sabato 28 gennaio 2012

Tolleranza: una parola abusata.

Tolleranza: una parola abusata.

Tolleranza significa un atteggiamento aperto e disponibile a riconoscere legittimità alle idee e ai comportamenti diversi dai nostri, significa accettare la libera manifestazione di ogni forma di pensiero, ideologia, convinzione religiosa anche radicalmente lontana da quella da noi condivisa. Dal punto di vista storico, la sensibilità alla tolleranza si è sviluppata nell’età moderna ma alcuni precedenti significativi avevano avuto luogo già nel mondo antico: ad esempio la critica elaborata dai Sofisti contro il concetto di civiltà quale monopolio di un solo gruppo, i Greci, in contrapposizione agli stranieri, ai barbari, tradizionalmente considerati “incivili”. Con particolare chiarezza all’interno della scuola sofistica, Protagora afferma la relatività dei valori e dei criteri di valutazione: ciò che appare giusto e morale a un popolo può apparire ingiusto ed immorale ad un altro, come dimostra la molteplicità di leggi, abitudini, comportamenti. Ed è proprio a causa di queste diversità che risulta impossibile fissare criteri di valore che si adattino ugualmente ai diversi gruppi umani. Considerazioni analoghe si ritrovano presso la scuola stoica, i cui membri sostengono l’esistenza di diverse tradizioni culturali che si innestano sulla comune base dei diritti naturali, cioè di norme di convivenza e di costumi originari caratterizzanti ogni comunità umana.
La diffusione del cristianesimo porta con sé elementi in deciso contrasto tra loro. Da una parte, affermando l’uguaglianza di tutti gli uomini in quanto figli di Dio, invita alla più totale disponibilità nei confronti dei propri simili; dall’altra, accentuando la propria unicità di fronte alle altre confessioni religiose e l’esclusiva veridicità del proprio Dio, tende ad assumere atteggiamenti di intolleranza verso gli altri, fino al ricorso a strumenti di violenza: le persecuzioni, le guerre. Atteggiamenti integralisti assumerà più tardi anche l’altra grande religione monoteista del bacino mediterraneo, l’Islam, come drammaticamente si verifica ancora oggi. L’altra religione monoteista, la terza e cioè l’Ebraismo, aveva già dato prova della propria intolleranza verso i culti stranieri nei secoli passati, come ben documenta l’AT.
Da questo conflitto interiore, ossia tolleranza del messaggio cristiano ed intolleranza derivante dalla sua unicità, si formerà poco per volta l’esigenza del confronto, della comprensione delle diversità e in ultima analisi, il riconoscimento del valore della tolleranza. Un importante contributo venne dalla cultura dell’Umanesimo che, a partire dall’Italia del XIV sec., si diffuse successivamente in tutta Europa. I pensatori umanisti si raccolsero in circoli e cenacoli, riunioni informali di uomini colti, liberi e spregiudicati, amanti della vita e dell’autonomia spirituale, accomunati dal desiderio di discutere insieme e fare cultura, per educarsi nel rapporto reciproco e nell’abitudine al vicendevole rispetto. Alla base vi era un’impostazione laica della ricerca che punta lo sguardo sui problemi umani degli individui e della società nelle dimensioni concrete della vita terrena. Lo studio deve concorrere ad una sempre migliore conoscenza della natura degli uomini e perciò al loro perfezionamento, all’affermazione della ragione come strumento di indagine, alla conquista della libertà intesa come pieno possesso di sé e del proprio agire, alla libera convivenza civile. Nello stesso tempo le scoperte geografiche, che subirono una vera e propria esplosione favorendo la conoscenza di civiltà e culture diverse da quella europea, avviarono la riflessione verso nuove problematiche.
Anche le vicende religiose che caratterizzarono l’inizio dell’età moderna giocarono un ruolo importante nella progressiva crescita del concetto di tolleranza. La riforma luterana ed il conseguente scisma della cristianità determinarono inizialmente duri scontri tra le diverse confessioni che sfociarono nella violenza fisica. L’Europa del Cinquecento e della prima metà del Seicento conobbe la dolorosa realtà delle guerre di religione. Tuttavia, proprio l’esasperata asprezza dei contrasti suscitò la preoccupata reazione di alcuni intellettuali che si fecero portatori di ideali di pace, di civile convivenza, di reciproco rispetto. Erasmo da Rotterdam denunciò la follia irrazionale della violenza, della guerra, dell’intolleranza; Tommaso Moro, Tommaso Campanella, Francesco Bacone nelle loro opere utopiche costruirono immagini di mondi ideali dove gli uomini vivevano liberi e sereni, laboriosamente impegnati a costruire insieme una società di giustizia e uguaglianza. Più specificamente Tommaso Moro, nelle pagine dell’Utopia, affermò con vigore l’esigenza del massimo rispetto delle convinzioni altrui, in primo luogo di quelle religiose: nessun uomo dev’essere costretto ad accettare determinate idee; se un’idea è migliore delle altre si imporrà naturalmente, grazie al suo intrinseco, autentico valore.
Con lucida coscienza, passando in rassegna i più diversi costumi degli uomini, Michel de Montaigne sottolineò la relatività dei valori e giudizi di principi. Nella nostra ricorrente chiusura mentale, barbari appaiono sempre gli altri, i diversi, gli artefici di una cultura estranea. Ciò che appare lontano dalla consuetudine viene di fatto giudicato lontano dalla ragione, cadendo così nell’irragionevolezza, mentre gli insegnamenti e i principi della verità sembrano sempre rivolti agli altri, mai a noi stessi; a quegli altri che, verosimilmente, vedono noi come barbari e strani, allo stesso modo in cui noi li valutiamo secondo un’ottica esclusivistica.
A Montaigne fece eco il conterraneo Cartesio. Egli ricorda i molti viaggi compiuti, impegnato a conoscere ambienti a lui non usuali, a frequentare gente di altra condizione, a far tesoro di esperienze diverse. Da questi viaggi, dall’incontro con i costumi di altri popoli, “il maggior profitto che ne cavavo era nel vedere accolte e approvate da altri grandi popoli molte cose che a noi sembravano stravaganti e ridicole, pe cui imparavo a non prestare troppa fede a nulla di cui mi si volesse persuadere soltanto con l’esempio e l’abitudine. Mi venni così liberando a poco a poco di molti errori che possono offuscare il nostro lume naturale e renderci meno capaci di ragionare”. Cartesio invita a seguire le leggi e i costumi in una determinata società, quella in cui viviamo, non perché più veri e giusti ma perché ci consentono una felice convivenza nel nostro ambiente. Egli invita, inoltre, a regolarci “secondo le opinioni più moderate, lontano da ogni eccesso, comunemente seguite dalle persone più assennate” con le quali ci troviamo a convivere. Il riferimento alla moderazione è significativo perché sottintende il rifiuto di ogni fanatismo e dogmatismo, di ogni contrapposizione radicale che non lasci spazio al libero gioco del confronto delle idee e delle opinioni: comincia ad intravvedersi, in queste parole, la figura della tolleranza.
