sabato 28 luglio 2012

L'arcano del nome di Dio

L’arcano del nome di Dio

Quando Mosè riceve l’incarico di liberare gli schiavi ebrei pone una domanda a Dio: qual è il suo nome. Abituato agli dei egiziani, i quali hanno tutti un nome, per Mosè è logico chiedere quali siano le credenziali del Dio liberatore. Narra il racconto biblico: “Mosè disse a Dio: Ecco, quando sarò andato dai figli di Israele e avrò detto loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato da voi, se essi dicono: qual è il suo nome? che cosa risponderò loro?” Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono”. Poi disse: “Dirai così ai figli d’Israele: “l’IO SONO mi ha mandato da voi”. (Es 3,13-14). Non ha questo il sapore di un semplice rifiuto di riferire il nome di Dio? Come ne è proibita la raffigurazione, altrettanto lo sarebbe l’identificazione di lui che invia il suo messaggero con qualsiasi altro essere divino conosciuto. Egli è comparabile solo a se stesso. se tale interpretazione corrisponda al pensiero dell’autore lo si può scoprire unicamente ricorrendo ad una spiegazione filologica del testo primitivo.
Con Io-sono (che Lutero tradurrà con Io sarò) si traduce il termine ebraico ‘ähjäh. Vi è una parentela di suono tra questa parola ed ilo nome jahwäh, solitamente tradotto con Javhè.  La fonetica spiega perché la seconda sillaba inizia con w anziché con j: la legge della dissimilazione proibisce la brutta ripetizione del medesimo suono; la presillaba nel nome avrebbe comportato una duplice j. La morfologia ricerca il senso dell’altra presillaba. Ja traspone la prima persona ‘ähjäh alla terza; l’autoaffermazione “io sono” diviene la confessione “egli è”. Ma si tratta di una spiegazione discussa. La vocalizzazione della presillaba ja assicurata da antiche trascrizioni greche può accennare ad un significato causativo della forma verbale (“egli fa, produce essere”) o anche servire quale elemento formale della forma nominale (“essere, natura”). Questa incertezza rafforza la supposizione che il nome Jahvè sia molto più antico della spiegazione datane in Es 3,14. Lo conferma la glottologia comparativa. Testimonianze preisraelitiche del nome di Jahvè si possono verosimilmente cogliere in due testi egiziani che, attorno al 1400 a.C., nominano un “paese dei beduini-Jahwe” (il suono egiziano differisce di poco); i testi indicano il medesimo ambiente, a sud della Palestina, cui fa riferimento Es 3. Il nome tipico è presentato quale forma abbreviata di un antico nome cananeo di ringraziamento (“Dio si manifesta continuamente come aiuto). Così il nome è certamente più antico della spiegazione di Es 3,14.
Alla sua comprensione contribuisce la semantica (scienza del significato delle parole). La radice verbale ebraica hajah, che in ‘ähjäh sta alla base della frase esplicativa ed in jahwäh molto verosimilmente anche del nome, indica qualcosa di più dinamico del nostro verbo ausiliare “essere” col quale viene solitamente tradotta; essa indica piuttosto un essere operante, un dimostrarsi. Allora, però, la frase esplicativa non può assolutamente essere presa come puro rifiuto del nome. la cosa appare ancora più evidente se si ricorre anche alla sintassi, la cui importanza per la spiegazione dei testi biblici non è ancora sufficientemente valutabile. La traduzione solita “Io sono colui che sono” è problematica non solo per il significato della parola, ma pure considerando la prima persona della frase relativa. Essa è sostenibile unicamente nelle frasi in cui il pronome relativo ha il suo ruolo di oggetto, come Es 33,19: “Farò grazia a chi vorrò fare grazia” (cfr Ez 12,25). La cosa è diversa allorché la frase relativa spiega il soggetto precedente, ad esempio in Es 20,2 ove il testo dice letteralmente: “Io sono Jahvè, Dio tuo, che ti ho liberato dall’Egitto”; in italiano diciamo meglio: “Io sono Jahvè che ti… ha liberato” (altrettanto in Lv 20,24: “Io sono Jahvè che vi ha separato dai popoli”); in ebraico “che vi ho…”. Riassumendo le osservazioni semantiche e sintattiche traduciano in modo migliore “Io mi dimostro come colui che si dimostra”, oppure “Io sono (operante, come) colui che si mette all’opera”. In tal modo la frase indica non soltanto l’incomparabilità di Jahvè, ma parimenti la sua autointerpretazione nel suo agire storico. L’esempio dovrebbe mostrare l’indispensabilità della ricerca filologica per la scienza biblica.


