domenica 11 dicembre 2011

La palestina ai tempi di Gesù

    Nella Palestina il contrasto tra ellenismo e la cultura giudaica si fece più virulento che in altre zone raggiunte dall’influsso greco. Questa terra, considerata dal popolo ebraico un dono di Dio e dunque santa, ponendosi al crocevia tra il Mediterraneo e l’Asia Minore è stata al centro degli interessi di vari regni e potenze quali l’Egitto, l’Assiria, Babilonia, la Persia, la Grecia, i regni ellenistici dei Seleucidi e dei Tolomei e, più tardi, di Roma. Ovviamente questo avvicendarsi di popoli produsse anche un certo sincretismo culturale e religioso. L’ormai scomparso regno del nord (Israele) passando sotto varie dominazioni (Assira, Persiana, Seleucide) perse le sue radici ebraiche e resistette ai cruenti tentativi di giudaizzazione da parte dei Maccabei. Nel regno del sud (Giuda), invece, i tentativi di ellenizzazione produssero una serie ininterrotta di guerriglie che si protrasse anche al tempo della dominazione romana.


1. La Diaspora ebraica e la nascita del giudaismo.


a) La politica delle comunità della diaspora.
    Il Nuovo Dizionario di Teologia Biblica fornisce questa definizione del periodo storico che prese il nome di giudaismo: “Gli storici designano col termine giudaismo la forma assunta dalla religione del popolo ebraico dopo la distruzione del primo tempio ad opera di Nabucodonosor nel 586 a.C. e l’esilio babilonese, mentre per il periodo anteriore si suole parlare di religione ebraica”[1]. Tra i due periodi storici vi è un rapporto di continuità ma anche di forte differenza. In seguito alla caduta di Gerusalemme si susseguirono tre deportazioni aventi carattere selettivo: solo la classe abbiente venne toccata dal provvedimento mentre i ceti più poveri rimasero nel paese desolato. La distruzione del Regno di Israele ad opera degli Assiri e del Regno di Giuda da parte dei Babilonesi diede origine al fenomeno comunemente chiamato diaspora, ossia la creazione di numerose e forti comunità giudaiche nelle regioni  dove le due potenze dell’epoca li avevano deportati. I libri profetici del Deutero-Isaia, di Daniele e di Ezechiele testimoniano questi eventi drammatici e la conseguente diffusione di centri ebraici nelle principali città assire e babilonesi. Anche quando Babilonia cadde sotto la dominazione persiana, il fenomeno della diaspora non cessò anzi si crearono contrasti fra gli ebrei rimasti in patria e quelli che ormai avevano assorbito la cultura dei paesi ove si erano stanziati. Gerusalemme, comunque, restò punto di riferimento e meta di pellegrinaggi isolati[2]. Tra i deportati e quelli rimasti in patria il divario era destinato ad acuirsi notevolmente perché gli esiliati ebbero modo di rileggere la loro storia alla luce di quanto accaduto. L’incontro con le altre popolazioni diede loro impulso per sviluppare una identità culturale e religiosa. La lontananza dalla madre patria e dal culto templare, interrotto dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera dei babilonesi di Nabucodonosor nel 586 a.C., fece nascere una fitta rete di sinagoghe. Questi erano centri religiosi deputati al culto e alla istruzione religiosa; di solito accanto ad esse sorgeva anche una scuola per l’educazione dei fanciulli. Grazie a questa istituzione, la religione ebraica poté continuare ad essere praticata anche nelle terre di esilio. Le comunità in esilio divennero centri di un risveglio religioso e profetico, risveglio che mancò, invece, nella patria devastata. Con il tempo gli esiliati si compresero come la parte migliore di Israele, in antagonismo con i restati in patria: “Ebbene, queste sono le parole del Signore al re che siede sul trono di Davide e a tutto il popolo che abita in questa città, ai vostri fratelli che non sono partiti con voi nella deportazione; dice il Signore degli eserciti: Ecco, io manderò contro di essi la spada, la fame e la peste e li renderò come i fichi guasti, che non si possono mangiare tanto sono cattivi. Li perseguiterò con la spada, la fame e la peste; li farò oggetto di orrore per tutti i regni della terra, oggetto di maledizione, di stupore, di scherno e di obbrobrio in tutte le nazioni nelle quali li ho dispersi, perché non hanno ascoltato le mie parole…” (Ger 29, 16-19). Anzi, l’esilio stesso venne considerato come una tappa fondamentale nell’alleanza con Dio, equiparandolo all’uscita dall’Egitto dell’epopea di Mosè, un nuovo esodo: “Pertanto ecco, verranno giorni – dice il Signore – durante i quali non si dirà più: Per la vita del Signore che ha fatto uscire gli Israeliti dal paese d’Egitto, ma si dirà piuttosto: Per la vita del Signore che ha fatto uscire e che ha ricondotto la discendenza della casa di Israele dalla terra del settentrione e da tutte le regioni dove li aveva dispersi; costoro dimoreranno nella propria terra” (Ger 23, 7-8).
    Gli ebrei rilessero la loro storia, dunque, e l’esilio venne visto come una punizione per l’infedeltà del popolo[3]. L’opera del Cronista, che sostanzialmente ricalca i due libri dei Re, è appunto una rilettura della storia di Israele illuminata dall’evento dell’esilio. Si cerca di capire perché, apparentemente, sarebbe venuta meno l’alleanza con Dio: la spiegazione è a causa del peccato del popolo (2Cr 36,15-21; cfr Is 43,24-28). Si fa strada, però, l’idea che Dio non può abbandonare il suo popolo per sempre. il Deutero-Isaia è l’unico a considerare l’esilio un periodo ideale di purificazione per il ritorno al vero Dio. I profeti prima dell’esilio avevano avvertito Israele dell’ira divina incombente; ora il giorno di Jhwh, il giorno dell’ira di Dio, non è più rivolto contro Israele ma contro i suoi oppressori (Cfr. Gioele 3-4). Questo mutamento nel significato teologico del giorno di Jhwh è importante per le conseguenze che avrà nell’epoca di Gesù e per il clima di attesa in un intervento divino che caratterizzerà fortemente quel periodo. “Durante l’esilio crebbe la fede in una rinascita e si approfondì la convinzione della diversità di Israele rispetto agli altri popoli”[4]. È in questo periodo che nasce l’idea del “resto di Israele” ossia la parte di popolo che si è purificata nell’esperienza dell’esilio.
    Perduto il tempio, ora tutto si incentra nell’osservanza della Legge. La scuola deuteronomica, sorta proprio in quest’epoca, propugna il ritorno all’alleanza tramite l’osservanza del Patto. Questo obiettivo viene raggiunto con tre discorsi interpretati direttamente  da Mosè: nasce il libro del Deuteronomio[5]. La scuola sacerdotale, anch’essa originatasi in questo periodo, calca l’accento invece sulla purezza e la santità. L’esilio è visto come il periodo di peregrinazione di Israele nel deserto, all’inizio della sua storia come popolo. Si forma il libro del Levitico il cui Codice di Santità rappresenta la parte dominante (Lev 17-26). Il Deutero-Isaia, teorico del monoteismo, rivendica l’unicità di Jwhw quale vero Dio a discapito dei falsi idoli dei popoli vicini: “Così dice il re di Israele, il suo redentore, il Signore degli eserciti: «Io sono il primo e io l’ultimo; fuori di me non vi sono dei» (Is 44,6; cfr Is 45,7-12). Con il Deutero-Isaia prende forma la categoria del servo di Jhwh, enigmatica figura individuale o collettiva, che la tradizione cristiana applicherà al Cristo. Si inizia anche a propagare un certo universalismo secondo cui Israele esiste perché deve far conoscere il vero Dio a tutti i popoli.
    Lentamente le varie comunità ebraiche accrebbero la loro importanza raggiungendo un notevole benessere sociale ed economico. L’essere inseriti in importanti contesti politici, come l’impero persiano, i regni ellenistici conseguenti alla caduta dell’impero fondato in poco tempo da Alessandro Magno, e, da ultimo, la potenza romana, favorì gli scambi commerciali ed accrebbe le opportunità di lavoro. Nel IV sec. a.C. Alessandro Magno conquistò l’impero persiano e l’Egitto. Per unificare le sue conquiste promosse la diffusione della cultura e della lingua greca, favorì i matrimoni misti e elevò a dignitari sia greci che persiani per rendere l’amministrazione più omogenea. Questo processo prese il nome di ellenizzazione e venne continuato anche dai successori di Alessandro, i diadochi. Quando i regni ellenistici sorti dalla dissoluzione dell’impero creato da Alessandro scomparvero, la cultura greca continuò ad esercitare la sua influenza sotto i nuovi dominatori: i romani. Sotto la loro dominazione, importanti città in tutto il Medio Oriente divennero centri di diffusione greca. L’ellenismo come fattore culturale si estese ad ogni settore della vita: dalle istituzioni alle leggi, dal commercio al’industria, perfino l’abbigliamento e la moda vennero contagiate. In quasi tutte le città sorgeva un ginnasio, per l’educazione dei fanciulli, una palestra ed un  teatro per le rappresentazioni  di autori greci.  In epoca ellenistica gli ebrei furono valenti mercenari e questo diede loro l’opportunità di divenire proprietari terrieri su base ereditaria. I mercenari, infatti, venivano ricompensati con appezzamenti di terreni che potevano essere lasciati in eredità ai discendenti.
    Le guerre con i romani diedero maggiore impulso alla diaspora ebraica, moltiplicando i loro centri in tutto il bacino mediterraneo. Si calcola che nella sola Roma vi fossero ben undici sinagoghe. Altre fiorenti comunità sorgevano ad Alessandria d’Egitto, ad Antiochia di Siria ed erano organizzate con propri senati e capi. Ad ampliare ulteriormente le comunità ebraiche vi era un forte senso missionario che le arricchiva di proseliti e timorati di Dio; questi ultimi non abbracciavano pienamente la religione ebraica per timore della circoncisione ma simpatizzavano con gli ebrei adottando i loro usi e costumi. Buone erano le relazioni con la Città Santa, Gerusalemme, a cui devolvevano la tassa annuale per il Tempio e da cui mutuavano il calendario liturgico; centro della loro religiosità, però, restava la sinagoga.
    Quando scoppiò la rivolta che portò alla distruzione di Gerusalemme e del Tempio nel 70 d.C., gli ebrei della diaspora non si schierarono contro i romani. Ormai erano pienamente inseriti nel tessuto sociale della potenza romana ed avevano accettato il modo di vivere dei dominatori: troppi erano gli interessi in gioco per rischiare di perderli coinvolgendosi in una guerra che poteva avere solo conseguenze disastrose. Questo atteggiamento volutamente neutrale è di fondamentale importanza per comprendere gli avvenimenti che portarono Paolo a frequentare il movimento di Gesù dapprima come persecutore e poi come principale artefice del suo sviluppo.
    Prima della rivolta del 66 d.C., gli ebrei godevano di particolari privilegi. I romani, infatti sapevano distinguere tra aspirazioni politiche degli ebrei e la loro richiesta di libertà religiosa. La Bibbia riporta un antico patto tra i romani e gli ebrei[6]. Interessante è la testimonianza offerta dalla lettera che l’imperatore Claudio invia alla città di Alessandria d’Egitto nel 41 a.C.:
“Comportatevi da parte vostra amichevolmente e pazientemente nei confronti dei giudei che si sono stabiliti da tanto tempo nella città, e non profanate nessuno dei riti che essi seguono per pregare i loro dei, ma permettete loro, come al tempo del divino Augusto, di mantenere le loro usanze, che io stesso, dopo aver udito le due parti, ho ugualmente sanzionato. E d’altra parte ordino espressamente ai giudei di non cercare altri privilegi oltre a quelli di cui già godono e di non portare o ammettere giudei che vengono dalla Siria o dall’Egitto… Se vi asterrete da queste cose e vorrete vivere in comprensione ed amicizia reciproca, intendo da parte mia mostrare una benevola sollecitudine verso la città allo stesso modo che ve la dimostrarono i miei predecessori” (papiro di Londra, 1912).
    Il brano sopra riportato evidenzia il ragguardevole grado di integrazione che le comunità della diaspora avevano raggiunto tanto da voler estendere i propri diritti. Queste comunità godevano di particolare autonomia religiosa ed erano dispensati dall’adorare statue; a Gerusalemme, tanto per fare un esempio della sensibilità romana verso questo popolo, non erano state poste le insegne imperiali romane per non urtare gli ebrei.
    All’inizio il fervore religioso degli ebrei si oppose alla minaccia rappresentata per la loro fede dal paganesimo greco, ma alla fine diversi aspetti della vita dei giudei ne risultarono profondamente influenzati. Uno studioso afferma: “I giudei furono attratti nella corrente di questa cultura ellenistica, lentamente e con riluttanza ma irresistibilmente… Dopo tutto, il piccolo territorio giudaico era circondato quasi da ogni parte da regioni ellenistiche, con le quali, per ragioni commerciali, i giudei erano costretti a restare in contatto continuo”[7].

