venerdì 9 dicembre 2011

La sinodalità nella chiesa

La sinodalità nella Chiesa.

Origine storica.

    Sin dagli inizi della sua esistenza la Chiesa ha celebrato delle grandi riunioni, solenni assemblee dei responsabili  delle varie comunità, per confrontarsi su questioni di fede e di ordine interno. Si fa risalire questa prassi conciliare alla chiesa apostolica prendendo a modello il concilio di Gerusalemme di cui ci da notizia il libro degli Atti degli Apostoli al capitolo 15. Questi incontri prendono il nome di sinodi, dal greco “camminare insieme”, a livello locale o concili a livello più generale fino ai grandi concili ecumenici i quali coinvolgono la quasi totalità della Chiesa.

    Notizie su indizioni di sinodi locali si hanno già a partire dalla seconda metà del II secolo; territori a forte presenza cristiana come la Palestina, l’Asia Minore, Roma, il Nord Africa, furono teatro di frequenti sinodi e concili locali. Ma è dal III secolo in poi che l’attività sinodale si intensifica divenendo quasi una consuetudine. Anche se il sinodo viene celebrato a livello locale si cerca comunque di varcare i confini territoriali e giurisdizionali inviando le disposizioni prese anche a chiese geograficamente distanti dal luogo del concilio onde uniformare il credo e la disciplina. In tal modo la “communio ecclesiarum” diviene operativa non solo a livello teorico ma anche pratico. Certo, in questa prima fase della storia della Chiesa viene fatta salva la libertà delle varie comunità di accogliere o meno nelle loro discipline interne i dispositivi deliberati nei vari concili locali limitandosi in caso contrario a prenderne solo atto; ad ogni modo si inaugura, di fatto, una procedura che nei secoli avvenire diventerà vincolante soprattutto dopo il rafforzamento dell’autorità pontificia. Infatti le deliberazioni sinodali e conciliari a livello locale hanno valore canonico di per sé solo per quelle comunità ove tali sinodi e concili vengono celebrati. Le chiese orientali si avvarranno di questa facoltà per difendere la loro autonomia a differenza di quanto accadrà nelle chiese occidentali la cui tendenza sarà di uniformarsi sempre più alle decisioni della chiesa di Roma, contribuendo all’origine del papato.

Ma le differenze tra le chiese orientali e quelle occidentali non si fermano qui. Anche l’assetto che i sinodi assumono si dirama in ambiti differenti. In occidente prevale l’aspetto disciplinare mentre in oriente si preferisce calcare sulla dottrina. Tali scelte sono dettate dal diverso contesto storico: in oriente si andavano formando i primi movimenti ereticali mentre l’occidente era favorito dalla mentalità giuridica propria dei romani. Roma e ad Alessandria d’Egitto  si impongono per l’autorità del loro episcopato mentre in Nord Africa prevale più l’aspetto collegiale come influsso dell’ecclesiologia di Cipriano, un Padre della Chiesa.

Questo periodo che va dal II al III secolo si caratterizza, dunque, per una forte libertà organizzativa delle varie aree geografiche in qualche modo omogenee tra loro. La Chiesa risulta così suddivisa in quattro zone:

1- Roma e l’occidente, con esclusione di Spagna e Gallia, con assetto disciplinare unitario;
2- le chiese orientali a forte indipendenza locale, con assetto dottrinale;
3- il Nord Africa con assetto collegiale e paritario dell’episcopato;
4- la Palestina ove prevale la teologia origeniana.

Questa situazione eterogenea, ma attenta alle rispettive libertà e creatività, riguardo all’organizzazione sinodale si protrasse fino al Concilio di Nicea anche se le assemblee di Antiochia del 264 e del 268 si caratterizzano come concili generali coinvolgendo ampie zone della Chiesa. Nicea, però, costituì una innovazione riguardo all’autorità che le venne conferita. Fu il primo grande concilio ecumenico, infatti, quello celebrato nel 325 nella piccola città asiatica situata nell’odierna Turchia. L’imperatore Costantino in persona presiedette l’assise e in molte occasioni pilotò le decisioni dei padri conciliari convenuti. Da grande genio politico qual’era, Costantino aveva intuito che il collante del suo sterminato quanto traballante impero poteva essere appunto il cristianesimo a patto, però, che venisse epurato dalle numerose dispute teologiche e se ne uniformasse la dottrina. Un solo imperatore, una sola fede era il suo motto.