Un contributo importante venne da quegli ambienti che si sforzarono di approfondire il tema dei rapporti tra fede e tolleranza. Si trattò di ambienti che fecero per lo più riferimento alle idee erasmiane, favorevoli alla libera discussione dei dotti su argomenti di carattere religioso e decisamente contrari all’uso della violenza nelle controversie dottrinali. Da qui vennero accorati appelli al superamento di ogni dissidio riguardante la fede così che cristiani, ebrei, musulmani possano comprendersi reciprocamente, confrontare in pace le reciproche posizioni, imparare l’uno dall’altro, rifiutando ogni forma di disprezzo e di forzata contrapposizione. Soprattutto vivo fu in questi circoli, che si ispiravano ad Erasmo, il rifiuto di contrasti e lotte interni alla comunità cristiana. Fuori dalla cristianità, infatti, tali fenomeni non potevano non apparire dannosi e controproducenti per la buona fama dell’Evangelo e del messaggio di Cristo. bisognava porre fine allo spettacolo scandaloso e triste di cristiani che si combattevano fra loro, immemori della verità comune; la sapienza non può andare disgiunta dalla carità, che è sforzo di comprensione delle ragioni altrui. Come si poteva pensare di diffondere la buona novella se coloro che intorno ad essa si raccoglievano, invece di aiutarsi reciprocamente, si combattevano?
Un decisivo passo in avanti nell’elaborazione del concetto della libertà umana nel pensare e nell’aderire ad una confessione religiosa venne compiuto da Spinoza, il quale affermò che il fine primario dell’organizzazione politica e di quella religiosa è di difendere e garantire all’uomo la libertà di pensiero, usando argomenti nuovi legati alla logica mercantile. Nella libera città di Amsterdam, affermò, “convivono in perfetta armonia uomini di tutte le nazionalità  di tutte le religioni”; ciascuno viene giudicato in base alle sue competenze, alla sua capacità di correttamente, alla sua bravura professionale, non in base alla religione o alla setta cui appartiene. Anche il filosofo inglese John Locke sottolineò l’importanza della libera scelta nelle cose di fede e il significato controproducente dell’uso della forza, in quanto nessuno può essere salvato suo malgrado: “Se qualcuno vuole accogliere qualche dogma, o praticare qualche culto per salvare la propria anima, deve credere pienamente che quel dogma è vero e che il culto sarà gradito e accetto a Dio; ma nessuna pena è in nessun modo in grado di instillare nell’anima una convinzione di questo genere”. Locke sviluppò alcune considerazioni fondamentali sulla libertà di coscienza; l’idea di tolleranza scaturì dall’analisi parallela del concetto di Stato e del concetto di Chiesa e venne visto come il punto di convergenza delle loro funzioni e dei loro rispettivi interessi. Lo Stato è una società di uomini costituita allo scopo di tutelare i beni civili, ad esso non compete invece ciò che concerne la salvezza dell’anima. A questo fine tende la Chiesa, come “libera società di uomini che si riuniscono spontaneamente per onorare in pubblico Dio nel modo che credono sarà accetto alla divinità”. Proprio perché società libera e volontaria, la Chiesa non si occupa di beni civili o terreni, né può fare ricorso a strumenti coercitivi, in quanto l’impiego della forza, quando necessario, compete soltanto al magistrato civile.
Le conquiste del pensiero liberal-democratico condussero così al definitivo riconoscimento del principio della libertà religiosa e correlativamente all’ideale della tolleranza. Nell’ambito dell’illuminismo questi motivi vennero variamente sviluppati e articolati. L’impegno ad esercitare la ragione umana in modo libero e pubblico ai fini di un generale miglioramento della vita collettiva comportò una lotta a fondo contro i pregiudizi, le superstizioni, gli errori ideologici tramandati di generazione in generazione, i settarismi e le chiusure mentali di ogni genere. Le rivendicazioni dei diritti naturali, l’esaltazione della felicità come la situazione in cui gli uomini realizzano, in pace, i propri bisogni materiali e spirituali, il rifiuto del fanatismo, il progetto di uno Stato laico, fecero da sfondo alle diverse riflessioni sulla tolleranza, sul vicendevole rispetto, sui diritti dell’uomo come valore fondamentale in ogni momento e situazione. Un esempio di ciò sono le argomentazioni di Cesare Beccaria contro l’uso della tortura e della pena di morte nella pratica legislativa: se la pena di morte appare “come una guerra della nazione contro il cittadino”, la tortura si rivela non solo illegittima ma anche inutile, perché è assurdo pensare che “il dolore divenga il crogiuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile”.
Una netta presa di posizione contro il dogmatismo e l’intolleranza ebbe luogo in Voltaire, il quale denunciò i gravi pericoli prodotti dal dogmatismo e dalle dispute assolutiste. Gli uomini devono imparare a capirsi fuori delle chiusure ideologiche, innanzi tutto i cristiani fra loro ma anche tutti coloro che si riconoscono in fedi e tradizioni religiose diverse: cristiani, turchi, ebrei, cinesi, siamesi, perché gli uomini, al di là delle differenze immediate, sono tutti fratelli in quanto figli dello stesso Padre, creature dello stesso Dio. Il disegno della tolleranza universale è così portato a compimento nell’ambito di un nuovo progetto di valorizzazione della razionalità umana.
Nonostante tragiche sopravvivenze del passato – in pieno Settecento illuministico ancora si processano e si bruciano le streghe – e il tenace persistere di vecchie convinzioni, almeno sul piano dell’elaborazione teorica il concetto di tolleranza può dirsi ormai una conquista realizzata. L’approfondimento di conoscenze storiche ed etnologiche nel corso dell’Ottocento apportò ulteriori conferme mentre la cultura novecentesca fece del principio della tolleranza un fattore universalmente riconosciuto e variamente fissato in statuti e prese di posizione internazionali. Alcuni pensatori contemporanei nelle loro riflessioni sulla società democratica hanno contribuito, in tempi recenti, a rivitalizzare in una nuova prospettiva la tematica della tolleranza. Essi, infatti, evidenziando l’importanza del dialogo e del libero confronto come via legittima esclusiva per costruire una società di uomini liberi ed uguali e una dimensione di pace fra i diversi popoli, si sono idealmente congiunti a tutti coloro che, nel corso del pensiero moderno, avevano faticosamente contribuito a costruire la speranza in un mondo basato sulla libera scelta ideologica e il rispetto reciproco fra gli uomini. la cosiddetta “fine delle ideologie”, abbattendo solidi steccati e mettendo fine a storiche contrapposizioni, ha aperto la via ad un più libero confronto fra i diversi popoli del mondo.
Gli uomini di buona volontà trovano oggi un terreno più favorevole ai loro sforzi di reciproca comprensione e di rispetto delle diverse esigenze culturali. La Costituzione italiana sancisce l’idea di tolleranza negli artt. 3 e 8. È bene riportare in stralcio ciò che recitano tali articoli: Art 3 “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali…”. Art. 8 “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano…”.

