, mantenendo il senso letterale (chiamato “storico”), prevede tre momenti distinti: l’allegoria per scoprire nel testo ciò che si riferisce a Cristo; la tropologia per attingere dal testo le regole che dovranno guidare la vita del credente; l’anagogia consistente nell’esplorare il testo per comprendere ciò che, al di là della lettera, si riferisce alle realtà escatologiche. Questo metodo sarà prevalente durante tutto il Medioevo. Da questo metodo si svilupperà la famosa Lectio Divina, diffusa soprattutto nei monasteri nei secoli VIII-XII. A questa lettura di tipo monastico si affianca, a partire dal XIII sec., la lectio scholastica ossia la lettura della Bibbia che avverrà nelle nascenti Universitates.
Il lettore odierno della Scrittura riconosce senza dubbio il grande patrimonio della tradizione giudaica e cristiana, in cui vede un tesoro ricchissimo di indicazioni e di esperienze a cui attingere. L’esegeta moderno, come il semplice credente, non può prescindere da esse senza compromettere la vera comprensione della Bibbia.
14- Esegesi ed interpretazione della Bibbia nel mondo moderno
A partire dal XVIII sec., e soprattutto nel XIX, lo sviluppo rapido delle scienze ha consentito di studiare i testi biblici con una strumentazione sempre più ampia e raffinata. Nasceva così l’epoca degli studi critici della Bibbia, utilizzando le acquisizioni scientifiche in campo storico e letterario ed applicandole ai testi biblici. Per interpretare i testi e percepirne più chiaramente il messaggio, l’esegeta aveva a disposizione non solo gli antichi commenti patristici: ora aveva altri strumenti che, partendo dallo studio della formazione dei testi, permetteva di capire la loro elaborazione e complessità. Ad esempio, se in tutta l’antichità i Vangeli erano considerati come il frutto dell’attività del singolo evangelista, con lo studio delle “forme letterarie” ossia catalogando i contenuti del singolo evangelo secondo il diverso genere letterario, si sono individuati i diversi contesti della vita delle prime comunità cristiane in cui questi racconti presero forma. Così, soprattutto a partire dagli inizi del XX sec., si metteva in luce il ruolo fondamentale della comunità primitiva con i suoi diversi contesti di vita: il kerygma, la catechesi, il culto, l’organizzazione ecclesiale. Uno degli studiosi che ha consacrato la sua attività allo studio delle forme e dei contesti in cui gli evangeli si formarono fu Rudolf Bultmann (1884-1976), le cui osservazioni circa il ruolo della comunità primitiva nel processo di composizione degli evangeli vennero presto controbilanciate da un’attenzione più marcata per il ruolo dell’evangelista che, secondo lo studio delle forme letterarie, finiva per essere più un raccoglitore che un vero e proprio autore. L’attenzione per la fase redazionale della composizione evangelica mise così in rilievo la prospettiva teologica del singolo evangelista, permettendo di coglierne più precisamente il messaggio. Importanti contributi vennero, sempre agli inizi del XX sec., dallo studio comparato delle religioni del Medio Oriente antico. Anche l’archeologia palestinese non tardò a far sentire la sua importanza. Le posizioni della critica “letteraria” vennero arricchite da una considerazione più attenta al processo di trasmissione orale del messaggio , così come sottolineato dalla scuola scandinava.  Questi approfondimenti contribuirono a suscitare uno scambio e una collaborazione di tipi ecumenico tra i ricercatori appartenenti alle diverse chiese. Naturalmente quest’approccio scientifico ha anche dei limiti. Esso si basa su ipotesi che deve essere motivata e sostenuta da riscontri verificabili. Deve affrontare le obiezioni e indicarne la soluzione. Ipotesi ben fondate, ma che restano tali. Su nessuna delle ipotesi portate per la ricostruzione della formazione dei testi biblici c’è consenso unanime, benché vi sia una convergenza della maggior parte degli studiosi intorno ad alcuni punti fondamentali. Ciò non è strano, non appartiene solo allo studio esegetico ma ad ogni tipo di lavoro scientifico. Il maggior difetto di ogni metodologia esegetica consiste nella eventuale pretesa di assolutezza: esse, in realtà, dovrebbero integrarsi a vicenda.