Il metodo delle assemblee conciliari era una strada collaudata da più di un secolo di prassi ma l’autorità delle deliberazioni in esse decretate doveva divenire più vincolante. Fu così che a Nicea le deliberazioni assunsero carattere di legge imperiale, a cui tutti dovevano ossequio. I dissidenti furono bollati come eretici e perseguitati. Vi era un precedente: l’autorità era stata invocata durante i concili di Antiochia  del 264 e del 268, di Roma del 313 e di Arles del 314. Fu così che “L’autorità  imperiale, articolata ecclesiasticamente come funzione episcopale estrinseca (episcopus exterior), divenne, da Nicea in poi, parte integrante dell’esperienza sinodale del primo millennio”[1].

A parte l’interesse politico dell’imperatore, gli storici sono divisi circa le motivazioni che hanno originato il fenomeno della sinodalità nella Chiesa. Alcuni fanno derivare tale prassi direttamente dagli apostoli identificando nell’assise gerosolimitana il primo concilio dei credenti in Cristo. Altri, invece, non ravvisano in questo primo incontro la derivazione dei successivi sinodi preferendo individuarne la genesi nelle organizzazioni democratiche assunte da molte comunità dell’epoca. Lo storico Schwartz, di contro, fa dipendere l’istituto sinodale dall’aumento dell’autorità episcopale all’interno della propria comunità: “Non esistendo ancora alcuna struttura capace di articolare gerarchicamente le singole chiese particolari, l’emergere sempre più deciso dell’autorità personale del vescovo in seno alla comunità avrebbe in realtà potuto suscitare alternative concorrenziali tra una chiesa e l’altra. Di fatto ciò divenne il presupposto per l’enuclearsi di una coscienza sinodale sempre più precisa, sfociata a livello istituzionale anche nelle celebrazioni di concili”[2]. In pratica, i singoli vescovi vedendo accresciuta la propria autorità in seno alle comunità di appartenenza, ravvisarono la necessità di confrontarsi su tematiche e problemi le cui implicazioni trascendevano i confini delle singole diocesi affidate alla loro responsabilità. Essi si percepivano quali custodi del depositum fidei e continuatori della tradizione apostolica.

Inadeguato sembra, invece, il suggerimento che la prassi sinodale potrebbe derivare dal procedimento elettorale del vescovo. Tale procedura all’inizio coinvolgeva tutti i vescovi suffraganei di una provincia, poi il concilio di Arles stabilì un numero di sette vescovi che fu ridotto a tre dal Nicea I. Un accenno a questa prassi si trova nella Traditio Apostolorum di Ippolito Romano del 215.

Altrettanto riduttivo è, comunque, ritenere la sinodalità della Chiesa come semplice risposta di ordine pratico a problemi più complessi o come accoglimento passivo dell’ingerenza imperiale. Possiamo ritenere dietro la consuetudine conciliare il desiderio di esprimere quella communio ricercata già dai tempi evangelici dai fedeli di ogni comunità particolare: “… i vescovi presero coscienza della dimensione sinodale della loro successione apostolica con qualche decennio di ritardo rispetto alla presa di coscienza della dimensione individuale, anche se da subito hanno vissuto una prassi di solidarietà in nome della comunione che li legava vicendevolmente”[3].

La communio nella vita della Chiesa aveva come naturale conseguenza l’espulsione di quanti non aderivano a questo ideale di comunione ecclesiale i quali, però, continuavano a vivere in tranquillità le loro diverse credenze. Il fatto nuovo che caratterizza i concili dal III secolo  in poi è il continuo appellarsi all’autorità imperiale per perseguire scismatici e dissidenti. In pratica nella vita della Chiesa, con l’ingerenza imperiale, entrò anche l’intolleranza. Come già detto, i vescovi maturarono lentamente la loro coscienza di successori degli apostoli e questo li indusse automaticamente ad escludere chiunque non si ponesse in sintonia con la loro, in questo aiutati dall’autorità imperiale. Si affaccia, allora, una domanda tutt’altro che oziosa: fu la coscienza di essere successori degli apostoli a causare l’esclusione dei dissidenti anche con metodi cruenti o fu l’aiuto delle autorità a facilitare la coscienza di essere i continuatori della tradizione apostolica e dunque a perseguire i dissidenti? Perché questa coscienza di communio, da intendersi così strettamente, maturò proprio in seguito all’ingerenza imperiale? Da ricordare che tra il concilio apostolico di Gerusalemme e i primi concili a forte carattere autoritario passarono quasi tre secoli.

