sabato 10 dicembre 2011

L'uso del termine "apostolo"

4. L’uso del termine apostolo.


    Secoli di tradizione ci hanno abituato ad abbinare alla parola apostolo il gruppo dei Dodici discepoli di Gesù, quelli che lui avrebbe chiamato personalmente agli inizi della sua missione. Eppure leggendo le lettere attribuite a Paolo appare subito evidente come egli si ritenga a pieno titolo un apostolo di Gesù al pari dei Dodici pur non appartenendo a questo ristretto gruppo. La sua sembra una presunzione che però trae origine dall’aver visto anch’egli il Cristo, seppure in visione. Per tal motivo avrà difficoltà a farsi accettare dalla comunità dei discepoli che non riconosce in lui un apostolo, un membro del gruppo dei Dodici. Nondimeno Paolo difenderà sempre questa sua prerogativa.  
    Ma non è solo Paolo ad attribuirsi questa importante qualifica; scorrendo le pagine del Nuovo Testamento scopriamo che anche ad altri personaggi viene tributato questo titolo. È utile, allora, conoscere l’uso del termine apostolo nel mondo biblico e l’utilizzo che Paolo riserverà a questa parola carica di significati.
    Il verbo greco αποστέλλω (apostello)significa mandare (persone o cose), mandar via (anche nel senso di cacciare via, scacciare), spedire ed è collegato all’idea di un incarico conferito. L’uso del termine evidenzia la profonda unione tra l’inviato e colui che invia. Sarà la filosofia stoica a sottolineare per prima l’aspetto religioso del termine e con la scuola cinica si giungerà ad affermare che il filosofo è messaggero di Zeus; il termine, così, trova il suo utilizzo nell’indicare autorizzazione divina.  
    Il sostantivo απόστολοσ (apostolos) nella sua accezione tecnica indica la nave da carico, ma può anche riferirsi al comandante di una spedizione marittima o di un gruppo di colonizzatori. Raramente è usato per indicare un inviato, ovvero una singola persona, usandosi in tal caso il vocabolo άγγελοσ. Sarà solo in ambito gnostico che il sostantivo verrà utilizzato con il significato di inviato divino.
    La versione biblica della LXX, la famosa Septuaginta ossia la versione in greco delle scritture ebraiche, usa il verbo greco αποστέλλω ben 700 volte con il significato di investitura di un preciso e delimitato incarico. Essa traduce l’ebraico shlakh (שלה) stendere, inviare (in latito mittere). L’accento è posto sempre su chi invia, su chi conferisce la propria autorità all’inviato.
    In Giuseppe Flavio απόστολοσ “ricorre con sicurezza una sola volta (Ant. 17,300) ad indicare il gruppo o delegazione di giudei inviati da Gerusalemme a Roma alla morte di Erode il Grande per perorare la libertà di vivere secondo le loro leggi”[1].
    Ai tempi di Gesù esisteva la figura giuridica dell’inviato. Recita la Berachot: “L’incarico di un uomo è simile a questi medesimo”[2]. Ancora: “Trascurando la personalità del messaggero o di colui che gli affida l’incarico e l’incarico stesso, l’espressione shliakh sta ad indicare una persona autorizzata ad agire a nome di un’altra”[3]. Tuttavia questi inviati non fungono mai da missionari, non avendo il giudaismo il concetto di missione religiosa come in seguito si svilupperà nel cristianesimo. Il termine, quindi, non assumerà mai il significato di propaganda religiosa e in tal senso non poteva neanche identificare i profeti che parlavano in nome di Jhwh. Come abbiamo visto l’espressione escludeva il conferimento di un incarico permanente che poteva sfociare in una istituzione (come l’utilizzo che ne farà la comunità cristiana); al contrario, esso propendeva per un periodo delimitato e con un contenuto del messaggio o dell’incarico stesso ben preciso.
    Nel Nuovo Testamento il verbo αποστέλλω ricorre 131 volte, 119 delle quali solo nei vangeli e negli Atti. A differenza della Bibbia Ebraica (BH), il Nuovo Testamento usa molto il sostantivo απόστολοσ: ben 79 volte di cui 34 nell’opera lucana (6 volte nel vangelo e 28 volte negli Atti) e 34 volte nelle lettere paoline. Il resto è utilizzato 1 volta nella lettera agli Ebrei, 3 volte nelle lettere petrine, 1 volta in Giuda, 3 volte nell’Apocalisse (2,2; 18,20; 21,14)e 1 volta ciascuna in Matteo (10,2), Marco (6,30) e Giovanni (13,16) con il significato generico di messaggero.
