domenica 11 dicembre 2011

La palestina ai tempi di Gesù

    Nella Palestina il contrasto tra ellenismo e la cultura giudaica si fece più virulento che in altre zone raggiunte dall’influsso greco. Questa terra, considerata dal popolo ebraico un dono di Dio e dunque santa, ponendosi al crocevia tra il Mediterraneo e l’Asia Minore è stata al centro degli interessi di vari regni e potenze quali l’Egitto, l’Assiria, Babilonia, la Persia, la Grecia, i regni ellenistici dei Seleucidi e dei Tolomei e, più tardi, di Roma. Ovviamente questo avvicendarsi di popoli produsse anche un certo sincretismo culturale e religioso. L’ormai scomparso regno del nord (Israele) passando sotto varie dominazioni (Assira, Persiana, Seleucide) perse le sue radici ebraiche e resistette ai cruenti tentativi di giudaizzazione da parte dei Maccabei. Nel regno del sud (Giuda), invece, i tentativi di ellenizzazione produssero una serie ininterrotta di guerriglie che si protrasse anche al tempo della dominazione romana.


1. La Diaspora ebraica e la nascita del giudaismo.


a) La politica delle comunità della diaspora.
    Il Nuovo Dizionario di Teologia Biblica fornisce questa definizione del periodo storico che prese il nome di giudaismo: “Gli storici designano col termine giudaismo la forma assunta dalla religione del popolo ebraico dopo la distruzione del primo tempio ad opera di Nabucodonosor nel 586 a.C. e l’esilio babilonese, mentre per il periodo anteriore si suole parlare di religione ebraica”[1]. Tra i due periodi storici vi è un rapporto di continuità ma anche di forte differenza. In seguito alla caduta di Gerusalemme si susseguirono tre deportazioni aventi carattere selettivo: solo la classe abbiente venne toccata dal provvedimento mentre i ceti più poveri rimasero nel paese desolato. La distruzione del Regno di Israele ad opera degli Assiri e del Regno di Giuda da parte dei Babilonesi diede origine al fenomeno comunemente chiamato diaspora, ossia la creazione di numerose e forti comunità giudaiche nelle regioni  dove le due potenze dell’epoca li avevano deportati. I libri profetici del Deutero-Isaia, di Daniele e di Ezechiele testimoniano questi eventi drammatici e la conseguente diffusione di centri ebraici nelle principali città assire e babilonesi. Anche quando Babilonia cadde sotto la dominazione persiana, il fenomeno della diaspora non cessò anzi si crearono contrasti fra gli ebrei rimasti in patria e quelli che ormai avevano assorbito la cultura dei paesi ove si erano stanziati. Gerusalemme, comunque, restò punto di riferimento e meta di pellegrinaggi isolati[2]. Tra i deportati e quelli rimasti in patria il divario era destinato ad acuirsi notevolmente perché gli esiliati ebbero modo di rileggere la loro storia alla luce di quanto accaduto. L’incontro con le altre popolazioni diede loro impulso per sviluppare una identità culturale e religiosa. La lontananza dalla madre patria e dal culto templare, interrotto dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera dei babilonesi di Nabucodonosor nel 586 a.C., fece nascere una fitta rete di sinagoghe. Questi erano centri religiosi deputati al culto e alla istruzione religiosa; di solito accanto ad esse sorgeva anche una scuola per l’educazione dei fanciulli. Grazie a questa istituzione, la religione ebraica poté continuare ad essere praticata anche nelle terre di esilio. Le comunità in esilio divennero centri di un risveglio religioso e profetico, risveglio che mancò, invece, nella patria devastata. Con il tempo gli esiliati si compresero come la parte migliore di Israele, in antagonismo con i restati in patria: “Ebbene, queste sono le parole del Signore al re che siede sul trono di Davide e a tutto il popolo che abita in questa città, ai vostri fratelli che non sono partiti con voi nella deportazione; dice il Signore degli eserciti: Ecco, io manderò contro di essi la spada, la fame e la peste e li renderò come i fichi guasti, che non si possono mangiare tanto sono cattivi. Li perseguiterò con la spada, la fame e la peste; li farò oggetto di orrore per tutti i regni della terra, oggetto di maledizione, di stupore, di scherno e di obbrobrio in tutte le nazioni nelle quali li ho dispersi, perché non hanno ascoltato le mie parole…” (Ger 29, 16-19). Anzi, l’esilio stesso venne considerato come una tappa fondamentale nell’alleanza con Dio, equiparandolo all’uscita dall’Egitto dell’epopea di Mosè, un nuovo esodo: “Pertanto ecco, verranno giorni – dice il Signore – durante i quali non si dirà più: Per la vita del Signore che ha fatto uscire gli Israeliti dal paese d’Egitto, ma si dirà piuttosto: Per la vita del Signore che ha fatto uscire e che ha ricondotto la discendenza della casa di Israele dalla terra del settentrione e da tutte le regioni dove li aveva dispersi; costoro dimoreranno nella propria terra” (Ger 23, 7-8).