venerdì 27 gennaio 2012

Si deve temere l'ira di Dio?

Dobbiamo temere l’ira di Dio?

L’espressione ira di Dio, nella teologia biblica cristiana, indica la radicale opposizione, l'intolleranza, manifestata da Dio verso tutto ciò che è peccato. Sebbene l'amore sia inerente alla natura del Dio cristiano, la sua ira è qualcosa che viene suscitato dalla malvagità delle creature umane. Il peccato offende gravemente il suo amore e la sua benignità, è un affronto alla sua misericordia. Esso, quindi, suscita la sua legittima ira. L'ira di Dio è considerata dalla Bibbia come un'opera "singolare" ed "inaudita" (Is 28,21). La misericordia di Dio è inerente al suo stesso carattere (non l'effetto della bontà umana), ma l'ira di Dio è effetto del peccato.
L'ira di Dio non è una retribuzione impersonale ed automatica del peccato, una legge astratta, come da un semplice processo di causa ed effetto. L'ira di Dio, nell'AT è espressione della libera, soggettiva e personale volontà di Dio che attivamente punisce il peccato. Nel NT, allo stesso modo, l'ira di Dio è una reazione personale di Dio, non un'ipostasi indipendente.
Di fronte al male Dio non sfugge alla responsabilità di eseguire il suo giudizio. A volte egli dimostra la sua ira nel modo più personale:
« Ora, fra breve, rovescerò il mio furore su di te e su di te darò sfogo alla mia ira. Ti giudicherò secondo le tue opere e ti domanderò conto di tutte le tue nefandezze. Né s'impietosirà il mio occhio e non avrò compassione, ma ti terrò responsabile della tua condotta e saranno palesi in mezzo a te le tue nefandezze: saprete allora che sono io, il Signore, colui che colpisce. »   (Ez 7,8-9)

Nel NT, brani come Gv 3,36 Rm 1,18, Ef  5,6, Col 3,6, Ap 19,15, 11,18, 14,10, 6,16 16,19, cfr. Rm 9,22, essa è specificatamente descritta come ira di Dio, la Sua ira, la Tua ira, o l'ira dell'Agnello. La lettera ai Romani è molto esplicita sull'ira di Dio (Rm 1,18-2,6)

Nella seconda lettera ai Tessalonicesi, l'apostolo Paolo non lascia alcun dubbio pure sull'espressione ultima dell'ira del Cristo:
« ...e a voi, che ora siete afflitti, sollievo insieme a noi, quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo con gli angeli della sua potenza in fuoco ardente, a far vendetta di quanti non conoscono Dio e non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Costoro saranno castigati con una rovina eterna, lontano dalla faccia del Signore e dalla gloria della sua potenza, »   (2Tess1,7-9)

Quando la Bibbia rappresenta l'ira di Dio, essa non è tanto un'emozione o uno stato psicologico alterato, quanto la netta opposizione fra santità e peccato. Di conseguenza, l'ira di Dio si vede dagli effetti che produce, nel fatto che Dio punisca il peccato sia in questa vita che nella prossima. Questi giudizi includono pestilenza, morte, esilio, distruzione di città malvagie, indurimento del cuore e l'esclusione di persone dal popolo di Dio a causa della loro idolatria o incredulità.
L'ira di Dio raggiunge l'aldilà. Questo lo si vede chiaramente quando Gesù descrive il castigo eterno, l'inferno di fuoco,
« ... dove il verme loro non muore e il fuoco non si spegne. »   (Mc 9,48)

Il giorno della finale ira di Dio sul peccato, il giorno del giudizio contro il peccato è la sua condanna irrevocabile del peccatore impenitente.
L'ira di Dio nell'AT è controbilanciata dalla descrizione che fa del Signore come
« ...lento all'ira e grande in bontà, perdona la colpa e la ribellione, ma non lascia senza punizione; castiga la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione. »   (Nm 14,18)

Cfr. Isaia 54,7-10, oppure Salmo 30(29),5(6)
« perché la sua collera dura un istante, la sua bontà per tutta la vita. Alla sera sopraggiunge il pianto e al mattino, ecco la gioia. »

(CEI) 29,6, (Nuova Riveduta) 30,5
Di conseguenza, il modo per sfuggire alla legittima ira di Dio è abbondantemente presente sia nella tradizione ebraica che in quella cristiana. È l'amore di Dio che provvede alla creatura umana una via di fuga. Egli chiama le creature umane a ravvedersi dai loro peccati per ricevere perdono e riabilitazione. Egli riceve l'intercessione di Abramo, Mosè, Eleazar, Geremia in favore del popolo peccatore e stabilisce (nell'AT il sistema sacrificale mediante il quale la sua ira può essere fatta cessare. Nel NT sono gli appelli alla fede, al ravvedimento, e al battesimo nel nome del Signore (che ci salva dall'ira a venire, cfr. 1,9-10.
L'apostolo Paolo scrive a proposito della fede in Cristo:
« Tanto più dunque, essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall'ira. Se infatti, mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio mediante la morte del Figlio suo, tanto più ora, che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. »   (Rm 5,9-10)

La parola più impressionante che la Bibbia usa al riguardo del castigo che Dio intende infliggere al peccatore è quella che riguarda "l'ira dell'Agnello" (Gesù Cristo) che pure prende su di sé i peccati del mondo.
(la prima parte dell’articolo è tratta da Wikipedia)
Nell’AT non troviamo espressioni filosofiche a proposito di Dio ma, al contrario, Dio viene presentato come una persona avente l’aspetto, la forma, i gesti di un’esistenza corporea pur venendo descritto infinitamente al di sopra dell’uomo; ciononostante non viene mai detto che Dio abbia un corpo materiale. Tuttavia i suoi atti e il suo aspetto vengono presentati come se avesse un corpo. Dio ha una faccia dalla quale ci si può nascondere: “Ecco, tu mi scacci oggi dalla faccia di questo suolo e sarò nascosto dalla tua faccia; e sarò vagabondo e fuggiasco per la terra, e avverrà che chiunque mi troverà mi ucciderà” Gn 4,14-16[1]). L’espressione “faccia a faccia” suppone una persona della quale si può vedere volto: Or il SIGNORE parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla col proprio amico” (Es 33,11; Dt 34,10). Vi sono altre espressioni che evidenziano come Dio mostri il suo volto all’uomo, finanche al peccatore: Nm 6,25-26; Lv 20,3. A Dio vengono, in tal modo, attribuiti occhi, naso,faccia, bocca, denti, labbra, lingua, orecchie. Dio vede, guarda, ascolta,si affatica, si riposa: Ecco, colui che protegge Israele non sonnecchierà né dormirà” (Sal 121,4; cfr. 78,65).
L’attribuire a Dio pensieri e sentimenti umani crea più difficoltà: infatti i sentimenti sono impalpabili e non è possibile riferirli a Dio se la sua esistenza è concepita in modo puramente spirituale; ma se Dio è considerato sotto l’aspetto umano, diventa possibile definirgli dei sentimenti. È quello che si constata nell’AT allorché gli scrittori sacri vogliono presentare le varie espressioni del pensiero divino. Tutto ciò è quello che gli studiosi definiscono antropomorfismo. Non si va alla ricerca di termini particolari da applicare solo a Dio ma si utilizzano termini semplici, lo stesso linguaggio col quale si fanno conoscere i sentimenti umani. Così Dio ama, conosce, si pente, prova piacere, ricompensa, disprezza, respinge, odia, si vendica.
Tra gli altri sentimenti provati da Dio vi è la gelosia: “Io Jhwh, tuo Dio, sono un Dio geloso” (Es 20,5). I testi biblici mostrano che la gelosia di Dio si manifesta comunemente a proposito del culto agli idoli o alle divinità pagane, che secondo la concezione veterotestamentaria viene assimilata alla prostituzione. Anche questo sentimento viene antropomorfizzato: è come la gelosia di un marito verso la moglie che ha molti amanti: tu non adorerai altro dio, perché il SIGNORE, che si chiama il Geloso, è un Dio geloso” (Es 34,14; cfr. Dt 32,16-17; 4,24; 5,9; 6,15.
Ma Dio diviene geloso non solo a causa dell’idolatria ma anche a causa del peccato e della disobbedienza. La sua gelosia diventa sinonimo di ira: “Il SIGNORE non gli perdonerà; ma in tal caso l'ira del SIGNORE e la sua gelosia s'infiammeranno contro quell'uomo, tutte le maledizioni scritte in questo libro gli verranno addosso e il SIGNORE cancellerà il suo nome sotto il cielo” (Dt 29,19). Espressioni del genere assumono in molti casi un valore generale in quanto espongono la gelosia di Dio che si manifesta contro il suo popolo, contro una categoria o contro una singola persona, ed anche contro nazioni pagane che si schierano contro Israele. In certi casi la parola ebraica “gelosia” assume il senso di “zelo”; in tal caso il significato è opposto alla gelosia: mentre questa si manifesta contro il popolo di Dio, lo zelo è contro i nemici di Israele e in favore di questi. Un esempio di questo uso interscambiabile dei termini si trova in Is 9,1-6: il brano termina con questo farà lo zelo del SIGNORE degli eserciti” mentre la versione Diodati riporta “La gelosia del Signore degli eserciti farà questo”[2]. Tale scambio si giustifica con il fatto che Dio è geloso del suo Nome e dispiega il suo zelo per far risplendere la sua gloria (cfr. Ez 39,25; Is 26,11; 37,32; Gl 2,18; Za 1,14; 8,2).
È curioso osservare come i testi della Bibbia nei quali è detto che Dio prova piacere o gioia sono straordinariamente pochi di fronte a quelli nei quali si parla della sua collera. Il motivo potrebbe essere che nelle relazioni tra Dio è l’uomo è prevalente la disobbedienza e il peccato rispetto alla fedeltà. Dunque, nell’AT Dio è presentato più come un giudice severo che come padre amorevole: entrambi gli aspetti coesistono ma l’aspetto maggioritario è a favore dell’aspetto giudiziario. Da qui si comprende perché è così frequente parlare dell’ira di Dio: non vi è praticamente libro dell’AT ove non si parli di ciò.