b) La religiosità delle comunità della diaspora.
    L’esilio costituisce la fucina in cui vennero forgiate le idee che caratterizzeranno l’epoca successiva fino al periodo contemporaneo all’evento Cristo. Molte categorie teologiche furono pensate in questo lasso di tempo e in seguito riprese e ampliate dai movimenti e dai gruppi del tempo di Gesù. Durante l’esilio il profeta Ezechiele gettò le basi per la futura escatologia (Ez 38-39), ovvero il genere teologico che si occupa di investigare la salvezza futura creando un collegamento tra passato e futuro in un’ottica di salvezza[8]. L’escatologia dell’esilio non prevedeva la fine del mondo ma una nuova creazione, una palingenesi, ove anche la natura avrebbe partecipato alla rinascita: “In quel giorno non ci sarà né luce né freddo, né gelo: sarà un unico giorno, il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte; verso sera risplenderà la luce” (Zac 14, 6-7); “Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare, e farò di Gerusalemme una gioia, del suo popolo un gaudio” (Is 65, 17-18); “Si, come i nuovi cieli e la nuova terra, che io farò, dureranno per sempre davanti a me – oracolo del Signore – così dureranno la vostra discendenza e il vostro nome” (Is 66, 22).
    Il clima di attesa escatologica produsse e favorì il messianismo, l’idea che Dio interverrà tramite un suo rappresentante, di regola discendente del re Davide. I profeti Aggeo e Zaccaria indicano in Zorobabele il messia: “Il ventiquattro del mese questa parola del Signore fu rivolta una seconda volta ad Aggeo: «Parla a Zorobabele, governatore della Giudea, e digli: Scuoterò il cielo e la terra… In quel giorno – oracolo del Signore degli eserciti – io ti prenderò, Zorobabele figlio di Sealtiel mio servo, dice il Signore, e ti porrò come un sigillo, perché io ti ho eletto, dice il Signore degli eserciti» (Ag 2,21.23). Zaccaria suddivide l’azione del messia in due parti, una politica e l’altra religiosa, indicando quale messia politico Zorobabele e quale messia religioso il sommo sacerdote Giosuè: “Ascolta dunque, Giosuè sommo sacerdote, tu e i tuoi compagni che siedono davanti a te, poiché essi servono da presagio: Ecco, io manderò il mio servo Germoglio” (Zac 3,8; cfr. 6, 9-15). Questa suddivisione sarà fatta propria anche dagli Esseni. Curiosa connotazione delle due correnti dell’escatologismo e del messianismo è la sostanziale incapacità dell’uomo a cambiare se stesso per cui sarà Dio in persona ad operare il rinnovamento mutando radicalmente il creato tramite una sua azione diretta. Da queste due correnti deriverà l’apocalittica e l’antitesi dei due Eoni dove l’eone buono soppianterà quello attuale e malvagio. Nonostante le promesse profetiche le situazioni rimasero le stesse per questo le speranze profetiche furono riviste in chiave di comprensione del termine ultimo della storia.
    Il decreto di Ciro che consentiva agli esiliati di ritornare in patria costituì l’adempimento delle promesse di restaurazione. Gli ebrei compresero l’evento come il segno del perdono di Dio e l’inizio del suo favore. Con rinnovato vigore, i rimpatriati presero a costruire la città santa e a gettare le basi per il nuovo assetto religioso. La fedeltà alla Legge è posta al centro della nuova religiosità moltiplicandone i precetti fino a pervadere ogni aspetto della vita quotidiana. Purtroppo la stretta osservanza della Legge comportò l’indebolimento dello spirito profetico. “Si avviò così l’affermazione dei dottori della legge, dei giuristi e rabbini, i quali acquistarono sempre più credito” recita il Nuovo Dizionario di Teologia Biblica[9]. Si giunse alla formulazione di ben 365 proibizioni e 245 prescrizioni; la trasgressione ad un solo precetto comportava l’infrazione di tutta la legge[10]. In quest’epoca vedono la luce opere come il Talmud, la Mishnà, il Targum, commentari alla legge e sue esplicitazioni. Fu anche composto il canone delle Sacre Scritture. Si cercava, insomma, di “trovare i mezzi che portassero il popolo a una vita quotidiana aderente il più possibile alla volontà divina”[11].
    Il ritorno in patria non mise fine alla diaspora. Le comunità sparse in tutto l’impero romano non furono solo centri di benessere economico o di rivendicazione politica per i propri diritti, furono anche fiorenti centri di produzione religiosa. Essi crearono le sinagoghe, come abbiamo visto, per rispondere ai  propri bisogni spirituali anche se lontani dalla madre patria. Gli ebrei sparsi in tutto il Mediterraneo mantenevano rapporti con Gerusalemme, molti di loro salivano alla Città Santa in occasione delle festività annuali. Poco per volta, però, si perse la familiarità con la lingua aramaica. Molti ebrei che vivevano a Gerusalemme parlavano il greco; lo testimonia un passo del libro degli Atti dose si parla di uomini della sinagoga dei Liberti e dei cirenei, degli alessandrini e della Cilicia che sicuramente parlavano greco[12]. In Egitto, ad esempio, sorse la necessità di creare una Sacra Scrittura che rispondesse alle esigenze di quegli ebrei che ormai non parlavano più l’aramaico, la lingua degli ebrei di Palestina e lingua ufficiale della religione ebraica. Fu così che nacque il bisogno di una traduzione in lingua greca, la lingua della diaspora. Gerusalemme inviò settantadue esperti che tradussero la Scrittura in greco: era nata la versione detta dei LXX, che divenne il testo ufficiale in lingua greca. La lettera di Aristea a Filocrate testimonia, anche se in modo leggendario, questo notevole avvenimento. La LXX, però, riguardava solo il Pentateuco ossia i cinque libri della Legge attribuiti a Mosè. In seguito si rese necessario tradurre anche gli altri libri dell’Antico Testamento.
    Verso il III sec. a.C. gli ebrei avevano tradotto in greco molte delle loro opere letterarie e componevano direttamente in questa lingua i loro scritti. Questo contribuì a far conoscere la religione e la storia del popolo di Israele ai non ebrei. Secondo alcuni storici, in questo periodo molti non ebrei “aderivano più o meno strettamente alle comunità giudaiche, partecipavano alla liturgia giudaica e osservavano, in modo più o meno completo, i precetti giudaici”[13]. Alcuni pagani abbracciarono il giudaismo, accettarono la circoncisione e divennero proseliti. Altri, la maggioranza, aderirono a certi aspetti del giudaismo ma non si convertirono. Nella letteratura greca spesso vengono definiti timorati di Dio.      
    Sotto i Seleucidi di Siria si verificò una forte persecuzione contro gli ebrei quando re Antioco cercò di imporre la cultura ellenica in Palestina. Questa nuova minaccia per Israele coagulò forze già presenti ma non ancora organizzate: “Una minoranza si adattò alla nuova misura e rinnegò la propria fede… Altri opposero una resistenza passiva… Una terza reazione è quella di coloro che scelsero la sfida armata”[14].
    Il gruppo che scelse di opporre una resistenza passiva prese il nome di hasîdîm, i pii ossia gli asidei. Essi preferivano morire piuttosto che rinnegare la legge (1Mac 2,34-38). Molti asidei vennero martirizzati (2Mac 7; 6,14; 1Mac 2,42; 7,13-14). I due libri dei Maccabei raccontano questo tragico periodo della storia di Israele. La sorte riservata a tanti asidei che preferirono il martirio provocò la reazione armata di altri: “Poi dissero tra di loro: «Se faremo tutti come hanno fatto i nostri fratelli e non combatteremo contro i pagani per la nostra vita e per le nostre leggi, ci faranno sparire in breve dalla terra». Presero in quel giorno questa decisione: «Noi combatteremo contro chiunque venga a darci battaglia in giorno di sabato e non moriremo tutti come sono morti i nostri fratelli nei nascondigli» (1Mac 2,40-41). Iniziò così la rivolta maccabaica guidata da Mattatia di Modin e i suoi figli; anche molti asidei si unirono ai rivoltosi: “In quel tempo si unì con loro un gruppo degli Asidei, i forti d’Israele, e quanto volevano mettersi a disposizione della legge” (1Mac 2,42).
    In questo periodo si sviluppano vari movimenti e gruppi religiosi che, pur facendo capo alla liturgia templare e aderendo alla Legge Mosaica, si differenziavano per le loro visioni politiche e religiose in risposta alla ellenizzazione del loro paese. Continua ad informarci il Nuovo Dizionario di Teologia Biblica: “Intorno all’epoca dei Maccabei incominciamo a conoscere le fisionomie di correnti religioso-politiche organizzate che comunemente denominiamo sette”[15]. Tali movimenti entrarono in misura diversa l’uno dall’altro nel mondo biblico cristiano: basti pensare alle polemiche evangeliche con i farisei, i sadducei e gli erodiani, tanto per citare alcuni esempi. Questi movimenti si caratterizzavano per un’osservanza stretta della Legge come volevano i farisei, i cosiddetti pii, oppure per una commistione con il potere romano come facevano i sadducei e gli erodiani. Altri preferivano vivere la loro fede separati dal resto del mondo, come per gli esseni, o preconizzavano un ideale ritorno alla fede davidica come cercavano di imporre con le armi gli zeloti. Altri ancora erano bollati come eretici e pertanto esclusi dalla salvezza eterna, come i samaritani del monte Garazim. Gruppo a parte erano i cosiddetti emerobattisti, così chiamati perché praticavano abluzioni mattutine, facenti capo a Giovanni Battista; movimento popolare, molti discepoli confluirono nella comunità cristiana di stampo giudaico mentre altri finirono per eclissarsi in vari gruppuscoli, disperdendosi in oriente e sopravvivendo tra i Mandei degli attuali Iran e Iraq.
    Di tutti questi movimenti e gruppi due meritano di essere analizzati più da vicino, cosa che verrà fatta nella terza parte della trattazione, e precisamente il gruppo degli esseni di Qumran e gli zeloti. Vedremo come questi due gruppi, apparentemente in antitesi, nascondano in realtà sorprendenti punti di contatto tanto da portare a ipotesi estreme.
    In questa sezione, invece, una sommaria presentazione di questi gruppi sarà utile per una migliore comprensione dei fermenti dell’epoca di Gesù.