    Gli ebrei rilessero la loro storia, dunque, e l’esilio venne visto come una punizione per l’infedeltà del popolo[3]. L’opera del Cronista, che sostanzialmente ricalca i due libri dei Re, è appunto una rilettura della storia di Israele illuminata dall’evento dell’esilio. Si cerca di capire perché, apparentemente, sarebbe venuta meno l’alleanza con Dio: la spiegazione è a causa del peccato del popolo (2Cr 36,15-21; cfr Is 43,24-28). Si fa strada, però, l’idea che Dio non può abbandonare il suo popolo per sempre. il Deutero-Isaia è l’unico a considerare l’esilio un periodo ideale di purificazione per il ritorno al vero Dio. I profeti prima dell’esilio avevano avvertito Israele dell’ira divina incombente; ora il giorno di Jhwh, il giorno dell’ira di Dio, non è più rivolto contro Israele ma contro i suoi oppressori (Cfr. Gioele 3-4). Questo mutamento nel significato teologico del giorno di Jhwh è importante per le conseguenze che avrà nell’epoca di Gesù e per il clima di attesa in un intervento divino che caratterizzerà fortemente quel periodo. “Durante l’esilio crebbe la fede in una rinascita e si approfondì la convinzione della diversità di Israele rispetto agli altri popoli”[4]. È in questo periodo che nasce l’idea del “resto di Israele” ossia la parte di popolo che si è purificata nell’esperienza dell’esilio.
    Perduto il tempio, ora tutto si incentra nell’osservanza della Legge. La scuola deuteronomica, sorta proprio in quest’epoca, propugna il ritorno all’alleanza tramite l’osservanza del Patto. Questo obiettivo viene raggiunto con tre discorsi interpretati direttamente  da Mosè: nasce il libro del Deuteronomio[5]. La scuola sacerdotale, anch’essa originatasi in questo periodo, calca l’accento invece sulla purezza e la santità. L’esilio è visto come il periodo di peregrinazione di Israele nel deserto, all’inizio della sua storia come popolo. Si forma il libro del Levitico il cui Codice di Santità rappresenta la parte dominante (Lev 17-26). Il Deutero-Isaia, teorico del monoteismo, rivendica l’unicità di Jwhw quale vero Dio a discapito dei falsi idoli dei popoli vicini: “Così dice il re di Israele, il suo redentore, il Signore degli eserciti: «Io sono il primo e io l’ultimo; fuori di me non vi sono dei» (Is 44,6; cfr Is 45,7-12). Con il Deutero-Isaia prende forma la categoria del servo di Jhwh, enigmatica figura individuale o collettiva, che la tradizione cristiana applicherà al Cristo. Si inizia anche a propagare un certo universalismo secondo cui Israele esiste perché deve far conoscere il vero Dio a tutti i popoli.