Cause dell’ira dell’uomo.
Le stesse espressioni usate per l’ira umana ricorrono per descrivere l’ira divina; anzi questa ha una frequenza di ben tre volte superiore alla prima. L’ira dell’uomo è generalmente rivolta verso altri uomini; le sue  motivazioni sono molteplici ma è sempre vista come qualcosa di negativo: “Perché nella loro ira hanno ucciso degli uomini e nella loro malvagità hanno tagliato i garretti ai tori. Maledetta la loro ira, perché è stata violenta e il loro furore perché è stato crudele!Io li dividerò in Giacobbe e li disperderò in Israele” (Ge 49,6-7; cfr. Ge 4,5-7; 27,45; 30,2; 39,19; Es 16,20; 32,19; 2Re 13,19). Nei libri di Giobbe e Proverbi ricorre sovente il giudizio negativo sull’ira degli uomini: “La pietra è grave e la sabbia pesante,ma l'irritazione dello stolto pesa più dell'uno e dell'altra. L'ira è crudele e la collera impetuosa; ma chi può resistere alla gelosia?” (Pr 27,3-4; 30,33; 17,27; 14,17.29).
Vi sono anche casi, sebbene siano assai rari, in cui troviamo l’ira degli uomini rivolta verso Dio: in tali casi la motivazione è sempre la difficoltà da parte dell’uomo a comprendere le vie di Dio “Davide fu grandemente amareggiato perché l'Eterno aveva aperto una breccia nel popolo, colpendo Uzzah. Così quel luogo fu chiamato Perets-Uzzah fino ad oggi”(2Sam 6,8 nuova Diodati; cfr. Ge 4,5; Gn 4,1.9).

Cause dell’ira di Dio.
Al contrario delle motivazioni dell’ira umana, le motivazioni dell’ira divina non sempre sono altrettanto chiare; casi emblematici sono la lotta notturna di Giacobbe (Ge 32,23-33) e la circoncisione del figlio di Mosè (Es 4,24-25). Nella stragrande maggioranza dei casi l’ira divina è suscitata dall’agire dell’uomo. Una causa generale è rappresentata dalla singolare relazione di Israele rispetto a Dio a motivo dell’alleanza e delle condizioni annesse. Spesso i testi menzionano espressamente sia l’alleanza che le infedeltà del popolo: “Perché hanno abbandonato il patto del SIGNORE, Dio dei loro padri: il patto che egli stabilì con loro quando li fece uscire dal paese d'Egitto…il SIGNORE li ha divelti dal loro suolo con ira, con furore, con grande indignazione e li ha gettati in un altro paese, come oggi si vede” (Dt 29,24.27).
Altre volte la causa dell’ira è, come già detto, l’idolatria, che va intesa anche in senso figurato; il Deuteronomio, ad esempio, designa questa infedeltà con un termine tecnico della teologia di questo libro: la disobbedienza (cfr. Nm 11,33).
Tra le cause dell’ira divina non mancano le motivazioni sociali e il comportamento ingiusto verso gli altri uomini : “Non affliggerete la vedova, né l'orfano.  Se in qualche modo li affliggi, ed essi gridano a me, io udrò senza dubbio il loro grido;  la mia ira si accenderà, io vi ucciderò con la spada, le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani” (Es 22,22-24).
Oltre che nei testi legislativi, la motivazione dell’ira divina contro Israele sono maggiormente rimarcate dai profeti (Is 1,15-20; Ger 5,28; Am 5,7.10-12; Mi 3,1). Tra le cause dell’ira è menzionata a volte la dimenticanza degli obblighi dell’alleanza, il culto mescolato all’idolatria, il senso ingiustificato di sicurezza nel tempio di Gerusalemme: in pratica l’arroganza di credersi a posto con il Signore solo perché si appartiene al popolo eletto (cfr. Ger 6,14; 7,4; Ez 13,10-12).
Per quanto riguarda l’ira di Dio contro i popoli, si nota una forte ambivalenza nei testi: da una parte essi vengono puniti perché nemici di Israele (Ger 46-51; Ez 25-32); dall’altra queste stesse nazioni vengono presentate come strumento dell’ira di Jhwh per punire il suo popolo:  “Guai all'Assiria, verga della mia ira!
Ha in mano il bastone della mia punizione”
(Is 10,5; 13,5; Ger 50,25; Lam 3,1).