c) I Farisei.
    Di provenienza asidea, “all’inizio erano un gruppo minoritario, ma poco alla volta estesero il loro influsso su tutta la religione sia in Palestina sia nella diaspora”[16]; subirono violenti attacchi sotto i Seleucidi. Il loro nome deriva dalla radice perušim ossia separati. Il movimento fu iniziato da alcuni sacerdoti ma poi finì per aprirsi al ceto medio, coinvolgendo artigiani, commercianti, impiegati e ufficiali. Nel I secolo, secondo Giuseppe Flavio, erano circa seimila. Di loro egli scrive: “Delle altre due sette prima nominate una è quella dei farisei; essi godono fama di interpretare esattamente le leggi, costituiscono la setta più importante, e attribuiscono ogni cosa al destino e a Dio; ritengono che l’agire morale dipende in larga parte dagli uomini, ma che in ogni cosa ha parte anche il destino; che l’anima è immortale, ma soltanto quella dei buoni passa in un altro corpo, mentre quelle dei malvagi sono punite con un castigo senza fine”[17]. 
    Stretti osservanti delle prescrizioni della Legge, il Nuovo Testamento ha di essi una immagine preconcetta e offre una testimonianza tendenziosa. Infatti “studi moderni hanno in larga misura riabilitato i farisei”[18]. Il loro eccessivo legalismo era dettato da un profondo amore per la Legge e l’alleanza che essa significava, “perciò la casuistica divenne un elemento essenziale del loro insegnamento e, nello sforzo di precisare le norme della legge, sono a volte condotti al di là del testo”[19]. Questo eccessivo zelo per la tradizione dei padri è da ricercarsi nel loro tentativo di risposta al sincretismo religioso operato dagli ambienti ellenisti e dalla riforma religiosa di Antioco Epifane. La Legge di Mosè era da prendersi alla lettera anche se andava adattata al contesto attuale; per questo formuleranno tutta una minuziosa tradizione tanto che la lettera divenne più importante dello spirito, come ebbe a sottolineare lo stesso Gesù nelle sue invettive contro questo gruppo.
    I farisei credevano nella risurrezione, in un mondo angelico che fungesse da mediatore tra Dio e l’uomo, credevano negli spiriti cattivi. Osservavano il sabato, rispettavano all’eccesso la legge di purità riguardo a cibi e contatti con persone e pagavano scrupolosamente la decima di ogni cosa posseduta. Praticavano il digiuno e compivano opere di misericordia. Si riunivano in confraternite chiamate chaburot dove consumavano insieme i pasti. Erano molto stimati dal popolo anche se questi disprezzavano la gente che aveva scarsa conoscenza della Legge[20].