Concludendo questa lunga serie di articoli sulla Bibbia, possiamo dire che questo Libro può affascinare, può interessare per i suoi diversi generi letterari o perché è un grande codice per la comprensione della cultura occidentale. Tuttavia la sua destinazione naturale è la fede e la vita dei credenti, che scrutano la Scrittura sostenuti dallo Spirito, lo stesso che fu all’origine della sua composizione. La Bibbia, cioè, è un libro per la vita, illuminato dagli apporti delle scienze umane. 

martedì 9 ottobre 2012

I diritti umani, la questione del fondamento


I diritti umani, la questione del fondamento.

Premessa.
Volendo andare alla ricerca del prima, che tra l’altro non può essere scisso dal poi, rispetto alla Dichiarazione del 1948 si potrebbe arrivare a una riflessione paradossale: gli antecedenti della Dichiarazione sono rinvenibili nell’inizio stesso della storia dell’uomo, nel senso che il concetto stesso di uomo si lega all’indispensabile sussistenza di un nucleo di diritti indefettibili, reso via via manifesto, individuabile direttamente nell’esperienza storica. In tale ottica la nozione stessa di diritti fondamentali è connaturata all’uomo, per cui si potrebbe parlare di “diritti connaturati”, superando le antiche accezioni di diritti naturali e di diritti innati.
La posizione classica.
Prima di affrontare gli elementi che storicamente possono aiutare a fondare la connaturalità dei diritti in questione, nel senso che fa parte dell’essenza stessa dell’uomo la presenza di un nucleo indefettibile di diritti che si concretizza in un’ampiezza contenutistica e una valenza giuridica in relazione alle diverse esperienze storiche, occorre affrontare la problematica riguardo al fondamento dei diritti dell’uomo. A tal proposito, diverse furono le teorie: riassumendo, si può far riferimento alla differenza tra la visione classica, di tipo giusnaturalistico, basata su un fondamento assoluto, metastorico, dei diritti umani secondo cui ogni persona possiede diritti fondamentali e inalienabili, naturali e anteriori alla società stessa; e una prospettiva moderna, in base alla quale i diritti essenziali dell’uomo sono di volta in volta variabili, soggetti al flusso del divenire e traggono origine dalla società con riferimento ai movimenti della storia. Ma vi sono altre teorie fondative: ad esempio, alcuni pongono tale fondamento in una sorta di simmetria che implica la reciprocità tra diritto e obbligo, da cui discenderebbe sotto il profilo più propriamente filosofico la stessa universalità dei diritti fondamentali. Norberto Bobbio, invece, pone il fondamento dei diritti nella storia e nel consenso della moltitudine di popoli, asserendo che un tale fondamento assoluto non è né possibile né desiderabile. Bobbio fa riferimento a tre modalità:
-          il dedurli da un dato obiettivo costante, come la natura umana;
-          il considerarli come verità per se stesse evidenti;
-          lo scoprire che in un dato periodo storico sono generalmente acconsentiti, come viene provato in particolare dal consenso.
È proprio su quest’ultimo elemento insiste Bobbio, il quale ha evidenziato che il fondamento storico del consenso è l’unico che possa essere fattualmente provato e che la Dichiarazione universale dei diritti umani può essere accolta come la più grande prova storica, che mai sia stata data, del consensus omnium gentium, circa un determinato sistema di valori.
I precedenti nella storia del pensiero giuridico.
Il mondo greco-romano
Per la comprensione della genesi e del successivo sviluppo storico dei diritti umani è utile alla nostra trattazione premettere un breve exursus storico che, per ovvie ragioni, deve sorvolare sulla mole di materiale giuridico accumulatosi nel corso dei secoli pur senza trascurare i momenti salienti di tale sterminata produzione.  Le più antiche testimonianze di embrioni di diritti umani risiedono nei poemi epici di Omero: l’Iliade e l’Odissea. Già in questo contesto primordiale emerge una timida distinzione tra la themis e la dike. La prima nozione indica una decisione ispirata dagli dei, un comportamento moralmente doveroso anche se non conveniente, rispondente ad una sorta di coscienza sociale collettiva; il secondo termine può significare una legge terrena. Anche la tragedia dell’Antigone scritta da Sofocle intorno alla metà del V sec. a.C. è fondata sul dilemma tra l’adempimento o meno ad una norma scritta che cozza contro i valori morali diffusi nella collettività. In quest’opera Sofocle fa riferimento a leggi non scritte, inalterabili, fissate dagli dei, eterne e di origine soprannaturale. Da ciò derivò il principio del tirannicidio, principio rinvenibile nel XVII secolo, a cui si appellarono i padri costituenti americani e francesi per legittimare le loro rivoluzioni.