Il Nicea I del 325 fu innovativo anche perché stabilì canonicamente la necessità di indire un concilio provinciale due volte l’anno, in primavera e in autunno. In tal modo la Chiesa ricalcava la struttura provinciale tipica dell’impero romano. L’istituto del concilio provinciale resse in tutto il periodo della storia della Chiesa latina e a partire da questo è possibile ricostruire lo sviluppo dei concili successivi.

Accanto a queste due espressioni della collegialità ecclesiale sorsero anche assemblee intermedie che assunsero forme e metodi diversi a seconda dei contesti geopolitici e storici, quali i sinodi patriarcali tipici dell’oriente, i concili plenari del Nord Africa, i concili primaziali in Gallia e quelli nazionali in Germania e, soprattutto, i concili generali convocati dal papa.

Un ulteriore passo verso l’uniformità venne fatto con lo sviluppo delle decretali e della canonistica che finì per superare in importanza gli stessi concili provinciali, imponendosi “progressivamente come diritto alternativo non solo a quello dei concili minori ma anche a quello dei concili ecumenici”[4].

Il desiderio espresso dal Niceno I di indire un concilio provinciale due volte l’anno fu ben presto disatteso. A favorire la crisi di questi concili minori fu la difficoltà oggettiva a convocare assemblee in un’epoca di grandi cambiamenti politici. In occidente la caduta dell’impero romano e lo stanziarsi nei suoi territori di regni barbarici comportò a livello locale l’oblio dei concili mentre l’autorità papale ne usciva più rinforzata grazie ai concili romani. In oriente la chiesa aveva assunto una connotazione cesaropapista legandosi sempre più al potere imperiale, conseguenza dovuta anche alle invasioni arabe. Già il Nicea III del 787 ridusse l’obbligo del concilio provinciale ad una volta l’anno.

Quanto venisse disatteso il Nicea I e II riguardo al concilio provinciale ne è prova il Lateranense IV del 1225 dove la necessità di convocare il concilio provinciale annuale venne ribadita con forza. In seguito ai concili di Costanza (1414-1418), di Basilea (1431-1437) e Lateranense V (1512-1517) la data venne fissata ad ogni triennio. Si giunse al Vaticano I (1870) che spostò la sua indizione ogni quinquennio. Ma fu il canone 283 del Codice di Diritto Canonico del 1917 (CJC) a sanzionarne la morte fissando la data di indizione ogni vent’anni. Nel nuovo codice del 1983 non si parla più di obbligatorietà della periodicità ma solamente che è vietato convocare il concilio provinciale in caso di vacanza della sede metropolita. Evidentemente il desiderio di communio che aveva ispirato i primi cristiani a incontrarsi regolarmente ora cedeva il passo alla uniformità disciplinare e dottrinale sancita da canoni e decretali.

Prassi conciliare nella Chiesa latina.



Se da un lato i frequenti richiami normativi riguardo ai concili provinciali testimoniano di un attento interesse sinodale, dall’altro la prassi è indice di una diffusa disattesa di tali norme. “L’attenuazione delle scadenze di convocazione ad opera di concili particolari nei secoli seguenti testimonia, d’altra parte, che la crisi continuò ad aggravarsi. La stessa costatazione vale per tutto l’arco di tempo che intercorre dal secondo concilio di Nicea a quello di Trento, quando ormai l’obbligo di radunare il concilio provinciale era ormai già ridotto ad una volta l’anno”[5].  Difatti le statistiche dimostrano che tra il 906 e il 1054 furono celebrati solo 47 concili provinciali nella Chiesa latina, mentre tra il 1054 e il 1305 se ne celebrarono ben 750; nei due secoli successivi fino a prima del concilio di Trento ne vennero celebrati solo un centinaio. Dopo il Vaticano I una certa ripresa dell’attività conciliare si ebbe ad opera della chiesa americana dove tra il 1829 e il 1891 si celebrarono 34 concili provinciali e 3 plenari.

Atra le cause di questo lento disinteresse per il concilio provinciale ci fu la diffusione delle Conferenze Episcopali che fece spostare l’attenzione verso questo organismo gerarchico a scapito dei concili minori.

Cause della disattesa.