Alcune considerazioni sull’ira di Dio.
Colpisce la mancanza di riluttanza a parlare dell’ira divina da parte degli scrittori sacri, anche ricorrendo ad immagini vivide e fantasiose quali le fiamme sprigionantisi dalle narici (Is 13,13; 30,30; Mi 7,9; Dt 3,26; Ger  7, 29; Ez 21,36). Tra queste espressioni pittoresche non mancano sentimenti di odio e vendetta. Duplice è la direzione della vendetta di Dio: contro il suo popolo a motivo delle infedeltà; contro i popoli vicini per le ingiurie ed il sangue versato tra il popolo di Dio. Jhwh è un “Dio della vendetta” (Sal 94,1). Il giorno del giudizio è spesso definito come “giorno della vendetta” : “Questo giorno, per il Signore, per il DIO degli eserciti, è giorno di vendetta, in cui si vendica dei suoi nemici. La spada divorerà, si sazierà, si ubriacherà del loro sangue; poiché il Signore, DIO degli eserciti, immola le vittime nel paese del settentrione, presso il fiume Eufrate” (Ger 46,10; cfr. Is 61,2; 63,4). È detto che, nella sua ira, Jhwh odia, disprezza, ha in abominio coloro che si volgono contro di lui (Dt 1,27; 9,28; Pr 3,32; Am 5,21).
Quali che siano le concezioni teologiche, semplici o evolute, e le immagini usate, si parla sempre dello stesso Dio che viene presentato in contatto diretto e personale con l’uomo: gli parla, gli mostra il suo amore, la sua giustizia, ma anche la sua ira. Questo è il Dio della Bibbia, non quello dei filosofi, impassibile davanti agli eventi umani. Questa crudezza di immagini è anche un preludio alla fondamentale dottrina dell’incarnazione. Il Dio tratteggiato nell’AT quasi ad immagine dell’uomo è lo stesso che, al tempo stabilito, si è abbassato incarnandosi in Gesù: “E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi” (Gv 1,14). Davanti ad espressioni così umane si può certo ricordare che l’antropomorfismo dell’AT ha il suo naturale prolungamento nell’incarnazione: in essa ha compimento quanto fino ad allora non era che espressione verbale. Gli scrittori dell’AT sono sempre legati alla terra, hanno conosciuto le asperità e le difficoltà del vivere umano, perciò sono immersi nel vissuto concreto che non le speculazioni filosofiche. Il loro Dio che si adira e che odia non è il Primo Motore Immobile di Aristotele ma il Dio del NT e che verrà presentato come “amore” (1Gv 4,8; Rm 8).
Da quanto emerso sull’ira di Dio è evidente che la venuta di Cristo non significa semplicemente grazia a buon prezzo per tutti. Dio resta giudice e la fede cristiana nella grazia di Dio non consiste nella convinzione che non esista l’ira divina e non vi sia un giudizio che incombe minacciosamente (2Cor 5,10), ma nella convinzione di essere salvati dall’ira divina. Se Dio ci ha destinati ad essere “vasi di misericordia” (Rm 9,23), significa che la salvezza offerta deve essere meritata, ossia accettata. Se la salvezza dall’ira eterna si trova soltanto in Cristo, tutto dipende allora dal rifiuto di Cristo o dall’accettazione di ciò che Cristo è; si tratta di vedere se l’uomo respinge Cristo o accetta che lui lo faccia suo. È ciò che avviene per mezzo della fede. Chi crede al Figlio non deve più temere il giudizio divino perché per lui ha valore solamente la promessa della vita eterna che in Giovanni ed in Paolo serve a descrivere il frutto della misericordia divina in contrapposizione alla perdizione, intesa come frutto dell’ira divina.
Possa Iddio concederci di essere preservati dalla sua ira ed entrare nella sua gioia, la quale è la forza del cristiano.



















[1] Il brano è tratto dalla versione della Bibbia di Diodati in quanto mantiene l’originale del termine “faccia” rispetto alle altre.
[2] Sottolineature nostre.

martedì 24 gennaio 2012

Il sabato cristiano

Il Sabato cristiano.

“I figli di Israele quindi dovranno osservare il sabato, lo celebreranno di generazioni in generazione, come un patto solenne. Esso è un segno perenne tra me ei figli di Israele; poiché in sei giorni il Signore fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare e si riposò” (Es 31,16-17).
Il precetto del sabato è tra i più documentati e costanti dell’AT.; lo si trova in tutte le redazioni della Torah, da quelle più lontane nel tempo (Es 23,12; 34,21), alle due redazioni attuali del Decalogo – che fanno però presupporre una formula apodittica negativa più antica (Es 20,8-11; Dt 5,12-15) – fino alle successive edizioni della scuola sacerdotale (Lv 19,3; 23,3; 26,2; Es 31,12-17; 35,1ss). Il vocabolo deriva dal verbo ebraico shabath, che significa cessare, interrompere (il lavoro).
Varie ipotesi sono state fatte circa l’origine culturale e religiosa del sabato ebraico, senza poter approdare a dirette derivazioni da esperienze e costumi non ebraici mutuate dalle regioni vicine a Canaan e alla Mesopotamia. Sembra, invece, ben evidente il carattere fondamentale di questo giorno settimanale, diverso dagli altri: “Il sabato (è) per Jhwh, tuo Dio” (Es 20,10; Dt 5,14). Gli antenati di Israele quasi sicuramente portarono con sé due feste, introducendole nella Terra Promessa: lo shabbat e la festa di pesakh (la pasqua), celebrata originariamente per preservare le greggi dai demoni nocivi. Nell’esperienza del sabato fatta dal popolo ebraico si possono distinguere tre grandi momenti:
-          Il sabato vissuto dall’Israele prima dell’esilio;
-          Il sabato nella concezione sacerdotale del dopo esilio;
-          Il sabato nel suo nuovo significato nel cristianesimo.