mercoledì 4 luglio 2012

L'etica del lavoro calvinista e il capitalismo

L’etica del lavoro calvinista e il capitalismo

Capitalismo e calvinismo erano in pratica coincidenti, alla metà del ‘600, cioè si sovrapponevano perfettamente. Questo fenomeno ha suscitato particolare attenzione dei sociologi. Ad esempio, le Fiandre, fino ad allora di culturalmente omogenee, furono divise in due dalla rivolta protestante e dalla successiva riconquista da parte della cattolica Spagna. Per duecento anni la zona protestante fu attiva e prospera, mentre quella cattolica (l’attuale Belgio) fu depressa e improduttiva. Anche nei paesi cattolici, come la Francia e l’Austria, furono i calvinisti che svilupparono le loro potenzialità industriali e finanziarie. Non furono i protestanti in generale, ma i calvinisti in particolare, che svilupparono il capitalismo. Quando i due grandi campioni del luteranesimo della prima metà del XVII sec., Cristiano IV di Danimarca e Gustavo Adolfo di Svezia, vollero mobilitare le risorse finanziarie e industriali dei loro rispettivi paesi, sin rivolsero per aiuto ai calvinisti olandesi; l’operazione ebbe un tale successo che in Scandinavia si affermò ben presto un ‘aristocrazia capitalista calvinista olandese. Gli esempi potrebbero continuare: fra l’Europa settentrionale e meridionale, fra l’Irlanda del Nord e quella del Sud, fra l’America del Nord e quella del Sud. Dove fioriva il calvinismo, fioriva anche il capitalismo.
Il fascino della tesi di Weber risiede in parte nella sua evidente corrispondenza ai fatti osservabili. L’affinità facilmente dimostrabile tra calvinismo e capitalismo diventa la premessa maggiore, anziché la conclusione, nell’analisi di Weber. Non c’è alcun dubbio che l’èlite economica europea della prima metà del XVII sec., sia nei paesi cattolici che protestanti, fosse calvinista. Sembra che soltanto il calvinismo fosse capace di mettere in movimento l’industria e la finanza e iniettare un impulso vitale nella vita commerciale delle nazioni. L’ipotesi che il calvinismo sia stato in qualche modo la causa, per quanto alla lontana, delle sviluppo delle condizioni favorevoli al progresso del capitalismo è indubbiamente plausibile, per il sociologo. Tuttavia, è la spiegazione religiosa di tale tendenza che suscita difficoltà per il teologo. È difficile individuare, infatti, la stretta connessione fra la spiritualità calvinista e lo spirito del capitalismo moderno che Weber ha segnalato. Weber trova nella dottrina religiosa calvinista della “vocazione” il fulcro della mentalità capitalistica. Il nuovo accento posto sulla predestinazione divina dei seguaci di Calvino è stato spesso frainteso come nuova dottrina in sé, come se l’idea dell’elezione fosse una novità teologica sconosciuta prima della Riforma. in realtà, la centralità accordata ai problemi riguardanti la “vocazione”, come la predestinazione, l’elezione e la provvidenza, nell’ambito del pensiero calvinista posteriore, riflette sia la preoccupazione per la sistematizzazione e il metodo teologico (per consentire lo sviluppo di un pensiero teologico almeno simile a quello di Tommaso d’Aquino), sia la necessità di distinguersi dal luteranesimo a motivo della loro rivalità in Germania. La dottrina della doppia predestinazione di Calvino affonda le radici nel rinascimento agostiniano del XIV sec. e non è, dunque, una novità teologica in qualche modo connessa allo sviluppo dello spirito del capitalismo moderno. Gregorio da Rimini e Ugolino da Orvieto hanno difeso con vigore nel XIV sec. la dottrina della doppia predestinazione ma essi non possono certo essere considerati proto-capitalistici come risultato del loro predestinazionismo. Weber, da sociologo e non da teologo, non riesce a a distinguere i diversi livelli di coinvolgimento calvinista nei confronti della doppia predestinazione assoluta. Gli arminiani abbandonarono questa dottrina mentre i calvinisti più ortodossi la conservarono. Tuttavia fu la Amsterdam arminiana che creò la notevole ricchezza delle Provincie Unite, mentre il resto dell’Olanda rimase arretrata dal punto di vita economico. E’ chiaro che, secondo la teoria di Weber, sarebbe dovuto accadere l’inverso.
Le origini dell’etica del lavoro calvinista sono ad un tempo pastorali e teologiche. Uno dei problemi centrali dibattuti fra i primi riformatori riguardava il rapporto fra la grazia divina e l’azione morale umana: la grazia di Dio era condizionata dalla precedente azione cioè dal merito dell’essere umano? E se la grazia era precedente all’azione umana, come si poteva evitare la minaccia dell’antinomismo, cioè la perdita di valore di ogni legge, l’anarchia spirituale? Come si poteva rivalutare il carattere gratuito della grazia senza spezzare il legame vitale fra la grazia e la risposta morale umana? I primi anni della Riforma furono caratterizzati da un generale consenso: la grazia di Dio era un dono incondizionato, anteriore e indipendente da ogni opera o merito umani. Tuttavia la grazia possedeva una carica di trasformazione, una capacità di operare all’interno di colui che la riceveva; ricevere la grazia significava essere rinnovati dalla grazia. Parte essenziale di questo procedimento di rinnovamento e di rigenerazione (definito da Calvino santificazione) era la motivazione e il rafforzamento del credente per metterlo in grado di compiere buone opere. Le buone opere erano considerate il segno esterno e visibile della presenza e dell’attività della grazia nell’intimo del credente. Calvino, come Lutero prima di lui, sottolineò l’assoluta gratuità della grazia: la grazia è un dono, non una ricompensa; non è qualcosa che Dio è in obbligo di dare. La grazia, però, è data soltanto ad alcuni, non a tutti. la dottrina della predestinazione, secondo Calvino, è utile per sottolineare il carattere di dono della grazia. La grazia, in altre parole, è data solo agli eletti. Ma come si fa a sapere se si è nel numero degli eletti? Dagli effetti che la grazia produce nel credente. Per quanto Calvino abbia sottolineato che le opere non sono il fondamento o il motivo della salvezza, esse ci permettono di comprendere che sono la base della sicurezza di tale salvezza. Le opere possono considerarsi come “le testimonianze di Dio che Egli dimora regna in noi”[1].  I credenti non sono salvati in virtù delle opere ma la loro salvezza è resa evidente da esse. “La grazia delle buone opere dimostra che ci è stato dato lo spirito di adozione”[2]. Questa tendenza a considerare le buone opere come una dimostrazione della elezione può essere vista come il primo stadio nell’elaborazione di un’etica del lavoro con significativi accenti pastorali: è con l’attivismo mondano che il credente può placare la propria coscienza turbata dandole sicurezza di essere nel numero degli eletti. Questa idea è stata spesso presentata nei termini del “sillogismo pratico”:
Tutti coloro che sono eletti manifestano segni particolari come conseguenza di questa elezione.
Io manifesto tali segni.
Dunque io sono fra gli eletti.

