domenica 28 dicembre 2014

Il rapporto con i media

“L’ha detto la televisione”, “l’ho trovato su internet”: verità e falsificazione nel mondo  impossibile -  rapporto tra verità e media. Quando Abramo si trovò al cospetto di Dio, che gli comandava il sacrificio del figlio Isacco, era da solo. E quando lasciò i servi ai piedi della montagna, non fece parola con nessuno di quel che Dio gli aveva comandato. Questo perché, secondo il filosofo Jacques Derrida, Dio era stato chiaro nel comandargli il silenzio. “Soprattutto niente giornalisti!”, gli avrebbe detto. Si tratta naturalmente di un paradosso, divertente e insieme acuto: un pretesto per attirare l’analisi sull’uso dei media nel campo aperto della riflessione filosofica e rileggere la prima con gli strumenti della seconda, addentrandosi nel mai esaurito rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione mediatica. “E’ necessario che la prova che ci tiene uniti non diventi una notizia. È  necessario che questo evento non diventi una notizia, né buona né cattiva”. Secondo il filosofo francese il motivo è semplice: tutto ciò che viene detto di un fatto non è più il fatto stesso e, dunque, in qualche misura lo tradisce. Difficile negarlo. In un cerro senso proprio questa presa diretta sulla realtà è ancora più falsante perché il filtro fra noi e lei sembra assottigliarsi fino a scomparire e invece è sempre lì e noi rischiamo di dimenticarcene. la protesta contro la tecnica è uno dei significati principali di questa tecnica che chiamiamo televisione e che sostiene di restituirci la cosa in sé , diversamente da tutti gli altri media che lo fanno in differita. Insomma, quello tra media e verità è sempre un rapporto a rischio, il quale sta innanzitutto nell’ambiguità tra ciò che viene detto o mostrato e la sua aderenza alla realtà. Ambiguità che non solo i media ma gli stessi fruitori alimentano, assegnando a giornali e tv un potere assoluto sulla verità. Un maggior spirito critico dei secondi e un più costante esercizio di  responsabilità nei primi, possono contribuire a rendere un miglior servizio alla verità, e perciò a noi stessi che, ben lontani dall’imperativo derridiano, abbiamo bisogno continuamente di notizie, di qualcuno che ci descriva fatti, che ci riporti opinioni. E, ben sapendo che tutte queste informazioni non costituiscono mai la verità, vogliamo però che le si avvicinino il più possibile. La ricerca della verità passa sempre attraverso una capillare e precisa informazione (cfr Lc 1,1-4).

Io sono la Porta

Le porte si aprono e si chiudono, ovviamente! Indicano l’ingresso ma anche la chiusura, attraverso di esse si entra e si esce. Nella Bibbia, sia nella Prima Alleanza che nel Nuovo Testamento, l’immagine della porta è utilizzata spesso in tutta la ricchezza della sua simbologia. Varcare le porte di Gerusalemme, per andare incontro al Signore nel Tempio, era la più attesa delle aspirazioni di ogni buon israelita (cfr. Sal 122,9). Indicava la gioia profonda di entrare nel luogo del Signore, nella sua Casa, là dove poteva ritrovar la shalom-pace, l’armonia e il perdono. Giacobbe nel famoso sogno della scala raccontatoci in Gn. 28,11-22, fa l’esperienza della presenza di Dio, si affaccia nella sua casa: “Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!” (v. 17). Quel luogo sarà chiamato appunto Betel, cioè la Casa del Signore. In una parola, per incontrare Dio è necessario mettersi in cammino, lasciarsi alle spalle il proprio luogo ed entrare nel suo spazio, nella sua casa, che peraltro ha la porta spalancata. Il NT allarga e, in un certo senso sconvolge, la metafora della porta: non è l’uomo che “per primo” si è messo in cammino (cfr. 1Gv 4,19), ma è Dio stesso che nel suo Figlio Unigenito entra nella storia umana attraversandone la porta. L’uomo è così divenuto lui stesso lo spazio di Dio, il luogo santo, il vero tempio, dove prende dimora e si manifesta la Gloria di Dio. La gloria di Dio è l’uomo vivente (Ireneo di  Lione)! Nella persona di Gesù, Figlio di Dio e figlio di Maria e Giuseppe, l’immagine della porta giunge alla sua pienezza e trova l’inimmaginabile e ineguagliabile coincidenza: per mezzo di Cristo l’Eterno Dio entra nel tempo per venire incontro all’uomo e l’uomo “solo” attraverso di Lui può incontrare Dio: “Io sono la porta; se uno entra per me, sarà salvato” (cfr. Gv 10,1-11). Al di là, dunque, della ricchezza e della pluralità di significato che la Parola di Dio lega all’immagine della porta, il messaggio unificante è che essa in primo luogo indica apertura, possibilità di incontro, disponibilità ad accogliere. Il Signore ha la sua porta sempre aperta, spalancata; con molta onestà dobbiamo riconoscere di non poter dire altrettanto di noi! La chiusura, il rifiuto, la privacy, sembrano definire con più verità le nostre porte. Anzi, spesso proprio noi cristiani teniamo chiuse anche le porte delle nostre chiese e impediamo addirittura al Signore di uscire per strada e andare incontro agli uomini. Qualunque sia la nostra situazione spirituale mettiamoci in ascolto di quanto ancora una volta ci annuncia la nascita del Salvatore: il Natale del Signore ci ricorda il suo umile ingresso nella nostra storia, ci invita ad entrare senza timore nella sua e ci spinge con dolce fermezza ad aprire, a spalancare le tante nostre porte, spesso sbarrate e blindate. Cominciano da quella principale, la porta del cuore!

La benedizione di Aronne

Iniziare la giornata con l’auspicio che Dio ci sia propizio è indubbiamente una bella carica di energia spirituale. Tutto sembra più facile, ogni angolo oscuro della strada è illuminato dalla luce del suo volto e quindi si cammina spediti e senza tentennamenti. Bisogna però arrivare alla sera e talvolta col passare delle ore la luce svanisce e il volto di un Dio propizio sembra scomparire nell’ombra. Il passo allora si fa incerto e si palesa sempre più chiaramente il desiderio di qualche altra formula propiziatoria, magari più efficace di quella con cui è iniziata la giornata. La cosiddetta benedizione di Aaronne (Numeri 6, 24-26) è tutt’altro che una semplice formula propiziatoria. In ebraico è essa si chiama Brirkat Kohanim, vale a dire “Benedizione sacerdotale”. Nell’ambito ebraico con questa benedizione si concludono – ancora oggi – i momenti più solenni della vita comunitaria. Il concetto centrale di questa formula è la pace. Il termine ebraico shalom non esprimere soltanto la prosperità di un tempo in cui si sono spente le grida di guerra. Shalom è la perfetta armonia che nasce dal compimento della volontà dell’Eterno. Una vita all’insegna della perfetta armonia è il più antico e il più grande desiderio dell’umanità intera e di ogni singola persona. In questo senso si può parlare di una grande benedizione (o di una benedizione originale che si contrappone al peccato originale) promessa da Dio. Non di rado succede però che una benedizione liturgica sia intesa come una semplice legittimazione di un desiderio umano. In tal caso siamo di fronte a una pura superstizione. La benedizione di Aaronne non è una certificazione rituale di un desiderio umano. Al contrario: si tratta di un’affermazione solenne di una libera e consapevole sottomissione alla volontà di Colui che è l’unico vero artefice della pace.