Le cause per cui la Chiesa latina finì per disattendere la sua prassi sinodale sono molteplici. Indubbiamente la sola difficoltà organizzativa non è sufficiente per spiegare simile disaffezione altrimenti tale obbligo non sarebbe stato ribadito da vari concili fino al Tridentino. L’assetto politico susseguente alle invasioni barbariche mutò profondamente l’equilibrio geopolitico dell’occidente per cui la Chiesa si trovò nella incapacità di operare in sistemi che non ricalcavano più le suddivisioni territoriali proprie dell’epoca imperiale. Fu così che presero sopravvento forme sinodali inserite nei nuovi ambiti politico-territoriali sorti dalla dissoluzione dell’impero romano d’occidente. In seguito, i vari poteri politici  che si avvicendavano nei regni nazionali cercavano sempre di imporre la propria volontà sulle rispettive chiese. Si pensi ad esempio alla lotta per le investiture, al gallicanesimo, al giuseppinismo, agli stati assoluti. Per tali ragioni il papato non cercò mai di caldeggiare l’indizione di concili particolari, facilmente controllabili dal potere politico e quindi pericolosi dal punto di vista unitario voluto da Roma.

Anche lo sviluppo del primato del papa con conseguente accentramento verticale del potere contribuì alla perdita di importanza dei concili provinciali. Questa tendenza riduceva le chiese particolari a semplice funzione amministrativa della Chiesa universale privandola, in tal modo, della sua funzione originale di creatrice di propria cultura e tradizione di fede. In altre parole, l’accentramento del potere pontificio fu a discapito della libertà creatrice delle singole chiese locali ridotte al rango di espressioni puramente amministrative della più grande Chiesa universale di cui il papa era simbolo. Ciò sarà molto più evidente in epoca missionaria quando si imporranno a culture distanti nel tempo e nello spazio da quella romana usi e liturgie per loro praticamente incomprensibili originando quel sistema ibrido di credenze pagane e cristianesimo. Siamo chiaramente in antitesi dal progetto originario tipico della chiesa apostolica e sub apostolica ove le singole tradizioni convivevano pur nella uniformità dottrinale.

Era nata, così, l’idea della Ecclesia Romana retta dal papa e dai cardinali a cui le singole chiese locali dovevano uniformarsi anche a scapito delle loro peculiari tradizioni. Già il Lateranense IV del 1215 vedeva nel concilio provinciale uno strumento utile per l’attuazione del diritto generale, papale e conciliare che, di fatto, ne limitavano l’azione. L’istituto che doveva fungere da termometro di una fervente vita ecclesiale veniva relegato ad un mero dispositivo applicativo di decreti e norme di produzione esterna all’ambiente di destinazione. Stessa sorte subì, naturalmente, il sinodo diocesano limitato dalla maggiore importanza attribuita al capitolo cattedrale e dalla rafforzata autorità del vescovo diocesano stabilita a Trento. Anche il fenomeno della cumulabilità delle sedi episcopali nelle mani di pochi vescovi impedì di fatto lo svolgersi di una normale prassi sinodale.

Ulteriore stretta venne dal papa Sisto V che con la bolla Immensa aeterni del 1588 stabilì la previa approvazione della S. Sede per la promulgazione dei decreti dei concili provinciali, come già accadeva per quelli ecumenici e generali. Questo permetteva al pontefice di controllare le singole provincie e diocesi realizzando la tanto preconizzata uniformità a scapito della libertà creativa locale, stroncando le tendenze conciliaristiche.

Assistiamo così nel primo millennio della vita della Chiesa ad una vivace prassi sinodale, tendenzialmente attenta alle autonomie e alla libertà creativa in campo legislativo, disciplinare e amministrativo mentre nel secondo millennio vi è una involuzione: la prassi conciliare decade a favore di un accentramento dell’autorità pontificia. Possiamo concludere, quindi, che fu proprio l’autorità papale a bloccare la creatività locale propria dei concili provinciali e minori sacrificandola ad una maggiore uniformità. Siamo di fronte, allora, non a materia di fede rivelata ma a semplice espressione del potere pontificio e dunque umano e passibile di mutamento.
Vedremo come nelle Chiese ortodosse e Riformate il fenomeno sinodale rispecchia più fedelmente il modello apostolico e la stessa autorità e autonomia dei vescovi è più rispettosa delle tradizioni locali.