    Lentamente le varie comunità ebraiche accrebbero la loro importanza raggiungendo un notevole benessere sociale ed economico. L’essere inseriti in importanti contesti politici, come l’impero persiano, i regni ellenistici conseguenti alla caduta dell’impero fondato in poco tempo da Alessandro Magno, e, da ultimo, la potenza romana, favorì gli scambi commerciali ed accrebbe le opportunità di lavoro. Nel IV sec. a.C. Alessandro Magno conquistò l’impero persiano e l’Egitto. Per unificare le sue conquiste promosse la diffusione della cultura e della lingua greca, favorì i matrimoni misti e elevò a dignitari sia greci che persiani per rendere l’amministrazione più omogenea. Questo processo prese il nome di ellenizzazione e venne continuato anche dai successori di Alessandro, i diadochi. Quando i regni ellenistici sorti dalla dissoluzione dell’impero creato da Alessandro scomparvero, la cultura greca continuò ad esercitare la sua influenza sotto i nuovi dominatori: i romani. Sotto la loro dominazione, importanti città in tutto il Medio Oriente divennero centri di diffusione greca. L’ellenismo come fattore culturale si estese ad ogni settore della vita: dalle istituzioni alle leggi, dal commercio al’industria, perfino l’abbigliamento e la moda vennero contagiate. In quasi tutte le città sorgeva un ginnasio, per l’educazione dei fanciulli, una palestra ed un  teatro per le rappresentazioni  di autori greci.  In epoca ellenistica gli ebrei furono valenti mercenari e questo diede loro l’opportunità di divenire proprietari terrieri su base ereditaria. I mercenari, infatti, venivano ricompensati con appezzamenti di terreni che potevano essere lasciati in eredità ai discendenti.
    Le guerre con i romani diedero maggiore impulso alla diaspora ebraica, moltiplicando i loro centri in tutto il bacino mediterraneo. Si calcola che nella sola Roma vi fossero ben undici sinagoghe. Altre fiorenti comunità sorgevano ad Alessandria d’Egitto, ad Antiochia di Siria ed erano organizzate con propri senati e capi. Ad ampliare ulteriormente le comunità ebraiche vi era un forte senso missionario che le arricchiva di proseliti e timorati di Dio; questi ultimi non abbracciavano pienamente la religione ebraica per timore della circoncisione ma simpatizzavano con gli ebrei adottando i loro usi e costumi. Buone erano le relazioni con la Città Santa, Gerusalemme, a cui devolvevano la tassa annuale per il Tempio e da cui mutuavano il calendario liturgico; centro della loro religiosità, però, restava la sinagoga.
    Quando scoppiò la rivolta che portò alla distruzione di Gerusalemme e del Tempio nel 70 d.C., gli ebrei della diaspora non si schierarono contro i romani. Ormai erano pienamente inseriti nel tessuto sociale della potenza romana ed avevano accettato il modo di vivere dei dominatori: troppi erano gli interessi in gioco per rischiare di perderli coinvolgendosi in una guerra che poteva avere solo conseguenze disastrose. Questo atteggiamento volutamente neutrale è di fondamentale importanza per comprendere gli avvenimenti che portarono Paolo a frequentare il movimento di Gesù dapprima come persecutore e poi come principale artefice del suo sviluppo.
    Prima della rivolta del 66 d.C., gli ebrei godevano di particolari privilegi. I romani, infatti sapevano distinguere tra aspirazioni politiche degli ebrei e la loro richiesta di libertà religiosa. La Bibbia riporta un antico patto tra i romani e gli ebrei[6]. Interessante è la testimonianza offerta dalla lettera che l’imperatore Claudio invia alla città di Alessandria d’Egitto nel 41 a.C.:
“Comportatevi da parte vostra amichevolmente e pazientemente nei confronti dei giudei che si sono stabiliti da tanto tempo nella città, e non profanate nessuno dei riti che essi seguono per pregare i loro dei, ma permettete loro, come al tempo del divino Augusto, di mantenere le loro usanze, che io stesso, dopo aver udito le due parti, ho ugualmente sanzionato. E d’altra parte ordino espressamente ai giudei di non cercare altri privilegi oltre a quelli di cui già godono e di non portare o ammettere giudei che vengono dalla Siria o dall’Egitto… Se vi asterrete da queste cose e vorrete vivere in comprensione ed amicizia reciproca, intendo da parte mia mostrare una benevola sollecitudine verso la città allo stesso modo che ve la dimostrarono i miei predecessori” (papiro di Londra, 1912).