    Salta subito all’evidenza l’uso massiccio riservato da Luca e Paolo al termine. Infatti è con Luca che il vocabolo acquista il significato di un ufficio istituzionalizzato e riservato al gruppo dei Dodici (Δόδεκα, in greco). In tutta l’opera lucana i Dodici hanno un ruolo preminente e prerogative esclusive[4].
    Visto il ruolo importante riservato a questo gruppo, appare quanto meno singolare che il vocabolo apostolo abbia un uso così scarno negli altri tre vangeli. Per usare le parole del Dizionario dei Concetti Biblici del Nuovo Testamento, possiamo dire che “il termine apostolo come designazione dei 12 discepoli è completamente estraneo ai vangeli eccetto Luca”[5].
    Esaminando le lettere paoline che, come ricordiamo sono state redatte prima dei vangeli, possiamo venire a conoscenza dell’evoluzione tecnica del concetto attribuito alla parola apostolo. Innanzi tutto secondo Paolo è Dio che conferisce l’investitura ad apostolo. Dice, infatti, l’Apostolo in più di un’occasione: “Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti” (Gal 1,1); “…rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo…” (Gal 1,16); “Per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome” (Rm 1,5).
    È sempre Dio che comunica il contenuto del messaggio: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso…” (1Cor 11,23a); “E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2Cor 4,6); “Infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,12).
    Inoltre, l’apostolo ha il compito di predicare il vangelo: “Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo…” (1Cor 1,17a). Segni e prodigi sono manifestazioni che accreditano l’apostolo: “…con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito. Così da Gerusalemme e dintorni fino all’Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo” (Rm 15,19); “Certo, in mezzo a voi si sono compiuti i segni del vero apostolo, in una pazienza a tutta prova, con segni, prodigi e miracoli” (2Cor 12,12). L’incarico assunto abilita a predicare in mezzo ai pagani, ad essere missionario; dice infatti l’Apostolo: “E come lo annunzieranno senza essere prima inviati? Come sta scritto: Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene” (Rm 10,15); “Pertanto, ecco che cosa dico a voi, Gentili:  come apostolo dei Gentili, io faccio onore al mio ministero” (Rm 11,13; cfr. anche Gal 2,8).
    Non sembra però che Paolo attribuisca all’essere apostolo una posizione privilegiata in seno alla comunità anzi giudica porre quest’incarico accanto ad altri: “È lui, [Cristo] che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri” (Ef 4,11; cfr. 1Cor 12,25ss; Rm 1,11).
    A rendere la questione più complicata è il fatto che dalle lettere non è possibile stabilire chi possa qualificarsi apostolo. Paolo, infatti, annovera in questo ruolo oltre a se stesso anche Pietro (Gal 1,17ss), Giunia e Andronico[6], Barnaba (Gal 2,1.9.13)[7], Silvano (1Ts 1,1; 2Ts 1,1), Tito e Epafrodito (2Cor 8,23; Fil 2,25). È incerto se Paolo voglia includere anche Giacomo nel novero degli apostoli; le parole di Gal 1,19  in greco “έί μή” tradotte con in italiano “se non” sono ambigue e non rendono comprensibile il testo. “In ogni caso pare che Paolo non applichi mai il titolo di apostolo ai Dodici intesi come un gruppo chiuso; testi come 1Cor 15,7 e Gal 1,17 potrebbero essere riferiti chiaramente ai Dodici discepoli soltanto con un esegesi che muovesse da presupposti lucani”[8]. Tutto questo prova che il vocabolo non ha ancora acquistato l’uso esclusivo che la tradizione successiva attribuirà al termine, riservandolo solo al gruppo dei Dodici. In questa primissima fase della storia della comunità cristiana, la parola “apostolo” designa solo un inviato generico, un messaggero. Continua il Dizionario dei Concetti Biblici del Nuovo Testamento: “Quello che non possiamo sapere, quindi, con certezza è se i tratti dell’apostolato in senso paolino siano anche caratteristici per l’apostolato neotestamentario in generale, se addirittura Paolo annoveri i dodici nel gruppo degli apostoli e quali dimensioni avesse questo gruppo all’epoca degli apostoli”[9].
    Se escludiamo l’opera lucana, i discepoli di Gesù facenti parte del gruppo dei Dodici vengono definiti apostoli solo in Ap. 21,14: “Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello”. Nella lettera agli Ebrei Gesù steso è detto apostolo: “Perciò, fratelli santi, partecipi di una vocazione celeste, fissate bene la mente in Gesù, l’apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb 3,1).  