Sorge spontanea una domanda che verrà ripresa nel corso della trattazione: se le Chiese cattolica,  ortodossa e riformata, vivono pienamente la fede rivelata come è possibile che abbiano forme disciplinari diverse se queste promanano dalla stessa fonte, la Rivelazione? Forse la Rivelazione contiene dei principi universali a cui ispirarsi lasciando però libero il modo di esplicitarli tenendo conto dei contesti culturali e delle tradizioni locali? Non è forse questa attenzione all’uomo propria della vera esperienza religiosa  e, quindi, di Dio Padre che ha parlato al’uomo con parole umane? Una religione nasce quando l’uomo vuole dominare sia Dio che i propri simili. Il Regno di Dio, invece, nasce quando Dio e l’uomo si incontrano passeggiando nel cammino della vita.

Prassi sinodale nella Chiesa ortodossa.


I primi otto concili ecumenici, convocati direttamente dagli imperatori succedutisi al governo e senza la presenza diretta del papa, si celebrarono tutti in Oriente[6]. In seguito, però, l’attività conciliare in oriente subì un notevole rallentamento considerando anche le vicende storiche dell’impero bizantino che subì la perdita dei territori asiatici e nord africani e delle rispettive sedi patriarcali di Gerusalemme, Antiochia e Alessandria. Già il concilio di Calcedonia del 451 denunciava la diffusa disattesa nell’indizione dei concili provinciali, denuncia che non sortì gli effetti desiderati se  quasi trecento anni dopo i concili Trullano del 692 e di Nicea del 787 deprecavano l’immutata situazione.

Una delle cause  di questa disaffezione nella prassi conciliare è da ravvisarsi nella politica egemone assunta dal patriarca di Costantinopoli il quale “… perseguì una politica primaziale parallela a quella del vescovo di Roma”[7]. Inoltre la consuetudine dei vescovi metropoliti di risiedere presso la corte imperiale impediva de factu lo svolgimento di una ordinaria prassi sinodale. Comunque sia, le statistiche indicano ben 71 sinodi straordinari celebrati nel periodo tra il 314 e il 1452. Questi sinodi, però, non furono mai espressione di tutta la chiesa orientale.

Accanto a queste forme sinodali ordinarie si andò affermando, non senza resistenze, una consuetudine di origine imperiale: il sinodo endemusa. Questa forma di sinodo si impose a Costantinopoli che “nato come sinodo imperiale, convocato e presieduto dall’imperatore, il quale occasionalmente riuniva i vescovi già presenti o venuti espressamente nella capitale per trattare di questioni ecclesiastiche riguardanti tutto l’impero”[8]. In seguito al riconoscimento di Costantinopoli come patriarcato tale sinodo fu presieduto dal patriarca. Tramite esso, il patriarca di Costantinopoli seppe imporre la propria ingerenza ad altri vescovi. Successivamente il sinodo endemusa “divenne una struttura di potere fortemente gerarchizzata attorno all’autorità primaziale del patriarca, ma incominciò anche a lavorare in permanenza, staccandosi però sempre più dalla base ecclesiale della chiese particolari dove i vescovi non mantenevano più la loro residenza”[9]. In seguito alla conquista turca del 1453 anche il sinodo si trasformò prevalendo l’idea che l’episcopato poteva essere legittimamente rappresentato da un collegio ristretto di 12 metropoliti. L’ultimo sinodo endemusa venne celebrato nel 1872.

Con il formarsi di stati moderni a seguito delle varie rivoluzioni europee, nacquero le chiese autocefale ortodosse che ridussero notevolmente l’autorità del sinodo endemusa a favore di una ripresa delle antiche forme sinodali.
Anche per la Chiesa ortodossa, dunque, si assiste ad una progressiva limitazione delle autonomie locali a favore di un marcato accentramento del patriarcato di Costantinopoli il quale, tramite l’istituto del sinodo endemusa, esercitò di fatto un controllo gerarchizzato e sempre meno rappresentativo di una reale collegialità episcopale. Solo quando le vicende storiche lo permisero la Chiesa ortodossa tornò al suo ideale di autonomia, privilegiando un ritorno ad altre forme di assemblea più rispettose del principio di libertà creativa delle chiese particolari.