Il sabato vissuto dall’Israele prima dell’esilio.
Dall’esame dei testi biblici e del contesto storico in cui furono prodotti, il settimo giorno della settimana ebraica doveva avere come caratteristica l’astensione dal lavoro. Motivazione di tale proibizione lavorativa in giorno di sabato era la signoria di Dio sul tempo. Il Signore chiede la “decima” all’uomo sul tempo che gli ha donato in linea con le altre “decime” che l’uomo doveva tributare a Dio (cfr. la primogenitura degli animali, la tribù di Levi). Tale carattere riafferma il principio che tutto discende da Dio e che l’uomo non ne è il proprietario ma solo l’usuffruttuario. Prima ancora che un  tempo di preghiera e di culto, il sabato è un “tempo-di-Dio” che l’uomo restituisce a Lui; è una professione di fede concreta e vissuta. Le norme sull’anno giubilare riflettono questa concezione, perché anche la terra appartiene a Dio e a Lui deve ritornare (Lv 25; Dt 15,1-11). Celebrando il sabato, l’israelita è chiamato ad imitare Dio, mentre opera nel tempo:  “Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' tutto il tuo lavoro, ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al SIGNORE Dio tuo; non fare in esso nessun lavoro ordinario, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né lo straniero che abita nella tua città; poiché in sei giorni il SIGNORE fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò il SIGNORE ha benedetto il giorno del riposo e lo ha santificato” (Es 20,8-11).
Oltre a motivazioni religiose vi sono anche spiegazioni sociali. Infatti, fin dalle formulazioni più antiche del precetto, a dover celebrare il sabato non sono solo gli appartenenti al popolo eletto ma anche i forestieri che dimorano in Israele e gli schiavi (Es 23,12; Dt 5,12-15). Il ricordo della schiavitù degli ebrei in Egitto deve essere ricordato concretamente, non soltanto durante la celebrazione pasquale in un rito ma restituendo la libertà agli schiavi in occasione del giubileo e dell’anno sabatico: Se un tuo fratello ebreo o una sorella ebrea si vende a te, ti servirà sei anni; ma il settimo, lo manderai via da te libero. Quando lo manderai via da te libero, non lo rimanderai a mani vuote; lo fornirai generosamente di doni presi dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio; lo farai partecipe delle benedizioni che il SIGNORE, il tuo Dio, ti avrà elargito; ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il SIGNORE, il tuo Dio, ti ha redento; perciò io ti do oggi questo comandamento”(Dt 15,12-15).
Il sabato diventa, così, per tutti una liberazione dal lavoro. Va sottolineato che accanto al riposo dal lavoro, nella concezione pre-esilica del sabato vi è anche l’offerta di sacrifici al tempio e di preghiere. Tuttavia il comportamento di Davide a Nob (1Sam 21,2-7) e la rivolta del sacerdote Ieoiada contro Atalia (2Re 11,5-16) non sembrano costituire violazioni del precetto sabatico. Parimenti, non risultano celebrazioni di anni sabatici in Israele in cui si sia provveduto ad una totale liberazione degli schiavi e alla restituzione della terra.
Il sabato nella concezione sacerdotale del dopo esilio.
A differenza della teologia piuttosto elastica pre-esilica sul sabato, quella post-esilica – di timbro sacerdotale – sembra dominata da una precettistica rigorosa. Il sabato è un giorno “consacrato” a Dio e la sua profanazione è sentita come una sciagura (Ez 20,13.20-21); non si deve lasciare impunito chi lavora di sabato (Es 31,15; Nm 15,32-36). Ora la santificazione di questo giorno prevede l’esclusione assoluta di qualsiasi lavoro, fosse anche provvedere il cibo (Es 16, 22-30); divieto di accendere il fuoco (Es 35,3); divieto di portare pesi (cfr. Ger 17,19-27); divieto di commerciare e di viaggiare (cfr. Is 58,13s; Ne 10,31; 13,15-22).
L’affermazione del primato di Dio trasforma il riposo sabatico in una rigorosa precettistica cultuale (cfr. Ez 46,1-10; Nm 28,9s). Non mancano nella tradizione sacerdotale esortazioni più profonde: il sabato è segno dell’alleanza con Jwhw; esso è creato per vivere un’appartenenza più esclusiva al Signore. Eppure, nonostante una teologia del sabato vissuto come momento di incontro più forte con Dio, le particolarità precettistiche riguardo al questo giorno diverranno più importanti del giorno stesso.
Gesù contesterà ai suoi contemporanei un’infedeltà e una non sintonia con quello che era stato da principio il giorno del Signore e insieme il giorno dell’uomo e delle sue esperienze di festa e di liberazione.
Il sabato nel suo nuovo significato nel cristianesimo.
Quando Gesù inizia la predicazione del regno di Dio, l’osservanza del sabato era appesantita da una serie di norme che allontanavano dalla parola originaria divina circa il settimo giorno. I vangeli registrano vari interventi innovativi di Gesù, nel tentativo di far accogliere dal popolo di Israele una visione teologica ed umana di questo segno. Due episodi emblematici, comuni ai tre sinottici, di questa nuova visione apportata da Gesù. Il primo richiama la vicenda di Davide a Nob (Mc 2,23-28; cfr. 1Sam 21,2-7) dove Gesù legittima il gesto del re Davide[1]. Il secondo episodio riguarda una guarigione compiuta in giorno di sabato (cfr. 3,1-5), nei confronti della quale Gesù afferma che essa fa parte degli interventi di liberazione e di salvezza che Dio (e Gesù) può sempre compiere. Del resto lo stesso israelita compie, di sabato, azioni meno importanti ed urgenti.
Altri due episodi, che Luca ha in più rispetto a Matteo e Marco (Lc 13,10-17; 14,1-6), sottolineano ulteriormente il fatto che Gesù rivendica a sé e a Dio il diritto di “liberare” da servitù fisiche e spirituali l’uomo, e questo proprio nel giorno del Signore. D’altronde Luca è attento a notare come l’annuncio del regno di Dio e del suo messaggio di liberazione e salvezza viene fatto proprio in giorno di sabato: a Nazaret (Lc 4,15-30) e altrove (Lc 6,6; 13,10).
L’evangelo di Giovanni sottolinea più chiaramente il significato di liberazione e di salvezza che assume il sabato con Gesù (Gv 5,1-9; 9,1-41). È proprio attraverso questo evangelista che raggiunge una chiarezza di messaggio nuovo e misterioso il detto di Gesù circa il “Figlio dell’uomo signore anche del sabato” (Mc 2,28): di sabato “Il Padre opera e anch’io opero”. (cfr. Gv 5,19-47; 7,19-24). L’evangelista racconta la guarigione del paralitico alla piscina (Gv 5,1ss) e la guarigione del cieco nato (Gv 9,1ss).