d) I Sadducei.
    Si ritenevano discendenti del sommo sacerdote Sadoc dell’epoca di Salomone[21]. Era un gruppo estremamente conservatore, refrattario ad ogni possibile innovazione, di derivazione aristocratica. Essi ebbero un ruolo fondamentale nella ricostruzione del post esilio provvedendo anche al culto templare. Molti di essi erano proprietari terrieri e ricevevano le decime dal popolo. Avevano molti interessi da difendere per cui scesero sempre a compromessi con il potere politico, dei Seleucidi prima e dei romani dopo. Fu per questo che un gruppo di sacerdoti sadociti si staccò dal resto del movimento e si ritirò nel deserto intorno a Qumran dando origine alla comunità essena, con a capo il cosiddetto Maestro di Giustizia. I sadducei propendevano per una interpretazione letterale della Legge, erano assertori della libertà umana rifiutando qualunque idea di destino. Non credevano nell’anima o nella retribuzione e accettavano solo le leggi scritte. Rifiutavano la tradizione orale, opponendosi in questo ai farisei. “Nel I secolo dell’era cristiana i sadducei avevano un grande potere a Gerusalemme grazie al tempio e alla persona del sommo sacerdote, capo della nazione e presidente del sinedrio, ove godevano di grande ascendente”[22].
    Giuseppe Flavio parla di questo gruppo in occasione di una disputa con i farisei al tempo di Giovanni Ircano (134-104 a.C.) sulla legittimità che il re assumesse anche la carica di sommo sacerdote: i farisei erano contrari mentre i sadducei non avevano nulla da obiettare. Di loro dice lo storico ebreo: “I sadducei, invece, che compongono l’altra setta, negano completamente il destino ed escludono che Dio possa fare qualcosa di male o solo volerlo; affermano che è in potere degli uomini la scelta tra il bene e il male, e che secondo il suo volere ciascuno si dirige verso l’uno o l’altro. Negano la sopravvivenza dell’anima, nonché le pene dell’Ade e i premi. I farisei sono legati da scambievole amore e perseguono la concordia entro la comunità; i sadducei sono invece, anche tra loro, aspri e nei rapporti con i loro simili sono rudi al pari che con gli altri”[23]. 
    Si opposero al movimento di Gesù perché ravvisavano in esso un pericolo per la loro posizione privilegiata[24]. Stessa opposizione riservarono agli zeloti e a qualunque movimento o ideologia potesse turbare lo status quo che essi avevano raggiunto. Scomparvero dopo il 70 d.C.
  Concludendo questa breve dissertazione  sulla diaspora ebraica abbiamo abbastanza elementi per ritenere che essa poteva adeguatamente rispondere alle esigenze formative di una mente brillante come quella dell’apostolo Paolo. Gran parte del pensiero paolino è debitore al grande fermento culturale proprio di questo periodo della storia ebraica.


[1] Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit., pag. 681.
[2] Cfr. Ger 41,4ss.: “Il secondo giorno dopo l’uccisione di Godolia, quando nessuno sapeva la cosa, vennero uomini da Sichem, da Silo e da Samaria: ottanta uomini con la barba rasa, le vesti stracciate e con incisioni sul corpo. Essi avevano nelle mani offerte e incenso da portare nel tempio del Signore…”.
[3] Cfr. Gdt 5,18-19: “Quando invece si allontanarono dagli ordinamenti che egli aveva loro imposti, furono terribilmente sconfitti in molte guerre e condotti prigionieri in paese straniero, il tempio del loro Dio fu raso al suolo e le loro città caddero in potere dei loro nemici. Ora appunto, riconciliati con il loro Dio, hanno fatto ritorno dai luoghi dove erano stati dispersi, hanno ripreso possesso di Gerusalemme, dove è il loro santuario, e si sono stabiliti sulle montagne, che prima erano deserte”.
[4] Op. cit. pag. 685.
[5] Deut 4,40: “Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sii felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore tuo Dio ti dà per sempre”.
[6] Cfr. 1Macc. 8,17-32.
[7] E. Schürer, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, ed. Paideia, Brescia 1987, vol. II, p. 82.
[8] Cfr. Is 43,18-19: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa”.
[9] Op. cit. pag. 693.
[10] Questa verità riecheggia nell’affermazione di Paolo in
[11] Op. cit. pag. 696.
[12] Cfr. At 6,1.9.
[13] E. Schürer, op. cit., vol. III, p. 225.
[14] Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit., pag. 698.
[15] Op. cit. pag. 698.
[16] Op. cit., pag. 699.
[17] Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, II, 118-119, 162-166.
[18] Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit., pag. 699.
[19] Op. cit., pag. 699.
[20] Cfr. Gv 7,49.
[21] Cfr. 1Re 2,35.
[22] Op. cit., pag. 700.
[23] Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, II, 118-119, 162-166.
[24] Cfr. Gv 11,48: “Se lo lasciamo [Gesù] fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione”.

Paolo l’eretico e Giacomo il capo del fronte antipaolino.


    Ci proponiamo di mettere in luce, partendo proprio dal dato biblico ma senza escludere l’apporto di elementi desunti dalla tradizione patristica ed extratestamentaria, i contrasti tra due leader della primitiva comunità cristiana, o dei seguaci di Gesù: Paolo e Giacomo. Il primo si è sentito capo indiscusso delle comunità da lui fondate, tanto da voler assicurare la sua presenza se non di persona almeno per epistola, inviando le lettere che entreranno a far parte del canone biblico grazie alla scuola teologica che promanerà dal suo insegnamento. Il secondo, Giacomo il Giusto, altrettanto leader della comunità cristiana di stampo giudaica al pari di Pietro, prese la direzione della comunità di Gerusalemme fino a arrivare ad essere lui il capo indiscusso della chiesa di quella città. Il fatto di presiedere il primo concilio della comunità[1] depone a favore di questo spostamento dell’asse di leadership.
    Ora, nello scorrere senza pregiudizi il Nuovo Testamento, in particolare le lettere paoline, gli Atti e la lettera di Giacomo, notiamo come tracce di questo conflitto che infiammò la comunità dei discepoli siano ravvisabili nel seppur blando tentativo di celare e censurare questo scontro. Anche la tradizione patristica ci viene in soccorso nell’avvalorare il sospetto, benché sia ben più di questo, che tra Paolo e Giacomo ci sia stata una profonda lotta dottrinale sull’assetto che la nascente comunità doveva assumere per il futuro. Questa, da circolo palestinese, lentamente stava assurgendo a movimento internazionale diffondendosi nel bacino mediterraneo. Dunque sorgeva il problema dei convertiti non giudei e sulle modalità del loro ingresso nella nuova comunità.
    Tale questione suscitava non poche difficoltà e dubbi risolti in modo diverso dalle due componenti del movimento dei discepoli di Gesù: i giudeo cristiani e i cristiani provenienti dal paganesimo e dal mondo giudaico ellenistico. Le due differenti visioni di cristianesimo si affrontarono a suon di dispute teologiche e diedero origine ad aspri conflitti. È proprio con Paolo che il chiarimento dottrinale assurge ad importanza estrema tale da giustificare atteggiamenti chiaramente ostili verso chi appoggia posizioni opposte. Si può dire che nel cristianesimo nasce l’intolleranza, cosa del tutto estranea al pensiero del Maestro e assente dai suoi insegnamenti.
    Ci riproponiamo, dunque, di ripercorrere questi conflitti e di conoscere meglio il clima arroventato di quel periodo.