    Il brano sopra riportato evidenzia il ragguardevole grado di integrazione che le comunità della diaspora avevano raggiunto tanto da voler estendere i propri diritti. Queste comunità godevano di particolare autonomia religiosa ed erano dispensati dall’adorare statue; a Gerusalemme, tanto per fare un esempio della sensibilità romana verso questo popolo, non erano state poste le insegne imperiali romane per non urtare gli ebrei.
    All’inizio il fervore religioso degli ebrei si oppose alla minaccia rappresentata per la loro fede dal paganesimo greco, ma alla fine diversi aspetti della vita dei giudei ne risultarono profondamente influenzati. Uno studioso afferma: “I giudei furono attratti nella corrente di questa cultura ellenistica, lentamente e con riluttanza ma irresistibilmente… Dopo tutto, il piccolo territorio giudaico era circondato quasi da ogni parte da regioni ellenistiche, con le quali, per ragioni commerciali, i giudei erano costretti a restare in contatto continuo”[7].

b) La religiosità delle comunità della diaspora.
    L’esilio costituisce la fucina in cui vennero forgiate le idee che caratterizzeranno l’epoca successiva fino al periodo contemporaneo all’evento Cristo. Molte categorie teologiche furono pensate in questo lasso di tempo e in seguito riprese e ampliate dai movimenti e dai gruppi del tempo di Gesù. Durante l’esilio il profeta Ezechiele gettò le basi per la futura escatologia (Ez 38-39), ovvero il genere teologico che si occupa di investigare la salvezza futura creando un collegamento tra passato e futuro in un’ottica di salvezza[8]. L’escatologia dell’esilio non prevedeva la fine del mondo ma una nuova creazione, una palingenesi, ove anche la natura avrebbe partecipato alla rinascita: “In quel giorno non ci sarà né luce né freddo, né gelo: sarà un unico giorno, il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte; verso sera risplenderà la luce” (Zac 14, 6-7); “Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare, e farò di Gerusalemme una gioia, del suo popolo un gaudio” (Is 65, 17-18); “Si, come i nuovi cieli e la nuova terra, che io farò, dureranno per sempre davanti a me – oracolo del Signore – così dureranno la vostra discendenza e il vostro nome” (Is 66, 22).
    Il clima di attesa escatologica produsse e favorì il messianismo, l’idea che Dio interverrà tramite un suo rappresentante, di regola discendente del re Davide. I profeti Aggeo e Zaccaria indicano in Zorobabele il messia: “Il ventiquattro del mese questa parola del Signore fu rivolta una seconda volta ad Aggeo: «Parla a Zorobabele, governatore della Giudea, e digli: Scuoterò il cielo e la terra… In quel giorno – oracolo del Signore degli eserciti – io ti prenderò, Zorobabele figlio di Sealtiel mio servo, dice il Signore, e ti porrò come un sigillo, perché io ti ho eletto, dice il Signore degli eserciti» (Ag 2,21.23). Zaccaria suddivide l’azione del messia in due parti, una politica e l’altra religiosa, indicando quale messia politico Zorobabele e quale messia religioso il sommo sacerdote Giosuè: “Ascolta dunque, Giosuè sommo sacerdote, tu e i tuoi compagni che siedono davanti a te, poiché essi servono da presagio: Ecco, io manderò il mio servo Germoglio” (Zac 3,8; cfr. 6, 9-15). Questa suddivisione sarà fatta propria anche dagli Esseni. Curiosa connotazione delle due correnti dell’escatologismo e del messianismo è la sostanziale incapacità dell’uomo a cambiare se stesso per cui sarà Dio in persona ad operare il rinnovamento mutando radicalmente il creato tramite una sua azione diretta. Da queste due correnti deriverà l’apocalittica e l’antitesi dei due Eoni dove l’eone buono soppianterà quello attuale e malvagio. Nonostante le promesse profetiche le situazioni rimasero le stesse per questo le speranze profetiche furono riviste in chiave di comprensione del termine ultimo della storia.