Quanto all’epoca romana, si può fare riferimento a Cicerone e ai suoi trattati De legibus e De Republica. Quasi anticipando le tematiche del giusnaturalismo medievale, Cicerone si richiama ad una vera legge, la retta ragione conforme alla natura, diffusa tra tutti, costante ed terna a cui non è lecito apportare modifiche né togliere alcunché né annullarla in blocco e che governerà tutti i popoli in ogni tempo. In Cicerone sono rinvenibili degli istituti giuridici, seppur a livello embrionale, particolarmente significativi a proposito di una concezione universale di certi diritti fondamentali dell’uomo, dai quali si deduce la loro spettanza a prescindere dalla cittadinanza o dall’appartenenza a particolari etnie e caste; si tratterebbero di diritti legati all’uomo in quanto tale e non dedotti giuridicamente da un’autorità statuale. A questa concezione di tali diritti si riferisce l’insieme dei doveri che il diritto romano prevedeva anche  ei confronti del nemico, le norme giuridiche comuni ai romani e agli stranieri e che tutti dovevano rispettare. Inoltre vi era lo ius gentium, ossia regole di diritto generalmente riconosciute nelle legislazioni dei diversi stati. Da ultimo, il diritto romano qualificava come “crimine” l’uccisione di ostaggi, la promozione arbitraria della guerra e tutte le iniziative volte a trascinare in guerra uno stato.
Il medioevo
In quest’epoca è possibile rinvenire, a dispetto del pregiudizio che giudicatale periodo oscuro, tracce di tutele giuridiche in senso moderno. Infatti una prima garanzia dei diritti fondamentali venne attuata giuridicamente a livello di diritto privato, fenomeno dovuto proprio alla frammentazione politica localistica tipica dell’epoca. Lo scontro, a volte aspro e cruento, tra autorità locali e soggetti di diritto favorì la nascita e l’acquisizione di diritti essenziali con conseguente protezione da parte dell’autorità. Questi diritti erano: diritto alla vita e alla integrità fisica, il diritto a non essere percosso ed ucciso, il diritto a non essere preso senza una causa legale, il diritto di scegliere il domicilio, di allontanarsi dalla dimora abituale senza difficoltà, il diritto a formare una famiglia, il diritto a non essere privato illegalmente delle cose legittimamente possedute. Tali diritti in un primo momento furono rutto di accordi tra l’autorità e particolari soggetti privati e gruppi, poi furono estesi a livello generale. Questo passaggio dal diritto privato al diritto pubblico segnò una tappa fondamentale nel riconoscimento e nella tutela dei diritti dell’uomo , ponendo le basi per le moderne dichiarazioni. A questo proposito è il riferimento alla Magna Charta del 1225, con cui Enrico III si rivolgeva al clero, ai nobili e a tutti gli uomini liberi del Regno, anche se di fatto solo i diritti dei nobili e del clero venivano effettivamente tutelati. In ogni caso si trattò di una dichiarazione di principio secondo la quale nessun uomo libero poteva essere arrestato, spogliato dei beni e della libertà, esiliato, senza giusta causa; il re si impegnava a far rispettare tali diritti. Su questa base, sempre in Inghilterra si avrà, secoli dopo, il Bill of rights sulla difesa dei diritti del Parlamento con contestuale limitazione dei diritti del Re (1689). Su questa scia vennero sanciti ulteriori diritti: libertà nelle elezioni, libertà di parola e di discussione, libertà di procedura in Parlamento, diritto di petizione dei cittadini al Re; l’Inghilterra si pose nell’agone internazionale come patria dei diritti.