1. Giacomo il Giusto.


    Ma chi è dunque Giacomo, capo del fronte antipaolino? Nel Nuovo Testamento sono almeno quattro i personaggi che recano questo nome:
-          Giacomo il Minore ossia il figlio di Alfeo e ricordato solo nelle liste degli apostoli (Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13);
-          Giacomo il Maggiore, figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni, entrambi chiamati a divenire apostoli (Mt 10,2; Mc 1,19; 3,17; Lc 6,14; At 1,13). Questi  verrà decapitato da Erode nel 44 d.C. (At 12,2);
-          Giacomo padre dell’apostolo Giuda, distinto da Giuda Iscariota, (Lc 6,16; At 1,13);
-          Giacomo il fratello del Signore, citato diverse volte nel NT (Mt 13,55; At 12,17; 1Cor 15,7; Gal 1,19.
    La tradizione ha da sempre identificato Giacomo fratello del Signore con Giacomo di Alfeo; in tal modo il fratello del Signore sarebbe anche un apostolo. Ora però una tale identificazione è arbitraria in quanto nel Nuovo Testamento il gruppo degli apostoli viene sempre distinto dal gruppo dei fratelli di Gesù[2]. Comunque, in considerazione della scarsa importanza rivestita da Giacomo di Alfeo resta da considerare solamente Giacomo fratello del Signore e detto Giusto, il primo vescovo di Gerusalemme, assassinato nel 62 d.C. Interessante è la citazione di una nota della Bibbia di Gerusalemme a commento di At 12,17: “Giacomo senza altra determinazione designa il «fratello del Signore». Dal tempo della visita di Paolo a Gerusalemme, Giacomo è alla testa del gruppo «ebraico» dei cristiani di Gerusalemme. Governerà la chiesa madre dopo la partenza di Pietro (vedere At 15,13; 21,18; 1Cor 15,7)”[3].
    Costui esercitò nella comunità primitiva un ruolo fondamentale, adombrando lo stesso Pietro, quale capo indiscusso del gruppo giudeo-cristiano (At 12,17; Gal 1,19). Ebbe un’apparizione di Cristo risorto (1Cor 15,6); con Pietro e Giovanni viene definito colonna della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,9). Giacomo, in conclusione, appare ben radicato nel giudaismo con uno spiccato senso pratico, teso a risolvere i problemi concreti più che preoccuparsi di questioni dottrinali. Il modo in cui ha affrontato i contrasti emersi dal concilio di Gerusalemme evidenziano questo suo aspetto. È molto probabile che sia lui l’autore della Lettera che nel canone biblico porta il suo nome. La lettera potrebbe essere il primo scritto del Nuovo Testamento, ancora più antica della prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi, la quale è databile intorno al 52 d.C.; infatti gli studiosi ritengono la Lettera di Giacomo composta intorno al 50. La mancanza di accenni alla conversione dei pagani e alla missione di Paolo, di cui peraltro non si fa parola, tensioni nella comunità, una cristologia timidamente abbozzata, farebbero propendere per una datazione antica. Inoltre un brano di questa lettera si ritroverebbe in un testo di Qumran del 50[4] (Gc 1,23-24 in 7Q8). Per di più, Giacomo non sembra conoscere l’esistenza di un Corpus paolinum. Il luogo in cui la lettera è stata composta è Gerusalemme.
    Riprendendo il racconto riguardo l’aggressione subita da Giacomo nel racconto delle Pseudoclementine, lo storico cristiano Egesippo narra di un’analoga aggressione da parte di Paolo nei confronti del capo della chiesa gerosolimitana, attacco che comportò la frattura di una o di entrambe le gambe del fratello del Signore. Anche Girolamo riferisce l’episodio. Queste fonti extrabibliche informano anche sul fatto che Giacomo venne condotto a Gerico dai suoi discepoli. Viene indicato il numero di questi discepoli: cinquemila. Ora stando agli Atti degli Apostoli, questo è il numero dei convertiti dalla predicazione di Pietro (At 4,4). Lo stesso numero è usato da Giuseppe Flavio per indicare gli esseni. Volendo fare un collegamento, sembrerebbe che Giacomo fosse il capo degli esseni e, dopo la sua aggressione, sia stato spostato a Gerico. Caso strano, quando Paolo deve recarsi a Damasco passa per quella città. Il collegamento tra esseni e i discepoli di Giacomo, ossia i cristiani di lingua aramaica, è tutt’altro che fantasioso: una testimonianza incontrovertibile lo dimostrerebbe al di là di ogni ragionevole dubbio. Le Pseudoclementine affermavano che Giacomo si fosse ritirato in un luogo ove sorgevano le tombe di due fratelli che “si imbiancavano per virtù propria”. Di questo luogo ne parlano anche i documenti di Qumran. Scavi archeologici riportarono alla luce, in due tempi, nel sito di Qumran una tomba delle stesse caratteristiche descritte dalle Pseudoclementine. Fino ad allora non vi erano prove dell’attendibilità di questo racconto. 
    Secondo le testimonianze di Eusebio, Epifanio e Girolamo, Giacomo avrebbe rivestito nel giudaismo un ruolo molto più marcato di quello che gli conferiscono gli Atti degli Apostoli. Egli viene descritto come una sorta di immagine speculare del sommo sacerdote, il quale era colpevole di connivenze con il potere romano. In base a questi racconti Giacomo celebra nel Tempio di Gerusalemme, addirittura ha accesso al Santissimo nel giorno dello Jom Kippur, indossando la veste del sommo sacerdote. Un particolare sembrerebbe dar credito al racconto tramandato dai tre scrittori cristiani e cioè che Giacomo non portava calzature. Questa era la prassi dei sacerdoti riguardo al loro servizio nel tempio, in ossequio al fatto di calpestare suolo sacro. Anche Giuseppe Flavio riporta questo racconto relativo a Giacomo[5]. Lo studioso Eisenman riguardo a questo curioso particolare della vita di Giacomo, afferma: “Le caratteristiche della personalità e del comportamento di Giacomo, tramandateci da Eusebio e confermate da Epifanio e Girolamo, sono essenzialmente simili a quelle che Giuseppe Flavio attribuisce agli esseni, con in più elementi che si riallacciano alla descrizione dei figli di Zadok riportata in Ezechiele, dall’indossare vesti di lino e mai di lana all’evitare che il capo sia toccato dal rasoio e infine al divieto di bere vino” (cfr. Ez 44,17.21)[6]. Il collegamento tra Giacomo e gli esseni appare, ad ogni modo, rafforzato.
     Dunque questi testi sembrano essere più veritieri di quanto ritenuto in passato aprendo così nuovi scenari di comprensione della primitiva comunità cristiana.