    Il decreto di Ciro che consentiva agli esiliati di ritornare in patria costituì l’adempimento delle promesse di restaurazione. Gli ebrei compresero l’evento come il segno del perdono di Dio e l’inizio del suo favore. Con rinnovato vigore, i rimpatriati presero a costruire la città santa e a gettare le basi per il nuovo assetto religioso. La fedeltà alla Legge è posta al centro della nuova religiosità moltiplicandone i precetti fino a pervadere ogni aspetto della vita quotidiana. Purtroppo la stretta osservanza della Legge comportò l’indebolimento dello spirito profetico. “Si avviò così l’affermazione dei dottori della legge, dei giuristi e rabbini, i quali acquistarono sempre più credito” recita il Nuovo Dizionario di Teologia Biblica[9]. Si giunse alla formulazione di ben 365 proibizioni e 245 prescrizioni; la trasgressione ad un solo precetto comportava l’infrazione di tutta la legge[10]. In quest’epoca vedono la luce opere come il Talmud, la Mishnà, il Targum, commentari alla legge e sue esplicitazioni. Fu anche composto il canone delle Sacre Scritture. Si cercava, insomma, di “trovare i mezzi che portassero il popolo a una vita quotidiana aderente il più possibile alla volontà divina”[11].
    Il ritorno in patria non mise fine alla diaspora. Le comunità sparse in tutto l’impero romano non furono solo centri di benessere economico o di rivendicazione politica per i propri diritti, furono anche fiorenti centri di produzione religiosa. Essi crearono le sinagoghe, come abbiamo visto, per rispondere ai  propri bisogni spirituali anche se lontani dalla madre patria. Gli ebrei sparsi in tutto il Mediterraneo mantenevano rapporti con Gerusalemme, molti di loro salivano alla Città Santa in occasione delle festività annuali. Poco per volta, però, si perse la familiarità con la lingua aramaica. Molti ebrei che vivevano a Gerusalemme parlavano il greco; lo testimonia un passo del libro degli Atti dose si parla di uomini della sinagoga dei Liberti e dei cirenei, degli alessandrini e della Cilicia che sicuramente parlavano greco[12]. In Egitto, ad esempio, sorse la necessità di creare una Sacra Scrittura che rispondesse alle esigenze di quegli ebrei che ormai non parlavano più l’aramaico, la lingua degli ebrei di Palestina e lingua ufficiale della religione ebraica. Fu così che nacque il bisogno di una traduzione in lingua greca, la lingua della diaspora. Gerusalemme inviò settantadue esperti che tradussero la Scrittura in greco: era nata la versione detta dei LXX, che divenne il testo ufficiale in lingua greca. La lettera di Aristea a Filocrate testimonia, anche se in modo leggendario, questo notevole avvenimento. La LXX, però, riguardava solo il Pentateuco ossia i cinque libri della Legge attribuiti a Mosè. In seguito si rese necessario tradurre anche gli altri libri dell’Antico Testamento.