Le Dichiarazioni americana e francese
Nel 1789 si giunse al modello normativo più significativo: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, approvata dall’Assemblea costituente francese. Con essa si ebbe una formulazione generale sui diritti che mai era stata raggiunta in precedenza, collocandosi così quale antesignana più diretta della Dichiarazione universale del 1948. Forti sono i legami della Dichiarazione francese con quella americana e ciò è significativo perché nel 1700 in due continenti diversi il costituzionalismo non ha potuto prescindere dalla centralità dei diritti dell’individuo, segno evidente di una maturazione ormai raggiunta nel pensiero umano. Nella Dichiarazione americana del 1776 vi sono tutta una serie di principi e diritti che sorprendono per la loro attualità: si richiamano i concetti di godimento della vita, di felicità, di sicurezza, di benessere in generale, del diritto di proprietà. Inserendo tali diritti direttamente nel testo costituzionale vi fu una precisa scelta di direzione della precettività, o in ogni caso della pregnanza giuridica, dei diritti enucleati.
Nuovi orientamenti.
Ritornando al cardine dell’interpretazione di Bobbio, indubbiamente il fatto del consenso ha un grande rilievo sotto il profilo sia politico sia giuridico. Ma sotto l’aspetto più propriamente filosofico il fondamento fattuale del consenso, di tipo evidentemente storico e come tale non assoluto, non esclude di per sé la riflessione intorno ad ulteriori fondamenti di ordine metastorico, potendosi ipotizzare una complementarietà tra fondamenti storico-fattuali e fondamenti assoluti, la ricerca dei quali però non deve comportare divisioni e incomprensioni di ordine teorico e con una ricaduta sotto il profilo giuridico. Né tanto meno può comportare un’attenuazione nella tensione verso una sempre maggiore efficacia nella difesa dei diritti enucleati. È noto che in linea astratta un fondamento giusnaturalistico ne teorizza una difesa assoluta, ritenendoli invalicabili. Invece, secondo un’impostazione giuspositivistica anche gli stessi diritti umani sono pur sempre di derivazione statuale e derivanti dalla autonoma volontà dello stato di autolimitarsi; per cui rimarrebbero pur sempre astrattamente disponibili; mentre sostanzialmente nella stessa logica si porrebbero le teorie contrattualistiche, che basano i diritti in questione sul “patto” fra le forze politiche e sociali definito con la Costituzione.
In realtà, occorre trascendere dai fondamenti rigidamente teorici e impegnarsi perché prosegua il processo di protezione giuridica. Infatti, in ambito costituzionale interno si è passati in modo pressoché diffuso, nelle carte fondamentali della seconda metà del ventesimo secolo, dalla tradizione francese, che riteneva sufficiente per la protezione dei diritti la separazione dei poteri, l’autonomia dell’ordine giudiziario e la partecipazione dei cittadini mediante l’elezione dei rappresentanti, a quella americana che privilegia un sistema costituzionale rigido, modificabile solo mediante procedure aggravate, volto a garantire i diritti dei cittadini dai rischi di un’eventuale  dispotismo della maggioranza parlamentare.  Ciò che più conta è il non arrestare il processo di universalizzazione dei diritti umani; un’universalizzazione complessa, da considerare sotto una molteplicità di aspetti: il consenso generalizzato, la dimensione planetaria dei destinatari, la tendenza contenutistica a ricomprendere tutti i diritti che possano essere ricondotti alla sfera essenziale della persona.
Al di là delle singole impostazioni teoretiche sul fondamento dei diritti umani, in realtà, l’universalizzazione di tali diritti rappresenta di per sé un “valore” e non può non rappresentarlo per tutti. Guardando agli ultimi secoli, infatti, si può constatare come l’universalismo dei diritti dell’uomo sia passato dalle opere dei filosofi, in particolare dal giusnaturalismo moderno, attraverso i primi riconoscimenti nei diritti positivi di singoli paesi (a cominciare dalle Dichiarazioni dei diritti degli stati americani e dalla Dichiarazione francese del 1789), fino all’attuale diritto positivo internazionale a tendenza universalistica, il cui punto di partenza è rappresentato proprio dalla Dichiarazione universale del 1948. In tal contesto possiamo azzardare che i tanto conclamati sviluppi della odierna globalizzazione siano stati anticipati da oltre mezzo secolo dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.  Alla base, difatti, della Dichiarazione vi è il convincimento diffuso che per la promozione e la salvaguardia dei diritti umani l’azione individuale e autonoma dei singoli stati non possa ritenersi bastevole, sia per la limitatezza degli strumenti cui si ancorano le isolate sovranità nazionali, sia a causa della dimensione raggiunta dagli interessi umani, che si caratterizzano sempre più per la tendenza a trascendere gli ambiti delle singole statualità.