    A questo punto della trattazione possiamo farci qualche domanda: quando si iniziò a riservare l’uso del termine al gruppo dei Dodici? E in che rapporto è l’apostolato di Paolo con l’accezione che la successiva tradizione riserverà al vocabolo? Possiamo azzardare qualche ipotesi. Paolo poté applicare a se stesso la categoria di apostolo perché in quella prima epoca della comunità cristiana il vocabolo non aveva in sé la pregnanza di significato che gli verrà attribuita in seguito. Le lettere paoline furono composte prima dei vangeli, è bene ricordarlo, e quindi riportano la tradizione più antica. È dal confronto con l’uso che Paolo fa di questa parola che la comunità ha potuto riflettere sul significato da attribuire al vocabolo. “Paolo si vide costretto a fondare il suo apostolato in una maniera tale che se da un lato lo liberava dal giudizio di essere apostolo di second’ordine, dall’altro veniva ad acquistare un peso determinante per la concezione e le pretese dell’apostolato proto cristiano”[10].
    Lo scontro fra Paolo da un lato, la chiesa di Gerusalemme e i giudeo-cristiani dall’altro ha fatto emergere l’uso attuale del termine, rendendolo di esclusivo appannaggio dei Dodici. La chiesa di Gerusalemme notando con quale accanimento Paolo si poneva sullo steso piano dei Dodici nell’attribuirsi il ruolo di apostolo, preferì riservare il vocabolo esclusivamente al gruppo. “Già A. von Harnack aveva sostenuto a suo tempo che il titolo di apostolo era stato riservato al gruppo dei dodici soltanto nel corso della controversia di Paolo con i suoi avversari; da notare, tra l’altro, che Paolo a questo punto si include in questo gruppo, dando così un’espressione fissa e stabile al proprio ruolo… in tal modo la nuova concezione dell’apostolato, che troviamo per la prima volta in Paolo, ebbe come conseguenza che il concetto di apostolo acquistò un senso ben preciso e venne limitato ai dodici e a Paolo. Essi soltanto infatti sono apostoli di Gesù Cristo in senso vero e proprio. Dev’essere stato attraverso Paolo che l’antico concetto di Δόδεκα finì in secondo piano, per far emergere nella chiesa etnico-cristiana la parola apostolo”[11].
    Questo lento processo di riflessione fu poi consacrato da Luca nella sua opera. Lo studioso J. Dupont afferma che “i testi evangelici non permettono di affermare né di supporre che Gesù, fin dalla sua vita terrena, abbia dato ai dodici il titolo di apostoli come una designazione che sarebbe loro propria. L’uso della chiesa primitiva, dove il titolo di apostolo non è riservato esclusivamente ai dodici e dove esso comporta piuttosto una relazione essenziale con la risurrezione di Gesù, dissuade dal cercare l’origine immediata di questo titolo nel periodo evangelico”[12]. Sarà poi il successivo lavoro redazionale degli evangelisti ad inserire il termine così come lo troviamo attualmente.
    Gli apostoli, così, sarebbero degli inviati autorizzati dalle rispettive comunità di origine. Paolo non possiede tale autorizzazione e forse è appunto questo il motivo della sua insistenza sull’essere stato chiamato direttamente dal Signore risorto, del non avere bisogno di presentazioni di alcun genere o di autorizzazioni da parte di capi di comunità. D’altra parte, l’ostinazione di Paolo nel porsi sullo stesso piano degli altri apostoli sembra far supporre un uso del termine già abbastanza strutturato. H. von Campenhausen ritiene che per Paolo “gli apostoli, di cui presuppone come già nata l’idea, sono i predicatori fondamentali del vangelo, investiti di autorità dal Cristo, missionari e fondatori di comunità, costituenti un gruppo più ampio dei dodici apostoli originari e in ogni caso non assimilabili ad essi”[13]. Alla luce di tutto quanto sopra esposto “non si può perciò considerare Paolo come creatore di una nuova concezione dell’apostolo né si possono individuare in lui elementi che possano suggere una limitazione del concetto al gruppo dei dodici: questa avvenne soltanto in epoca successiva a Paolo”[14].
    Quando Luca adopera il vocabolo “apostolo” i primi discepoli di Gesù sono già scomparsi dalla scena. Di loro si comincia ad avere una visione idealizzata, considerandoli i testimoni di Gesù e primi maestri della chiesa. Schmithals ipotizza che il concetto di apostolo possa essere migrato nella chiesa di matrice ellenica da ambienti gnostici infiltratisi ad Antiochia. Egli trova delle analogie quali la missione dell’apostolo, l’identificazione con il Cristo e il suo vangelo. Afferma lo studioso: απόστολοσ e αποστέλλω appartengono alle espressioni tecniche più tipiche e originali della gnosi e possono essere passate al cristianesimo soltanto dalla gnosi, e non viceversa alla gnosi dal cristianesimo”[15].