    Verso il III sec. a.C. gli ebrei avevano tradotto in greco molte delle loro opere letterarie e componevano direttamente in questa lingua i loro scritti. Questo contribuì a far conoscere la religione e la storia del popolo di Israele ai non ebrei. Secondo alcuni storici, in questo periodo molti non ebrei “aderivano più o meno strettamente alle comunità giudaiche, partecipavano alla liturgia giudaica e osservavano, in modo più o meno completo, i precetti giudaici”[13]. Alcuni pagani abbracciarono il giudaismo, accettarono la circoncisione e divennero proseliti. Altri, la maggioranza, aderirono a certi aspetti del giudaismo ma non si convertirono. Nella letteratura greca spesso vengono definiti timorati di Dio.      
    Sotto i Seleucidi di Siria si verificò una forte persecuzione contro gli ebrei quando re Antioco cercò di imporre la cultura ellenica in Palestina. Questa nuova minaccia per Israele coagulò forze già presenti ma non ancora organizzate: “Una minoranza si adattò alla nuova misura e rinnegò la propria fede… Altri opposero una resistenza passiva… Una terza reazione è quella di coloro che scelsero la sfida armata”[14].
    Il gruppo che scelse di opporre una resistenza passiva prese il nome di hasîdîm, i pii ossia gli asidei. Essi preferivano morire piuttosto che rinnegare la legge (1Mac 2,34-38). Molti asidei vennero martirizzati (2Mac 7; 6,14; 1Mac 2,42; 7,13-14). I due libri dei Maccabei raccontano questo tragico periodo della storia di Israele. La sorte riservata a tanti asidei che preferirono il martirio provocò la reazione armata di altri: “Poi dissero tra di loro: «Se faremo tutti come hanno fatto i nostri fratelli e non combatteremo contro i pagani per la nostra vita e per le nostre leggi, ci faranno sparire in breve dalla terra». Presero in quel giorno questa decisione: «Noi combatteremo contro chiunque venga a darci battaglia in giorno di sabato e non moriremo tutti come sono morti i nostri fratelli nei nascondigli» (1Mac 2,40-41). Iniziò così la rivolta maccabaica guidata da Mattatia di Modin e i suoi figli; anche molti asidei si unirono ai rivoltosi: “In quel tempo si unì con loro un gruppo degli Asidei, i forti d’Israele, e quanto volevano mettersi a disposizione della legge” (1Mac 2,42).
    In questo periodo si sviluppano vari movimenti e gruppi religiosi che, pur facendo capo alla liturgia templare e aderendo alla Legge Mosaica, si differenziavano per le loro visioni politiche e religiose in risposta alla ellenizzazione del loro paese. Continua ad informarci il Nuovo Dizionario di Teologia Biblica: “Intorno all’epoca dei Maccabei incominciamo a conoscere le fisionomie di correnti religioso-politiche organizzate che comunemente denominiamo sette”[15]. Tali movimenti entrarono in misura diversa l’uno dall’altro nel mondo biblico cristiano: basti pensare alle polemiche evangeliche con i farisei, i sadducei e gli erodiani, tanto per citare alcuni esempi. Questi movimenti si caratterizzavano per un’osservanza stretta della Legge come volevano i farisei, i cosiddetti pii, oppure per una commistione con il potere romano come facevano i sadducei e gli erodiani. Altri preferivano vivere la loro fede separati dal resto del mondo, come per gli esseni, o preconizzavano un ideale ritorno alla fede davidica come cercavano di imporre con le armi gli zeloti. Altri ancora erano bollati come eretici e pertanto esclusi dalla salvezza eterna, come i samaritani del monte Garazim. Gruppo a parte erano i cosiddetti emerobattisti, così chiamati perché praticavano abluzioni mattutine, facenti capo a Giovanni Battista; movimento popolare, molti discepoli confluirono nella comunità cristiana di stampo giudaico mentre altri finirono per eclissarsi in vari gruppuscoli, disperdendosi in oriente e sopravvivendo tra i Mandei degli attuali Iran e Iraq.
    Di tutti questi movimenti e gruppi due meritano di essere analizzati più da vicino, cosa che verrà fatta nella terza parte della trattazione, e precisamente il gruppo degli esseni di Qumran e gli zeloti. Vedremo come questi due gruppi, apparentemente in antitesi, nascondano in realtà sorprendenti punti di contatto tanto da portare a ipotesi estreme.