Queste pagine evangeliche riflettono la polemica tra Gesù e i farisei e la polemica successiva fra la chiesa e la sinagoga. Gesù vuole ricuperare il significato originario, nativo,del sabato: è il giorno in cui si festeggia l’amore di Dio per l’uomo. Introduce, però, una grande novità: il grande evento da festeggiare non è più la liberazione dall’Egitto, ma la venuta del Figlio dell’uomo, la sua azione salvifica che riproduce l’amore del Padre. La critica che muove Gesù alla concezione farisaica del sabato non è giuridica e disciplinare ma teologica. Per Gesù l’onore dovuto a Dio non è mai in contrasto con la salvezza dell’uomo. Salvare l’uomo di sabato non è violare il sabato ma compierlo. Gesù prendeva parte ai dibattiti delle diverse scuole sul problema della santificazione del sabato. Gesù, chiamato in causa da seguaci dell’orientamento più severo circa l’osservanza di tale festa, risponde alla maniera a lui consueta ossia il ricorso all’autorità della Scrittura (Mt 12,1-12). Nell’evangelo di Giovanni il dibattito appare molto più acceso che nei sinottici; questo successivo acuirsi dei contrasti non va visto come la causa bensì come la conseguenza della separazione tra cristiani e giudaismo ortodosso.
Dal sabato alla domenica.
Un segno particolarmente indicativo della concezione neotestamentaria del tempo sacro è il passaggio – avvenuto con grandi tensioni – dal sabato alla domenica, chiamata nei testi più antichi “il primo giorno della settimana” (At 20,7; 1Cor 16,2). Il “primo giorno della settimana”  è il giorno che – come tutti gli evangelisti suggeriscono – evoca la risurrezione di Gesù e le sue apparizioni ai discepoli (Mt 28,1; Mc 16,2-9; Lc 24,1; Gv 20,1-19). Le comunità festeggiano la domenica perché è il giorno che ricorda il fatto centrale della salvezza e la presenza del Risorto nella comunità dei discepoli.
La domenica è indicata anche in una seconda espressione,meno attestata e più tradiva ma ugualmente importante: “Il giorno del Signore” (Ap 1,10). È un’espressione che recupera il biblico “giorno di Jhwh” con tutta la sua portata escatologica. Il NT non perde la sua continuità con l’AT, ma l’espressione ora viene riletta cristianamente: il Signore è Gesù e l’evento escatologico è la sua risurrezione e la sua parusia, un evento già compiuto ed insieme da attendere.
Collocare tra la risurrezione di Cristo e il suo ritorno glorioso alla fine della storia, la domenica è il momento forte in cui si compiono i gesti che danno significato e consistenza al tempo presente, tempo del compimento e dell’attesa: la Cena del Signore, la predicazione (At 20,7ss), l’agape (1Cor 16,2).
La cristianità primitiva venne a trovarsi in una situazione di tensione con i diversi raggruppamenti del giudaismo. Oltre a trovarsi in conflitto con essi per questioni di calendario, vedeva riprodotti i conflitti acne al suo interno, dal momento che i suoi membri provenivano da diverse sette giudaiche. Per la cristianità primitiva era talmente ovvio che le festività venissero celebrate con il resto dei giudei, da non doverne fare nemmeno menzione. È solo occasionalmente che troviamo espressamente detto che Gesù o Paolo frequentavano la sinagoga di sabato per andarvi a pregare, a leggere la Scrittura o a insegnare (Mc.1,21; Lc 4,16; At 16,13). Di qui si comprende il perché della presenza della liturgia festiva giudaica nel NT. I pagani, che avevano dovuto abbandonare il loro modo di celebrare le feste, poterono essere introdotti alle feste giudaiche, del resto ampiamente conosciute, grazie anche ad una interpretazione spirituale ed etica della loro realtà storica.
Quello che nei Sinottici è più un presupposto implicito che una dichiarazione esplicita, nell’evangelo di Giovanni diviene il programma stesso del vangelo: Gesù non solo è un giudeo tra giudei, ma rappresenta il vero Israele. Con la sua vita, passione e morte dimostra quel’è il senso autentico delle feste giudaiche.
Questa continuità con il mondo giudaico ha mantenuto alle feste ecclesiastiche la sostanza della storicità biblica. Malgrado questo radicamento ben presto si addivenne a divergenze e contrasti. È ben nota la polemica di Paolo contro le festività che implicavano il riconoscimento  delle potenze astrali e della natura, che quindi venivano celebrate secondo lo spirito vecchio (Gal 4,8-11; Col 2,8-17; Rm 14,5ss). Per Paolo il contenuto delle feste sia giudaiche che pagane era stato superato da Cristo; egli non rifiuta ogni festività ma esige una retta celebrazione della festa.
Fu così che, ad un certo punto, cominciarono a sorgere feste tipicamente cristiane di cui nel NT troviamo solo gli spunti iniziali. Accanto al culto del sabato, i cristiani cominciarono a tenere riunioni il primo giorno della settimana per commemorare la redenzione mediante la risurrezione del loro Signore (cfr. 1Cor 16,2; At 20,7; Ap 1,10). La compresenza e l’immediata successione dei due giorni finì col far emergere apertamente la contraddizione[2]. Nei secoli successivi, il nome “giorno del Signore” venne mutato quando i giorni della settimana vennero chiamati secondo l’uso pagano con i nomi degli dei planetari: il “giorno del Signore” divenne il “giorno del sole” (dies solis); è sintomatico che i cristiani venissero accusati anche di essere adoratori del sole. La cosa è rimasta anche in certe lingue moderne quali l’inglese Sunday e il tedesco Sonntag; “giorno del Signore” o domenica (dies domini) è rimasto invece nelle lingue neo-latine (italiano, francese, spagnolo, ecc…).
La volontà di separare la propria sorte da quella della comunità giudaica ha avuto per effetto l’accoglienza di motivi di fondo pagani ma infondendoli di spirito cristiano: è nel vivo di questo confronto che si rivela il legame profondo tra l’antica e la nuova comunità.
Chi ritiene di celebrare la risurrezione di Cristo in giorno di sabato non credo possa dispiacere al Signore, così come parimenti non dispiacerà chi invece mantiene la tradizionale celebrazione di domenica.
Possa il Signore di tutti benedire ogni celebrazione sincera a Lui rivolta.