    La varietà delle ipotesi mostra come il problema sia lungi dall’essere risolto. Rimane ancora una domanda molto importante che aiuta ad inquadrare la giusta prospettiva della questione: se il gruppo dei Dodici apostoli fu istituito da Gesù stesso perché perse così presto la sua importanza tant’è che esistono diversi elenchi di loro e lo stesso libro degli Atti ne menziona solo alcuni? Perché i vangeli di Matteo, Marco e Giovanni non menzionano una istituzione dei Dodici?
    Questo naturalmente ci consente di avanzare delle ipotesi. La prima può benissimo sostenere, senza timore di contraddizioni, che l’apostolato così come lo intendono i Sinottici non può assolutamente venire attribuito ad una investitura da parte del Gesù terreno. Siamo di fronte ad una evoluzione di significato non solo semantico ma anche teologico e disciplinare. È la comunità di Gerusalemme a collegare il gruppo dei Dodici con il vocabolo “apostolo”, facendone una categoria a se stante e distinta dagli altri discepoli e dagli anziani della chiesa gerosolimitana. Sicuramente tale collegamento fu facilitato dalla polemica paolina e per impedire che altri potessero arrogarsi tale prerogativa. Allorché il gruppo dei Dodici si assottigliò fino a scomparire del tutto anche la necessità di circoscrivere tale classe venne meno. Lo stesso Paolo era ormai scomparso dalla scena e le diatribe teologiche investivano altri temi. Per questo, lentamente, si persero anche le notizie biografiche degli stessi appartenenti ai Dodici, da qui la diversità di elenchi e le confusioni di nomi. Sempre da Dizionario dei Concetti Biblici del Nuovo Testamento apprendiamo: “Nell’epoca post-paolina, quando si vide sempre più nei dodici gli unici trasmettitori legittimi del messaggio relativo a Gesù in quanto Cristo, e l’idea si andò progressivamente affermando, si sarebbe poi arrivati gradualmente ad attribuire il titolo di apostolo a tutto il gruppo dei dodici. È possibile, infine, che la limitazione del titolo di apostolo ai dodici sia stata operata da Luca per far di essi i garanti della tradizione legittima”[16].
  L’importanza di questa classe di discepoli del Signore si ripresenterà allorquando la Chiesa si troverà a combattere le eresie che pretendevano di fondarsi sugli apostoli per accreditare le loro idee. Sarà allora che nascerà l’idea del collegio apostolico e della successione apostolica, tanto cara al vescovo Ireneo di Lione, che costituirà il cavallo di battaglia contro le eresie: solo chi poteva vantare un collegamento diretto con gli apostoli possedeva quel criterio di autenticità che contraddistingueva la vera comunità cristiana da sue copie più o meno artefatte. Chiaramente di tutto questo né Pietro, né Paolo, né Giacomo sospettavano nulla, ma questa è un’altra storia.


[1] Op. cit. pag., 108.
[2] Berachot, 5,5.
[3] Dizionario dei Concetti Biblici del Nuovo Testamento, a cura di L. Coenen, E. Beyreuther e H. Bietenhard,  ed. EDB Bologna, 1991, pag. 127.
[4] Cfr. Lc 1,17; 6,13; 24,36; At 1,4.16ss; 6,6; 10,1-11; 15.
[5] Op. cit., pag. 128.
[6] Cfr. Rm 16,7: “Salutate Andronico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia; sono degli apostoli insigni che erano in Cristo già prima di me”.
[7] Interessante è il passo di Atti 14,14 dove l’autore di quest’opera definisce sia Paolo che Barnaba apostoli: “Sentendo ciò, gli apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla…”. Altrettanto interessante è la successione dei personaggi: Barnaba appare un apostolo più importante di Paolo. Come abbiamo sostenuto altrove, in questa fase Paolo è subordinato a Barnaba, il quale ha la qualifica di apostolo anche se non appartiene ai Dodici.
[8] Op. cit., pag. 129.
[9] Op. cit., pag. 130.
[10] Op. cit., pag. 131.
[11] Op. cit., pag. 131.
[12] Op. cit., pag. 131.
[13] Op. cit., pag. 132.
[14] Op. cit., pag. 132.
[15] Op. cit., pag. 133.
[16] Op. cit., pag. 135.

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