Esisteva quindi una significativa pressione psicologica per dimostrare la propria elezione a se stessi e al mondo esibendo i segni, fra cui c’era l’impegno personale a servire e glorificare Dio affaticandosi nel suo mondo. A questa idea fu dato un fondamento più sicuro mediante l’introduzione di una teologia del patto. Si può quindi affermare che la propensione del primo calvinismo per l’attivismo morale, economico e politico poggia su notevoli fondamenti teologici. Mediante il coinvolgimento attivo negli affari intramondani, soggetto alla guida della Scrittura, il credente può definire una volta per tutte la sua vocazione e trovare la pace dell’animo per quanto riguarda la propria elezione.
Nel XVI sec. quest’atteggiamento positivo e dinamico verso il lavoro spinsero il calvinismo all’avanguardia del progresso.  In conclusione: in qualsiasi modo si possa dimostrare l’esatta natura del rapporto tra calvinismo e capitalismo, si può dire che una delle più grandi eredità che la cultura occidentale ha ricevuto dal calvinismo è un nuovo atteggiamento nei confronti del lavoro e, in particolare, del lavoro manuale. Il lavoro, lungi dall’essere soltanto un mezzo inevitabile e, in un certo senso, fastidioso per procurarsi le necessità fondamentali per l’esistenza, diventa degno di lode. Essere “chiamati” da Dio non comporta un ritiro dal mondo ma richiede un impegno critico in ogni aspetto della vita intramondana. Parlare di un’etica protestante del lavoro non significa denigrare quelli che non possono lavorare, ma censurare quelli , come gli aristocratici francesi che cercavano rifugio a Ginevra, che non volevano lavorare. Il lavoro è visto come un’attività profondamente spirituale, una forma di preghiera produttiva e socialmente benefica. Orare est laborare è la risposta protestante al cattolico Ora et labora.  Non esiste un tempo sacro ed uno profano ma tutto diviene ugualmente sacro per il credente. Attività fisica e spirituale sono congiunte in un’unica azione, con la quale si possono assolvere funzioni socialmente utili e si può ottenere la certezza della propria salvezza.





[1] Calvino, Istituzione, III, 14,18
[2] Idem