2. Gli avversari di Paolo.


    Gli Atti presentano un quadro idilliaco della primitiva comunità, falsando l’immagine che invece si ricava nel confronto con le lettere paoline. Riportiamo una citazione di uno studioso di Paolo: “Ma se l’autore degli Atti vuole essere ad ogni costo irenico, il panorama messo in luce dalle lettere paoline appare invece contrassegnato da contrasti, rivalità, contestazioni, polemiche, scontri senza esclusione di colpi. In concreto sul campo di battaglia si fronteggiano missionari cristiani di opposto orientamento. Fu una lotta combattuta in seno al vivace e molteplice movimento di propaganda cristiana”[7].
    Già da queste poche battute abbiamo un’idea di come il clima polemico fosse particolarmente infuocato. Con le sue lettere Paolo tenta una difesa di se stesso dapprima timidamente, come ad aver timore di chiarire il suo ruolo, poi si nota un crescendo nel suo tono apologetico e provocatorio. Basta confrontare alcuni passi per rendersi conto di ciò:
1Co 9,1-3: “Non sono forse libero, io. Non sono un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? Anche se per altri non sono apostolo, per voi almeno lo sono; voi siete il sigillo del mio apostolato nel Signore. questa è la mia difesa contro quelli che mi accusano”.
Rm 16,17-20 “Mi raccomando poi, fratelli, di ben guardarvi da coloro che provocano divisioni e ostacoli contro la dottrina che avete appreso: tenetevi lontani da loro. Costoro, infatti, non servono Cristo nostro Signore,ma il proprio ventre e con un parlare solenne e lusinghiero ingannano il cuore dei semplici. La fama della vostra obbedienza è giunta dovunque; mentre quindi mi rallegro di voi, voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male. Il Dio della pace stritolerà ben presto satana sotto i vostri piedi”.
    In passato si era soliti attribuire ad emissari giudei l’ostilità verso Paolo, emissari chiaramente non cristiani e non appartenenti alla neonata comunità dei discepoli di Cristo. In seguito a studi più approfonditi, successivamente si optò per identificare questi avversari dell’apostolo nel gruppo di farisei convertitisi al cristianesimo ma ancora legati alla tradizione giudaica e alla Legge Mosaica. La scuola di Tubinga individuava in Pietro, quale leader dei giudeo-cristiani, il capo del fronte antipaolino. In un secondo tempo si ipotizzò un quadro più variegato composto oltre che dai giudeo-cristiani anche dagli gnostici. Tale orientamento, però, non convinse la maggioranza degli studiosi.  In tempi più recenti, grazie anche ai contributi apportati dallo studio della patrologia e dei testi extrabiblici, si identificò questi oppositori per quello che erano vale a dire giudei convertiti al cristianesimo e discepoli della chiesa di Gerusalemme facente capo a Giacomo il Giusto, il fratello del Signore. Questi discepoli confluiranno nel gruppo degli Ebioniti, da ebion ossia poveri, proprio i discepoli di Giacomo che vengono designati con tale termine anche nelle tradizioni patristiche.  In altre parole, gli antagonisti di Paolo possono essere, a detta di molti studiosi, degli emissari di Giacomo.
    Analizzando l’epistolario paolino si nota subito che gli avversari di Paolo sono piuttosto difformi: quelli di Corinto presentano connotazioni diverse rispetto a quelli di Filippi e della Galazia i quali si differenziano tra loro. Tratto comune, però, è che tutti negano la sua autorità di apostolo non facendo egli parte del gruppo dei Dodici e contestano il suo rifiuto della Legge e della circoncisione. Questa unità di accuse fa propendere  l’identificazione di tali avversari nei giudeo-cristiani. Altro indizio testimonierebbe a favore della candidatura di Giacomo quale rappresentante del partito antipaolino è fornito da 1Cor 1,11-12 ove questi contendenti si riconoscono con Pietro e Giacomo (tralasciando Apollo non meglio identificato), proprio i due esponenti di spicco della chiesa di Gerusalemme e dei giudeo-cristiani. Il brano citato riferisce: “Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «E io di Cefa», «E io di Cristo!». Vi era anche chi si vantava di un rapporto speciale con il Signore e chi poteva farlo se non chi aveva con il Signore un legame di sangue: Giacomo?
    Questi oppositori di Paolo ostentavano, al pari dell’apostolo, una solida discendenza israelitica quali figli di Abramo: “Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io!” (2Co 11,22). Essi si definivano servitori del Signore, dunque appartengono al movimento di Gesù: “Sono ministri del Signore? Sto per dire una pazzia: io lo sono più di loro” (2Co 11,23a). Arrivavano anche a definirsi apostoli, ponendosi sullo stesso piano di Paolo: “Questi tali sono falsi apostoli, operai fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo” (2Co 11,13). Essi però, contrariamente a Paolo, continuano a conferire valore alla Legge Mosaica[8]. Inoltre, a differenza di Paolo che si autoreferenziava e agiva autonomamente, questi discepoli potevano mostrare referenze da parte di accreditate comunità: “Cominciamo forse di nuovo a raccomandare noi stessi? O forse abbiamo bisogno, come altri, di lettere di raccomandazione per voi o da parte vostra?” (2Co 3,1). Tra le altre cose, questi discepoli rinfacciavano a Paolo di non possedere il carisma dei miracoli, ritenuto il segno distintivo  dei veri discepoli del Signore, stando alle parole di Gesù rivolte ai Dodici[9]: “Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fui rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare” (2Co 12,1-4). Al loro confronto Paolo non può mostrare nessun carisma se non la sola vocazione di Damasco.
    Contrariamente a questi discepoli, Paolo non poteva vantare un curriculum immacolato. Egli infatti aveva un passato da persecutore della comunità cristiana ed era un convertito della seconda ora, non perfettamente in linea con la chiesa di Gerusalemme e convinto assertore dell’inutilità della Legge di Mosè.    Visse la prima fase della sua conversione  come compagno di Barnaba anzi all’ombra di costui, un  converso di origine cipriota e dunque non ebreo. Come abbiamo avuto modo di riflettere, in questa prima fase Paolo sembra non avere un ruolo ben determinato ma vaga da una città all’altra in compagnia di Barnaba, suo mentore. È in questi anni che matura il suo ruolo di apostolo e così se ne attribuisce il  titolo e le prerogative. Man mano che la sua attività missionaria dava i frutti sperati e crescevano le comunità da lui fondate, crebbe in lui l’autocomprensione del suo ruolo di apostolo fino a sentirsi allo stesso livello di Pietro, come lui stesso scrive nella lettera ai Galati[10].
    Successivamente, la sua intransigenza nella personale convinzione di predicare il vangelo autentico di Cristo lo porta ad entrare in contrasto anche con Barnaba oltre che con Pietro e Giacomo. Infatti l’incidente di Antiochia coinvolge anche questo amico dell’apostolo: “Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò ad evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?». È interessante notare come il testo di questi versetti non permetta di identificare i Giudei con altri all’infuori del gruppo dei giudeo-cristiani. Alcuni commentatori vogliono che questi giudei fossero gli oppositori ebrei, non convertiti al cristianesimo, che rigettavano Paolo. In realtà dal testo si evince che tale opposizione era interna al movimento cristiano e non esterna. Questo è importante perché nella serie di passi in cui si parla di opposizione a Paolo da parte dei Giudei, s’intendono i giudei convertiti al movimento di Gesù e non degli ebrei che restarono fedeli al giudaismo. Così anche nell’episodio del linciaggio di Paolo, quando cercherà di entrare nel tempio per pagare lo scioglimento del voto da parte di certi giudei, egli sarà aggredito non dagli ebrei ma dai giudeo-cristiani. Questo è provato dal fatto che fu Giacomo a ordinare a Paolo di pagare la tassa del voto ma se quegli uomini non fossero stati cristiani perché Giacomo se ne avrebbe dovuto interessare[11]?
    Purtroppo l’inflessibilità di Paolo questa volta lo porta a una rottura con la comunità di Gerusalemme e di Antiochia. La chiesa che lo aveva accolto e nutrito nella fede ora lo sconfessa. Paolo troncherà ogni legame con la comunità antiochena e i rapporti con Gerusalemme si faranno sempre più tesi. L’apostolo non menzionerà più questo incidente né lascia trapelare quali furono le conseguenze di questo scontro. Anche l’autore degli Atti, come abbiamo visto, passerà sotto silenzio questo imbarazzante episodio. Tutto questo evidenzia come la faccenda si sia risolta sfavorevolmente per l’Apostolo delle Genti. Forse è per stemperare i toni della polemica che Paolo accetta di aiutare la chiesa di Gerusalemme nell’organizzare una colletta per i poveri[12]. Ma come abbiamo visto tale colletta resterà un gesto nel nulla.