[1] In realtà simili azioni erano permesse anche dalla legislazione deuteronomica (Dt 23,25).
[2] Ignazio, Epistula ad Magnesios, 9,1; Epistola Barnabae, 15,9; Didache XII Apostolorum, 14,1.

martedì 17 gennaio 2012

Una riflessione sul sacerdozio femminile.

Una riflessione sul sacerdozio femminile.

Benché in ambito protestante la questione sia stata risolta da tempo e con successo, nell’ambito del cattolicesimo quella del sacerdozio delle donne resta una problematica molto controversa. Innanzitutto dai dati biblici e storico-dogmatici mostrano in modo chiaro ed evidente che ci furono, in diverse forme di diffusione e di strutturazione giuridica, sia nella chiesa occidentale sia soprattutto in quella orientale, ministeri femminili ordinati, fino allo scisma orientale nella chiesa latina e fino alla caduta dell’impero bizantino in quella greca. Si trattò, secondo le fonti, di una funzione diaconale, dotata di rito di ordinazione e di un rudimentale diritto. È controverso il rapporto tra queste forme ordinate di ministero femminile e il cosiddetto “ordine delle vedove” ma è innegabile che quest’ultimo ebbe delle funzioni ministeriali con ordinazione. D’altronde è impensabile credere che tali ministeri siano sorti improvvisamente nel III e IV secolo senza nessun tipo di continuità con il passato, ma resta da indagare sul tipo di ordinazione ricevuta: se sacramentale o semplice benedizione. Questo aspetto della continuità con il passato a prima vista potrebbe sembrare un cavallo di troia; in realtà lo potrebbe essere per la sola chiesa cattolica che si ostina a precludere il ministero alle donne. Spiegheremo il perché nel prosieguo della trattazione; ciò che conta stabilire per certo in questo punto è l’esistenza di ministeri femminili ordinati già agli albori del cristianesimo.
Nonostante le fonti storiche siano scarse ed incerte, è impossibile ammettere che i ministeri femminili dell’antichità non risalgano almeno in forma generica all’esempio delle prime comunità come sono presentate nel NT. È ovvio che per ragioni di opportunità venissero impiegate delle donne per l’assistenza al battesimo, per la predicazione ad altre donne, per l’assistenza a donne malate. È generalmente ammesso il notevole ruolo svolto dalle donne nella diffusione della nuova fede.
Pare accertato che le diaconesse della chiesa orientale furono ordinate (elette dal greco cheirotonia), perlomeno a partire dalla seconda metà del IV secolo, con l’imposizione delle mani (cheirothesia) e preghiera allo Spirito Santo, in modo del tutto simile a l rito per i diaconi. Riportiamo il testo di una preghiera usata per tale ordinazione:
                “Dio eterno, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, creatore dell’uomo e della donna, che hai riempito di Spirito          Miriam, Debora, Anna e Hulda, che non hai disdegnato di far nascere il tuo Figlio Unigenito da una donna, che      hai affidato a donne la custodia della tenda della testimonianza e del tempio, guarda ora benigno alla tua    serva scelta per la diaconia e donale lo Spirito Santo e purificala da ogni macchia del corpo e dello spirito,            affinché possa compiere degnamente l’ufficio che le è affidato a gloria tua  e lode del tuo Cristo…”[1].
Unica differenza è che per il diacono si chiede che egli sia degno dell’ordine superiore, mentre per la diaconessa si chiede che compia degnamente l’incarico affidatole. Questo, però, non autorizza in nessun modo a ritenere che si intendesse fare diversamente dai diaconi. Quanto all’uso dei termini non è possibile fondare su di essi argomentazioni tendenti a sminuirne il valore come se si trattasse di un’ordinazione di grado inferiore. I due termini, infatti, non venivano usati in modo unitario e spesso venivano scambiati tra loro; si hanno infatti casi di cheirothesia del vescovo e cheirotonia della diaconessa.
Alcuni studiosi, pur riconoscendo la fondatezza di tali argomentazioni, sostengono non trattarsi di ordinazioni sacramentali. Intanto occorre dire che sia il diritto che la teologia dell’ordine si sono sviluppati tardivamente sia nella chiesa latina che in quella greca e, dunque, è indebito attribuire al passato un qualcosa che è frutto di speculazioni future. Inoltre, la sacra mentalità del diaconato non è stata mai definita in entrambe le chiese.
Per come è stata concepita l’ordinazione nel passato e per come è stata vissuta nelle chiese antiche, l’ordinazione di questi ministeri femminili va qualificata come sacramentale. Da tener presente che nella chiesa ortodossa esiste tutt’ora, anche se molto sminuito, il diacono nato femminile ed è presente anche in alcune chiese cattoliche non latine. Dunque non esiste alcun ostacolo teologico all’ordinazione diaconale delle donne. Molti teologi cattolici, pur contrari all’ordinazione presbiterale delle donne, non vedono ostacoli ad una loro ordinazione diaconale.
Lungo tutta la tradizione l’argomento più frequente contro l’ordinazione delle donne si fonda sul fatto che Cristo ha scelto e inviato come apostoli dodici uomini, che i 72 (o 70) evangelizzatori erano uomini (cfr Lc 10,1ss), che nell’Ultima Cena non erano presenti delle donne.
Riguardo alla prima obiezione occorre dire che a parte il fatto che grammaticalmente per quanto riguarda i 72 discepoli si potrebbe pensare anche altrimenti, Gesù non poté fare a meno di adeguarsi alla mentalità del tempo che attribuiva ruoli di insegnamento solo a uomini, se non voleva vanificare la sua missione. L’obiezione relativa alla scelta degli apostoli cade perché questi hanno un significato storico-salvifico che si esaurisce con loro. Essi sono legati alla concezione che la Chiesa è il Nuovo Israele su cui essi regnano e di cui giudicheranno le dodici tribù (Mt 19,28; Lc 22,30). Non segue da ciò che tutte le funzioni derivanti da quella apostolica debbano essere riservate solo a uomini. La chiesa cattolica insegna che i vescovi sarebbero i successori degli apostoli, ma teologi cattolici più avveduti affermano che essi si dovrebbero qualificare piuttosto come succedenti, in quanto molte funzioni tipicamente apostoliche sono prerogativa esclusiva degli apostoli stessi e non potendosi trasmettere a nessuno. Fondamento della chiesa sono gli apostoli, non i vescovi.
Per quanto riguarda la scelta dei 70 o 72 discepoli, essa ha una funzione strumentale, ossia preparare la predicazione di Gesù stesso. Essa va vista nel contesto della teologia universale di Luca. Lo stesso numero è preso in funzione del numero dei popoli che allora si pensava abitasse la terra (cfr Ge 10).
Infine, sulla presenza di donne alla celebrazione dell’Ultima Cena va detto che questa ebbe luogo durante la Pasqua ebraica. Ora secondo Es 12 anche le donne dovevano celebrare la Pasqua, a casa del marito o del padre se nubili; infatti la Pasqua era originariamente una celebrazione comunitaria della famiglia. Ai tempi di Gesù, però, la Pasqua aveva acquistato tratti più cerimoniali e si era diffusa una certa prassi di riservare la sua celebrazione a piccoli gruppi rituali composti di soli uomini, specie nel caso dei pellegrini a Gerusalemme. Perciò, anche supponendo l’assenza di donne nell’Ultima Cena, ciò non vorrebbe dire nulla. Non è corretto applicare l’argomento ex silentio deducendo da Mc 14,17ss e Mt 26,20 che le donne siano state escluse, soprattutto in vista di Mc 15,40 e Lc 23,49.55.
Altra obiezione frequente, soprattutto nell’antichità, è che tra le donne neanche a sua madre Gesù affidò funzioni sacerdotali. A dire il vero poco si sa della vita di Maria dopo la morte di Gesù a parte l’unica citazione di At 1,14. Inoltre le parole dell’Ultima Cena, con buona pace della teologia cattolica, non fondano un sacerdozio ministeriale ma il loro senso è più universale e, per certi versi, irripetibile.
Altro argomento a sfavore dell’ordinazione delle donne è preso da 1Cor 14,34-36 e 1Tm 2,9ss dove Paolo è contrario a che la donna parli nella pubblica assemblea. Ora, di fronte a questi testi occorre chiedersi che valore vincolante essi rivestano oggi. Confrontando questi testi emerge una mentalità che oggi non è più dominante: infatti tali affermazioni valgono finché esisteva la civiltà che le ha prodotte. Dietro queste affermazioni soggiace una concezione della predicazione come dominio che per noi non è più accettabile. L’autorità della Parola non deriva da chi la predica ma dalla Parola stessa. Già Lutero argomentava che questo divieto al massimo proibiva alle donne di predicare a uomini ma non ad altre donne. Inoltre esse risentono di una esegesi primitiva; lo stesso riferimento ad Adamo superiore ad Eva rispecchiano concezioni storico-esegetiche contestabili. Tutto questo fa ritenere che la mentalità che ha prodotto tali affermazioni stimava la donna inferiore all’uomo a prescindere dalla problematica ministeriale ed è  questa la motivazione della proibizione. D’altronde la Scrittura stessa mostra come nel NT vi sia una forte collaborazione delle donne alla vita delle comunità.
Altra obiezione vuole che il sacerdozio ebraico era riservato solo a uomini. Va da sé che i ministeri cristiani non si fondano su quelli veterotestamentari ma sul sacerdozio di Cristo, dunque anche questa obiezione viene a  cadere.
L’inconsistenza delle argomentazioni suesposte come fondamento dell’esclusione delle donne dall’ordine sacro viene trova un suo superamento nell’argomentazione della “Tradizione”, intesa come viva realizzazione della Parola di Dio nella storia. È risaputo che la dottrina cattolica ritiene la Tradizione al pari, e forse superiore, della Sacra Scrittura; questa costituirebbe l’unico argomento probante per l’esclusione delle donne dal sacerdozio. La chiesa cattolica sarebbe, in ultima istanza nella figura del Magistero, l’unica autorizzata ad interpretare la propria tradizione. Applicando questa argomentazione, ci si deve chiedere se questa esclusione sia una Tradizione vincolante per tutti i tempi, in quanto chiarificazione di una scrittura di salvezza, oppure formi solo una tradizione materiale, motivata nel passato ma che oggi non avrebbe più ragion d’essere sulla base dell’emancipazione sociale della donna moderna.
Alla luce di quanto detto sembra debba valere anche per la tradizione il giudizio sostanzialmente negativo che abbiamo dato per le summenzionate motivazioni. L’argomento che ora si ama citare, perché ritenuto più solido, è l’adeguata rappresentazione di Cristo da parte di un clero unicamente maschile. Per sostenere la validità di tale argomentazione si ricorre addirittura alla teologia sacramentale, ossia alla concezione che i sacramenti esercitano la loro efficacia nel e attraverso il segno che li significano per cui l’uomo solo rappresenta adeguatamente la presenza di Cristo che di fatto fu uomo.
Bisogna dire, innanzitutto, che questa concezione è legata alla teologia del simbolo ed è legata ai tempi e all’evoluzione concreta delle varie comunità. In una comunità in cui ci fosse la certezza che l’alterità della salvezza è comunque garantita, cesserebbe la necessità del sacerdote maschio (come accade in alcune chiese della Riforma). inoltre, volendo ricorrere per forza alla teologia sacramentale e simbolica, anche il matrimonio (considerato sacramento dalla chiesa cattolica) ricorre all’immagine della coppia sponsale ma non per questo ne verrebbe sminuito il suo valore sacramentale. La fede cristiana si fonda su Gesù “homo factus est” e non “vir factus est”, il che vuol dire che la solidarietà di Gesù è con l’umanità (nei suoi generi maschile e femminile) e non con la sola parte maschile. Inoltre, volendo restare per forza ancorati al debole fattore della rappresentanza, ci sarebbero altre qualità che sfuggirebbero comunque ad un clero tipicamente maschile quali la razza, l’età, la lingua: perché un prete bianco, biondo, anziano e inglese dovrebbe rappresentare meglio il Cristo se questi era ebreo, giovane e parlava aramaico?
Sulla base di quanto sopra è possibile dire senza paura di venir confutati con argomenti scritturali che nessuno degli argomenti sopracitati prova l’assoluta incapacità della donna ad essere ordinata sacerdote. Il ministero maschile e femminile darebbe un’immagine più completa della profondità e varietà inesauribili di Dio ed esprimerebbe meglio che Cristo ha apportato un vero superamento del sesso nella persona.
Si auspica che il dialogo ecumenico possa stimolare tutte le chiese ad un confronto sincero e umile fra loro e con la Scrittura, unica fonte normativa e di vita delle comunità cristiane e che l’esempio coraggioso introdotto da molte chiese nate dalla Riforma sia sempre più seguito.


[1] Costitutiones Apostolicae (VIII, 19; ed. Funk 525).