    In questa sezione, invece, una sommaria presentazione di questi gruppi sarà utile per una migliore comprensione dei fermenti dell’epoca di Gesù.

c) I Farisei.
    Di provenienza asidea, “all’inizio erano un gruppo minoritario, ma poco alla volta estesero il loro influsso su tutta la religione sia in Palestina sia nella diaspora”[16]; subirono violenti attacchi sotto i Seleucidi. Il loro nome deriva dalla radice perušim ossia separati. Il movimento fu iniziato da alcuni sacerdoti ma poi finì per aprirsi al ceto medio, coinvolgendo artigiani, commercianti, impiegati e ufficiali. Nel I secolo, secondo Giuseppe Flavio, erano circa seimila. Di loro egli scrive: “Delle altre due sette prima nominate una è quella dei farisei; essi godono fama di interpretare esattamente le leggi, costituiscono la setta più importante, e attribuiscono ogni cosa al destino e a Dio; ritengono che l’agire morale dipende in larga parte dagli uomini, ma che in ogni cosa ha parte anche il destino; che l’anima è immortale, ma soltanto quella dei buoni passa in un altro corpo, mentre quelle dei malvagi sono punite con un castigo senza fine”[17]. 
    Stretti osservanti delle prescrizioni della Legge, il Nuovo Testamento ha di essi una immagine preconcetta e offre una testimonianza tendenziosa. Infatti “studi moderni hanno in larga misura riabilitato i farisei”[18]. Il loro eccessivo legalismo era dettato da un profondo amore per la Legge e l’alleanza che essa significava, “perciò la casuistica divenne un elemento essenziale del loro insegnamento e, nello sforzo di precisare le norme della legge, sono a volte condotti al di là del testo”[19]. Questo eccessivo zelo per la tradizione dei padri è da ricercarsi nel loro tentativo di risposta al sincretismo religioso operato dagli ambienti ellenisti e dalla riforma religiosa di Antioco Epifane. La Legge di Mosè era da prendersi alla lettera anche se andava adattata al contesto attuale; per questo formuleranno tutta una minuziosa tradizione tanto che la lettera divenne più importante dello spirito, come ebbe a sottolineare lo stesso Gesù nelle sue invettive contro questo gruppo.
    I farisei credevano nella risurrezione, in un mondo angelico che fungesse da mediatore tra Dio e l’uomo, credevano negli spiriti cattivi. Osservavano il sabato, rispettavano all’eccesso la legge di purità riguardo a cibi e contatti con persone e pagavano scrupolosamente la decima di ogni cosa posseduta. Praticavano il digiuno e compivano opere di misericordia. Si riunivano in confraternite chiamate chaburot dove consumavano insieme i pasti. Erano molto stimati dal popolo anche se questi disprezzavano la gente che aveva scarsa conoscenza della Legge[20].

d) I Sadducei.
    Si ritenevano discendenti del sommo sacerdote Sadoc dell’epoca di Salomone[21]. Era un gruppo estremamente conservatore, refrattario ad ogni possibile innovazione, di derivazione aristocratica. Essi ebbero un ruolo fondamentale nella ricostruzione del post esilio provvedendo anche al culto templare. Molti di essi erano proprietari terrieri e ricevevano le decime dal popolo. Avevano molti interessi da difendere per cui scesero sempre a compromessi con il potere politico, dei Seleucidi prima e dei romani dopo. Fu per questo che un gruppo di sacerdoti sadociti si staccò dal resto del movimento e si ritirò nel deserto intorno a Qumran dando origine alla comunità essena, con a capo il cosiddetto Maestro di Giustizia. I sadducei propendevano per una interpretazione letterale della Legge, erano assertori della libertà umana rifiutando qualunque idea di destino. Non credevano nell’anima o nella retribuzione e accettavano solo le leggi scritte. Rifiutavano la tradizione orale, opponendosi in questo ai farisei. “Nel I secolo dell’era cristiana i sadducei avevano un grande potere a Gerusalemme grazie al tempio e alla persona del sommo sacerdote, capo della nazione e presidente del sinedrio, ove godevano di grande ascendente”[22].