3. La questione della circoncisione.

    Da Gal 6,12 apprendiamo che altro punto di contrasto tra l’apostolo delle genti e questi discepoli fu la questione della circoncisione. Il brano in questione recita: “Quelli che vogliono fare bella figura nella carne, vi costringono a farvi circoncidere, solo per non essere perseguitati a causa della croce di Cristo”.
    La circoncisione era una consuetudine dei popoli nomadi dell’area mediorientale e palestinese ma era praticata anche da tribù africane e dalle popolazioni della Malesia e della Polinesia. Sicuramente trae origine da un rito preparativo alle nozze e come misura igienica. Il brano di Es 4,25-26 riguardante la circoncisione di Mosè e del figlio avuto da una donna  madianita potrebbe contenere una rimembranza dell’antichità di questo rito: “Allora Zippora prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello gli toccò i piedi e disse: «Tu sei per me uno sposo di sangue». Allora si ritirò da lui. Essa aveva detto sposo di sangue a causa della circoncisione”. Recita il Dizionario di Teologia Biblica: “La circoncisione, un rito di iniziazione sessuale diffuso fra molti popoli, diventa in Israele un segno dell’appartenenza al popolo di Jhwh, un segno vivo, impresso nel corpo e nella persona, dell’alleanza (Gen 17): un’ulteriore prova di quanto Israele  sia stato capace di assimilare in modo originale e coerente il patrimonio rituale comune. Contro il pericolo che la circoncisione scadesse in puro segno esteriore, magico, Geremia parlerà di «circoncisione del cuore» (Ger 4,4; Dt 10,16)”[13].
    La circoncisione, dunque, non è un’usanza esclusiva di Israele, ma con il popolo eletto essa diviene simbolo dell’alleanza con Dio. Essa è un segno voluto da Dio che attuato dal popolo testimonia la sua volontà di partecipare dell’alleanza[14]. La circoncisione assurge così a emblema di questa alleanza non solo del popolo intero ma del singolo, che manifesta con questo rito la sua adesione personale a tale alleanza, il quale si rende concreto in lui non solo come nazione. Da essa discende l’osservanza della Legge Mosaica e l’eredità delle promesse divine, divenendo il presupposto di tutte le esigenze che derivano dall’appartenere al popolo di Dio.
    Con il tempo, però, questo rito si svuotò del suo alto significato simbolico per mutare in un semplice gesto esteriore che esprimeva solo un’appartenenza sociale; si riteneva che semplicemente apponendo questo segno si garantisse la salvezza. È in questo fraintendimento del vero valore della circoncisione che Paolo innesta la sua polemica con chi voleva estendere tale rito, nella comunità cristiana, anche ai credenti di origine pagana.
    Accanto a questo senso travisato della circoncisione troviamo nelle pagine dell’Antico Testamento un concetto più spiritualizzato del rito. I profeti, infatti, parlarono della circoncisione del cuore come della vera circoncisione, segno vero dell’alleanza con Jhwh. Geremia, infatti, dice: “Circoncidetevi per il Signore, circoncidete il vostro cuore, uomini di Giuda e abitanti di Gerusalemme, perché la mia ira non divampi come fuoco e non bruci senza che alcuno la possa spegnere, a causa delle vostre azioni perverse” (cfr. Lev 26,41; Ez 44,9). Da qui i continui richiami alla vera circoncisione e al pentimento: “Circoncidete dunque il vostro cuore ostinato e non indurite più la vostra nuca” (Dt 10,16; cfr. anche Ger 4,4; Ez 44,7).
    Gli esseni fecero propria questa accezione spirituale della circoncisione, come esplicitato nella Regola della Comunità e negli Inni. I farisei, invece, calcarono l’accento sulla concezione puramente materiale del rito. Questo sarebbe condizione preliminare e segno dell’appartenenza all’alleanza che Dio ha concluso con Abramo.
    Nel Nuovo Testamento il verbo circoncidere è usato 17 volte: 9 in Paolo, 5 negli Atti, 2 in Luca e 1 in Giovanni mentre il sostantivo circoncisione è usato ben 36 volte di cui 31 solo nel corpus paolino. Il concetto opposto, ossia l’incirconcisione è usato esclusivamente da Paolo per 19 volte su un totale di 20 presenze del vocabolo in tutto il Nuovo Testamento. L’uso massiccio che Paolo fa del vocabolo mostra, come abbiamo già sostenuto nel corso di questa trattazione, che il campo di battaglia fra le opposte fazioni di cristiani provenienti dal giudaismo (i giudeo-cristiani e dunque circoncisi) e i cristiani provenienti dal paganesimo (dunque non circoncisi) fosse appunto la questione della circoncisione. I giudeo-cristiani erano convinti della necessità della circoncisione per la salvezza. Infatti leggiamo in At 15,1: “Ora alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli questa dottrina: «Se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè, non potete esser salvi», e poco più avanti leggiamo “Ma si alzarono alcuni della setta dei farisei, che erano diventati credenti, affermando: è necessario circonciderli e ordinar loro di osservare la legge di Mosè” (At 15,5). La presunta libertà dalla Legge Mosaica e, come conseguenza logica, dalla circoncisione propugnata da Paolo appariva sospetta tanto da indurre Giacomo a indagare: “Ora hanno sentito dire di te che vai insegnando a tutti i Giudei sparsi tra i pagani che abbandonino Mosè, dicendo di non circoncidere più i loro figli e di non seguire più le nostre consuetudini” (At 21,21). Giacomo non si accontentò di una semplice ammissione da parte di Paolo ma richiese un segno di sottomissione alla chiesa di Gerusalemme consistente nel pagare le spese di un voto che alcuni uomini avevano contratto: “Fa dunque quanto ti diciamo: vi sono fra noi quattro uomini che hanno un voto da sciogliere. Prendili con te, compi la purificazione insieme con loro e paga tu la spesa per loro perché possano radersi il capo. Così tutti verranno a sapere che non c’è nulla di vero in ciò di cui sono stati informati, ma che invece anche tu ti comporti bene osservando la legge” (At 21,23-24). Questo passo evidenzia ulteriormente come i giudeo-cristiani continuassero a seguire le usanze ebraiche e le prescrizioni della Legge anche aderendo al messaggio di Cristo. Difatti Giacomo, pur apprendendo dalla viva voce di Paolo in cosa consistesse il suo messaggio evangelico predicato ai pagani non ritiene necessario inserire questa libertà dalla legge come prassi da osservarsi per i pagani ma anzi prescrive per loro dei dettami tratti proprio da quella legge che Paolo vuole abolire: “Quanto ai pagani che sono venuti alla fede, noi abbiamo deciso e abbiamo loro scritto che si astengano dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, da ogni animale soffocato e dalla impudicizia” (At 21,25). Insomma, Giacomo si limita a riproporre le prescrizioni decise al concilio di Gerusalemme e descritte in Atti 15.
    Il libro degli Atti mostra come Paolo acconsentì alla richiesta di Giacomo: “Allora Paolo prese con sé quegli uomini e il giorno seguente, fatta insieme con loro la purificazione, entrò nel tempio per comunicare il compimento dei giorni della purificazione, quando sarebbe stata presentata l’offerta per ciascuno di loro” (At 21,26). Questo però contrasta con quanto lui stesso scrive nelle sue lettere e cioè che non avrebbe ceduto di un solo passo verso i giudaizzanti che volevano imporre la loro volontà: “Ad essi però non cedemmo, per riguardo, neppure un istante, perché la verità del vangelo continuasse a rimanere salda tra di  voi” (Gal 2,5).
    Il racconto della circoncisione di Timoteo, letto in quest’ottica, è certamente un’interpolazione perché questo discepolo era di discendenza giudaica per parte di madre e dunque già circonciso dalla nascita: “Paolo volle che partisse con lui, lo prese e lo fece circoncidere per riguardo ai Giudei che si trovavano in quelle regioni; tutti infatti sapevano che suo padre era greco” (At 16,3). Difatti, stando a quanto Paolo racconta nella sua lettera ai Galati, nemmeno Tito fu costretto a circoncidersi: “Ora neppure Tito, che era con me, sebbene fosse greco, fu obbligato a farsi circoncidere” (Gal 2,3).
    Paolo oppone alla circoncisione il battesimo: “Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere! Siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gesù, senza avere fiducia nella carne” (Fil. 3,2-3). La Bibbia di Gerusalemme commenta questi versetti con un’interessante notazione: “Con un gioco di parole dispregiativo Paolo paragona la circoncisione carnale alle incisioni cruente dei culti pagani (cfr 1Re 18,28; Gal 5,12)”. Secondo i fautori della circoncisione, il credente già da ora partecipa dello splendore di Cristo mentre per Paolo il discepolo in questa vita partecipa solo alle sofferenze del Cristo. Per Paolo la creazione è ancora lontana dall’essere liberata dal male. In Rm 8, 19-23 egli scrive: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”. Tutto questo comporta una visione negativistica dell’uomo e delle sue capacità di giungere alla salvezza mentre i suoi avversari concepivano il credente già raggiunto dalla salvezza che lo renderebbe un individuo superiore.
    Paolo, così, trasferisce lo scontro su un piano teologico più che cultuale: per lui la libertà dalla circoncisione significa, come abbiamo visto, libertà dalla Legge cui tale pratica era segno visibile. Tale libertà discende dal sacrificio di Cristo per questo Paolo ne fa una questione di principio inderogabile. Riproporre la circoncisione significa invalidare il sacrificio di Cristo. Questo atteggiamento intransigente, però, deve celare altre motivazioni in considerazione del fatto che, appunto grazie a questo immenso sacrificio, le consuetudini giudaiche non erano più necessarie alla salvezza e, dunque, potevano essere liberamente mantenute. Paolo ribatte che la circoncisione e la Legge acquistano validità soltanto se si è in grado di adempiere integralmente ogni singolo precetto, altrimenti si tratta di mera mutilazione: “La circoncisione è utile, sì, se osservi la legge; ma se trasgredisci la legge, con la tua circoncisione sei come uno non circonciso” (Rm 2,25). Per Paolo la piena osservanza della Legge è impossibile, come ben mostra la storia di Israele, per cui solo la grazia di Dio può concedere la salvezza e questa si manifesta in Cristo: “Ora il termine della legge è Cristo, perché sia data la giustizia a chiunque crede” (Rm 10,4).
    Il significato pregnante della circoncisione è così trasposto da Paolo al battesimo cristiano visto come adesione al Signore e al nuovo popolo da Lui adunato, che giunge a chiamare nuovo Israele. Ora è il battesimo il presupposto fondamentale per la rinascita a nuova vita, per rivestire l’uomo nuovo fatto a immagine di Cristo: “In lui voi siete stati anche circoncisi, di una circoncisione però non fatta da mano di uomo, mediante la spoliazione del nostro corpo di carne, ma della vera circoncisione di Cristo. Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti per i vostri peccati e per l’incirconcisione della vostra carne, perdonandoci tutti i peccati, annullando il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce” (Col 2,11-14). Come la circoncisione recideva la carne così il battesimo taglia via dal credente le colpe riproducendo in lui la morte di Cristo e realizzando la vita nuova. Il battesimo è l’essere sepolti e risorti in Cristo, qualcosa che va oltre la circoncisione la quale non garantiva la salvezza futura ma solo l’appartenenza etnica: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria” (Col 3,1-4).
    Tutte le lettere paoline esprimono questo pensiero teologico riguardo alla giustificazione per grazia e all’indipendenza dalla Legge Mosaica, la quale è abrogata dal sacrificio di Cristo: “Poiché non c’è che un solo Dio, il quale giustificherà per la fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi” (Rm 3,30). Per meglio fondare questa sua tesi, Paolo si rifà all’esempio di Abramo, il quale è il padre dei due gruppi: i circoncisi e gli incirconcisi. Infatti Abramo ricevette il segno della circoncisione quale simbolo di quella promessa basata sulla sua fede quando ancora era incirconciso. Paolo rilegge la storia del patriarca alla luce della sua costruzione teologica: vero segno dell’amicizia con Dio è la fede e non la circoncisione. Scrive infatti: “Orbene, questa beatitudine riguarda chi è circonciso o anche chi non è circonciso? Noi diciamo infatti che la fede fu accreditata ad Abramo come giustizia. Come dunque gli fu accreditata? Quando era circonciso o quando non lo era? Non certo dopo la circoncisione, ma prima. Infatti egli ricevette il segno della circoncisione quale sigillo della giustizia derivante dalla fede che aveva già ottenuta  quando non era ancora circonciso; questo perché fosse padre di tutti i non circoncisi che credono e perché anche a loro venisse accreditata la giustizia” (Rm 4,9-11).
    Paolo cerca così di porsi sulla scia dei profeti di Israele inneggiando alla vera circoncisione, quella del cuore, ma se ne discosta non attribuendo al gesto nessun valore soteriologico: “Siamo noi infatti i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gsù, senza avere fiducia nella carne” (Fil 3,3).  Egli si ripropone di fare dei due gruppi uno solo, in un’unica nazione santa: “Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace” (Ef 2,14-15ss); “Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o in circoncisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti” (Col 3,11).