Ha ragione, quindi, chi ha sostenuto che la Dichiarazione universale del 1948 è solo l’inizio di un lungo processo di cui non siamo in grado di vedere ancora l’attuazione finale, ma ciò che la Dichiarazione contiene in germe, e che può rappresentare la meta giuridico-filosofica dei diritti umani, potrebbe essere la ricostruzione dell’unità del genere umano. Anzi, proprio l’indispensabile dimensione planetaria dei diritti umani, le cui garanzie possono essere riconosciuti, pone l’esigenza pratica di accantonare le contrapposizioni ideologiche derivanti dall’appartenenza a scuole filosofiche diverse in vista di un sommo bene comune, ossia nell’unificazione dei diritti umani, nella loro enumerazione e nella loro organizzazione concreta. Tale prassi richiede una trasformazione di queste culture morali preesistenti, che debbono essere capaci di parlare all’uomo del nostro tempo.
Piuttosto, la questione nevralgica di fondo sembra spostarsi dall’iniziale contrapposizione della doppia fonte, se quella indicata dai giusnaturalismi nella natura umana, oppure quella dei giuspositivisti nella sovranità autonoma degli stati, alla più attuale contrapposizione tra la vigenza costituzionale dei diritti degli umani, in quanto riconosciuti dagli stati nelle loro carte fondamentali, e il valore supercostituzionale degli stessi, ossia preesistenti alla costituzione e pertanto assoluti. In quest’ottica tali diritti hanno una validità assoluta, vanno riconosciuti nelle singole Costituzioni e, una volta diventati pubblici mediante tale riconoscimento, assumono anche una portata meta-costituzionale, nel senso che sarebbero sottratti ai procedimenti di revisione costituzionale. Si tratta di una speciale forma di protezione sostanziale, i cui tratti sono rinvenibili nella stessa giurisprudenza della Corte costituzionale italiana[1].
Il post-modernismo.
Vi è una recente impostazione, in chiave politica, volta a rilanciare i principi tradizionali del liberalismo nell’ottica della tutela dei diritti umani. Infatti, secondo questa teoria, le idee-guida di una società pluralista e di un’economia di mercato competitiva, l’etica dell’individualità e della responsabilità personale, il relativismo etico, il principio di tolleranza, le pari opportunità e in genere i cardini del liberalismo sarebbero particolarmente idonei nelle società della modernizzazione post-industriale e della mondializzazione per garantire i diritti universali dell’individuo. In questo contesto l’etica dei diritti finisce per connotarsi come una sorta di etica minima comune, che può consentire il libero dispiegarsi delle diversità morali. Di fatto si constata storicamente che i sistemi politici di tipo liberal-democratico occidentale sembrano aver dimostrato una maggior rispondenza alle esigenze della tutela dei diritti umani.
Conclusioni.
Concludiamo questa breve dissertazione sul fondamento dei diritti dell’uomo con un pensiero del filosofo del diritto Italo Mancini: “i diritti dell’uomo rappresentano il portento dell’età moderna come il diritto naturale lo è stato per l’età classica; un portento che ha contribuito a creare quella civiltà del diritto, in cui si deve porre il contributo fondamentale per il costituirsi della cultura e del sentire comune dell’Occidente”. Proprio il diritto internazionale ha mostrato che attualmente diritti naturali, diritti umani e diritti positivisticamente protetti tendono a coincidere, unificando di fatto le contrapposte teorie del giusnaturalismo e del positivismo giuridico venendo così a rendere superflua la problematica del fondamento di tali diritti.


[1] Sentenze del 29 dicembre 1988 n. 1146 e 23 luglio 1991 n. 366.