    Giuseppe Flavio parla di questo gruppo in occasione di una disputa con i farisei al tempo di Giovanni Ircano (134-104 a.C.) sulla legittimità che il re assumesse anche la carica di sommo sacerdote: i farisei erano contrari mentre i sadducei non avevano nulla da obiettare. Di loro dice lo storico ebreo: “I sadducei, invece, che compongono l’altra setta, negano completamente il destino ed escludono che Dio possa fare qualcosa di male o solo volerlo; affermano che è in potere degli uomini la scelta tra il bene e il male, e che secondo il suo volere ciascuno si dirige verso l’uno o l’altro. Negano la sopravvivenza dell’anima, nonché le pene dell’Ade e i premi. I farisei sono legati da scambievole amore e perseguono la concordia entro la comunità; i sadducei sono invece, anche tra loro, aspri e nei rapporti con i loro simili sono rudi al pari che con gli altri”[23]. 
    Si opposero al movimento di Gesù perché ravvisavano in esso un pericolo per la loro posizione privilegiata[24]. Stessa opposizione riservarono agli zeloti e a qualunque movimento o ideologia potesse turbare lo status quo che essi avevano raggiunto. Scomparvero dopo il 70 d.C.
  Concludendo questa breve dissertazione  sulla diaspora ebraica abbiamo abbastanza elementi per ritenere che essa poteva adeguatamente rispondere alle esigenze formative di una mente brillante come quella dell’apostolo Paolo. Gran parte del pensiero paolino è debitore al grande fermento culturale proprio di questo periodo della storia ebraica.


[1] Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit., pag. 681.
[2] Cfr. Ger 41,4ss.: “Il secondo giorno dopo l’uccisione di Godolia, quando nessuno sapeva la cosa, vennero uomini da Sichem, da Silo e da Samaria: ottanta uomini con la barba rasa, le vesti stracciate e con incisioni sul corpo. Essi avevano nelle mani offerte e incenso da portare nel tempio del Signore…”.
[3] Cfr. Gdt 5,18-19: “Quando invece si allontanarono dagli ordinamenti che egli aveva loro imposti, furono terribilmente sconfitti in molte guerre e condotti prigionieri in paese straniero, il tempio del loro Dio fu raso al suolo e le loro città caddero in potere dei loro nemici. Ora appunto, riconciliati con il loro Dio, hanno fatto ritorno dai luoghi dove erano stati dispersi, hanno ripreso possesso di Gerusalemme, dove è il loro santuario, e si sono stabiliti sulle montagne, che prima erano deserte”.
[4] Op. cit. pag. 685.
[5] Deut 4,40: “Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sii felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore tuo Dio ti dà per sempre”.
[6] Cfr. 1Macc. 8,17-32.
[7] E. Schürer, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, ed. Paideia, Brescia 1987, vol. II, p. 82.
[8] Cfr. Is 43,18-19: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa”.
[9] Op. cit. pag. 693.
[10] Questa verità riecheggia nell’affermazione di Paolo in
[11] Op. cit. pag. 696.
[12] Cfr. At 6,1.9.
[13] E. Schürer, op. cit., vol. III, p. 225.
[14] Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit., pag. 698.
[15] Op. cit. pag. 698.
[16] Op. cit., pag. 699.
[17] Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, II, 118-119, 162-166.
[18] Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, op. cit., pag. 699.
[19] Op. cit., pag. 699.
[20] Cfr. Gv 7,49.
[21] Cfr. 1Re 2,35.
[22] Op. cit., pag. 700.
[23] Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, II, 118-119, 162-166.
[24] Cfr. Gv 11,48: “Se lo lasciamo [Gesù] fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione”.

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