4. Due teologie a confronto: fede e opere.


    Giacomo si scontra con Paolo anche su un altro terreno: quello del rapporto tra fede e opere. Abolendo la Legge, Paolo chiaramente considera nulle le opere che da essa promanano. Per perorare la sua argomentazione, l’Apostolo si ricollega ad Abramo il quale pur senza conoscere la Legge Mosaica viene giustificato a motivo della sua fede divenendo una benedizione per tutte le genti. In Gal 3,6-4,31 e Rom 4,1-22 e 9,7-9 Paolo porta avanti il suo ragionamento servendosi di midrash e deduzioni logiche. I veri eredi della promessa sono coloro che credono alla maniera di Abramo e cioè per fede (i cristiani) e non coloro che si affidano alle opere di una legge ormai obsoleta (i giudei).
    Per Paolo libertà è sempre libertà dalla Legge, la Torà. Afferma il professor Eisenman: “Per Paolo, libertà significa sempre e comunque libertà dalla Torah e ubbidienza alle “autorità romane, mai ebraiche”… Nella Lettera ai Galati (4,22-31), nell’illustrare questa contrapposizione tra schiavitù e libertà aggiunge un tocco geografico alla sua abilità retorica, cruciale in vista del modo in cui intende considerare l’Arabia sinonimo del Monte Sinai per sviluppare il concetto che gli sta a cuore (4,25). A proposito delle due alleanze, afferma infatti che «una, quella del Monte Sinai, che genera nella schiavitù, è rappresentata da Agar». Ovviamente questa alleanza è da associarsi a quella di Mosè, in quanto Paolo dà il meglio di sé situando in Arabia il Monte Sinai, su cui Mosè ricevette la Legge. Ancora una volta precisa che per schiavitù intende l’obbligo di osservare la Legge Mosaica e per libertà il liberarsi da tali imposizioni, non dalla dominazione romana. All’opposto, per gli zeloti, per i sicari e probabilmente per gli esseni che predicavano la guerra santa in difesa dell’Alleanza Sinaitica o Mosaica contro cui Paolo si scaglia, la schiavitù era la dominazione romana, e la libertà era la fine della sottomissione alla legge di Roma, e non a quella di Mosè”[15].
    Giacomo, d’altra parte, nella sua lettera perviene a conclusioni opposte utilizzando lo stesso  midrash,  affermando che Abramo è giustificato dalle sue opere e per mezzo di esse diviene “amico di Dio” perché “la fede cooperava con le opere”. Dice Giacomo: “Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. Vedete che l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede” (Gc 2,21-24). Detto per inciso l’espressione “amico di Dio” usata da Giacomo è molto frequente nei manoscritti di Qumran; altra formula usata da Giacomo “tenda di Davide” riportata in At 15,16 è altresì presente nei manoscritti esseni.
    Poco prima Giacomo aveva definito chi si opponeva a questa dottrina un “insensato”: “Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza calore?” (Gc 2,20). Molti vedono in Paolo l’insensato a cui Giacomo si rivolge. Vi è così opposizione tra la teologia paolina della giustificazione per fede e quella giacomina della giustificazione per mezzo delle opere.

5. I cibi da evitare.

   
    Durante il concilio di Gerusalemme, Giacomo diede disposizioni per i nuovi convertiti provenienti dal paganesimo, ossia per i cristiani di derivazione non giudaica. Queste disposizioni, riportate in Atti 15, consistevano nel dovere di astenersi dal cibo offerto agli idoli, dal cibarsi di animali soffocati, dalla fornicazione e dal sangue. Addirittura le Pseudoclementine fanno originare tale divieto a Gesù in persona tramite le parole di Pietro: “… astenersi dalla tavola dei demoni, ovvero dal cibo sacrificato agli idoli, da animali che siano stati soffocati o attaccati da animali feroci e dal sangue”[16]. Prosegue il racconto delle Pseudoclementine: “… astenersi dal versare sangue, dal consumare carne morta, dal nutrirsi con quella dilaniata dalle fiere o tagliate da animali strangolati, e parimenti da ogni altra cosa impura… coloro che non osservano la Legge, non dovete toccarli ma… rifuggire dalla loro presenza”[17].
    Paolo nella prima lettera ai Corinzi offre un commento piuttosto negativo di queste disposizioni affermando che tutti i cibi sono puri e buoni da mangiare. Scrive infatti l’Apostolo: “Non abbiamo forse noi il diritto di mangiare e di bere?” (1Cor 9,4). Egli riprende alla lettera il divieto di Giacomo di cibarsi delle carni sacrificate agli idoli dichiarando non solo che è lecito cibarsi di tali carni ma anche di tutto ciò che viene venuto al mercato, con buona pace dei divieti e delle prescrizioni alimentari della Legge: “Tutto ciò che è in vendita sul mercato, mangiatelo pure senza indagare per motivo di coscienza” (1Cor 10,25).
    La polemica sui cibi da assumere doveva in qualche modo già serpeggiare nelle comunità cristiane come evidenzia l’episodio di Pietro e della conversione del centurione Cornelio. In tale occasione Pietro ha una visione di una tovaglia piena di cibi immondi per la legge mosaica mentre una voce dal cielo li dichiara puri e leciti. Anche in questo episodio si può notare lo scontro tra due visioni del cristianesimo, quella greca e più aperta alle novità e capeggiata da Paolo e quella ebraica di mentalità più ristretta e capeggiata da Giacomo, fervente osservante della Legge e per questo chiamato Giusto.
    I fatti suesposti mostrano come la primitiva comunità lungi dall’essere quel luogo di pace e armonia era dilaniata da lotte più o meno cruente. Le due fazioni in cui era diviso il primitivo cristianesimo era una di stampo ellenistico e l’altra fedele osservante delle tradizioni giudaiche pur nella novità del messaggio evangelico. Sappiamo che da questa lotta ne uscì vittoriosa la fazione ellenica mentre quella giudaica lentamente cadde nell’oblio. Questa fine era già presagita nelle caratteristiche stesse del movimento di Giacomo, movimento troppo chiuso in se stesso, asfittico e impastoiato dalla stretta osservanza della Legge Mosaica. In questa diatriba Pietro assume un  atteggiamento titubante che provocherà l’incidente di Antiochia. Il partito della circoncisione, ossia gli inviati di Giacomo, dovettero fare molto timore a Pietro tanto da indurlo nella simulazione e meritare il rimprovero di Paolo.


[1] Cfr. Atti cap. 15.
[2] Cfr. Mc 3,21-31; 1Cor 15,5-7.
[3] Così nella comunità primitiva non sembra avere molta importanza la questione della nascita verginale di Gesù.
[4] O’Callaghan, Papiros neotestamentarios en la cueva 7 de Qumran, in Biblica 53, 1972, pagg. 99-100.
[5] Cfr. Epifanio, Adversus Haereses, 29, 4, 3-4; 78, 14,1; Eusebio, Historia Ecclesiastica, 2,23,6; Girolamo, De viris illustribus, 2; Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, II, 128.
[6] R. Einseman, op. cit. pag. 142.
[7] G. Barbaglio, op. cit., pagg. 142-143.
[8] Cfr. 2Co 3,4-18.
[9] Mt 10, 5-8 “Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni.»” cfr. anche Lc 10, 1-9.
[10] Gal 2,7-8: “Anzi, visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi – poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani”.
[11] Cfr.At 21,23-36.
[12] 2Cor 8-9; Rm 15,25-32.
[13] Dizionario di Teologia Biblica, voce “Liturgia e culto”, pag. 841.
[14] Gen 17,9-14: “Disse Dio ad Abramo: «Da parte tua devi osservare la mia alleanza tu e la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione. Questa è la mia alleanza che dovete osservare, alleanza tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: sia circonciso tra di voi ogni maschio. Vi lascerete circoncidere la carne del vostro membro e ciò sarà il segno dell’alleanza tra me e voi. quando avrà otto giorni, sarà circonciso tra di voi ogni maschio di generazione in generazione, tanto quello nato in casa come quello comperato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua stirpe. Deve essere circonciso chi è nato in casa e chi viene comperato con denaro; così la mia alleanza sussisterà nella vostra carne come alleanza perenne…».
[15] R. Eisenman, op. cit., pagg. 206-207.
[16] Pseudo clementine, Omelia VII, 9.
[17] Op. cit., VII, 19.