Concludendo questo breve panorama storico, si evidenzia come nelle due grandi Chiese sorelle, la cattolica e la ortodossa, lo spostamento dell’asse collegiale verso un potere centralizzato e totalizzante, pur partendo da assetti costituzionali diversi, ha portato ad una sempre più limitazione delle libertà locali. È come se nella gerarchia vi fosse un connaturato orientamento teso all’imposizione della propria visione di fede e del proprio modo di vivere questa fede che esclude ogni altra forma diversa da questa. Unità di fede non significa automaticamente anche uniformità di linguaggi teologici ed espressioni culturali univoche, a cui vengono sacrificate le libertà e le forme tradizionali diverse da quella imposta. La storia insegna come tutto può essere relativizzato in un mondo in perenne mutamento. Voler sacramentalizzare ad ogni costo forme giuridiche espressione di specifici momenti storici e contingenze politiche mostra poco rispetto per le culture da egemonizzare e, soprattutto, per le libertà dei fedeli di ogni tempo e in particolare per quelli che verranno dopo.

La storia dei sinodi mostra, al di là di ogni dubbio, la peculiare attenzione alle autonomie locali, autonomia soffocata da secoli di involuzione e mai più tornata nella Chiesa latina a dispetto di tutte le concessioni date ai laici e ad altri organismi intermedi ecclesiali, e restaurata poco e male nella Chiesa ortodossa. Occorre un atto coraggioso dell’episcopato cattolico per rivendicare quello che erano le prerogative di una chiesa veramente apostolica e liberarsi dalle pastoie di secoli di egemonia Romana.

La sinodalità episcopale.



La “communio ecclesiae” è un tratto distintivo della Chiesa e la sinodalità è una sua espressione più genuina. Il concilio Vaticano II (1962-1965) non ha saputo fornire una esauriente definizione della sinodalità in termini dottrinali. Temi quali “conciliarità”, “collegialità”, “sinodalità”, non appaiono nei testi conciliari. “Il Vaticano II, usando con prevalenza accezione tecnica dell’aggettivo “collegiale”, ha dato adito all’equivoco secondo il quale la sinodalità – poco felicemente tradotta dalla dottrina teologica corrente con “collegialità” – si identifica con l’attività dei vescovi riuniti in concilio”[10].

Ora è ovvio che non ogni atto del magistero episcopale, anche se compiuti in comunione fra loro e con il Papa, è un atto sinodale. Perché tale atto sia inteso in questo senso in modo chiaro e univoco è necessario che le singole volontà vengano meno per far posto ad una volontà collegiale che si esprima appunto nella sinodalità. Per questa mancanza del Vaticano II si può dire che mentre il Vaticano I è stato un concilio tendenzialmente filo papale (fu infatti il concilio che definì l’infallibilità del papa) il Vaticano II fu filo episcopale estendendo i poteri di quest’ultimi.

La sinodalità fa emergere in modo più completo la communio coinvolgendo non solo la funzione giurisdizionale della Chiesa ma anche le dimensioni sacramentali, teologiche e mistiche. La sinodalità, perciò, non costituisce un limite al potere del singolo vescovo ma la inserisce nella perfetta unione ecclesiale. Si va oltre l’antinomia individuo/collettivo risolvendo la contraddizione insita nella costituzione della Chiesa della coesistenza di termini opposti quali da un lato la gerarchia monocratica (il Papa nella Chiesa universale, il vescovo nella chiesa particolare) e dall’altro un vero partecipazionismo democratico.

La sinodalità potrebbe costituire una risposta creativa all’accusa di essere, la Chiesa, l’ultima monarchia assoluta esistente ove tutto il potere è nelle mani di uno solo, il Romano Pontefice (o la Curia?), a dispetto degli organismi collegiali che il diritto canonico prevede. È chiaro che la visione di sinodalità  è espressione del modo di concepire il potere nella Chiesa. Nella concezione discendente del potere che da Cristo quale capo della Chiesa passa ai suoi vicari, il papa e il collegio episcopale, risulta che tale potere non potrà mai essere partecipato per delega a chi è sprovvisto di tali requisiti (i laici). Se, al contrario, il potere nella Chiesa è inteso come servizio ossia necessario per mediare i sacramenti di salvezza, allora l’esercizio di tale potere può avere una dimensione orizzontale aprendosi ad una partecipazione più larga e ad una vera sinodalità.

È necessario ribadire che nella Chiesa il capo è Cristo mentre essa ne costituisce il corpo mistico. Il potere che ne deriva può benissimo essere partecipato ad altri soggetti diversi dal ministero sacro in quanto è la Chiesa nel suo insieme ad essere soggetto e oggetto di tale potere. Il ministro sacro, e in tal modo la gerarchia, partecipa a questo potere in quanto facente parte della communio ecclesiae. In tal modo si supera l’assurdo di ritenere chiesa una realtà ove sia presente anche un solo consacrato. Nel passato si discuteva se poteva definirsi chiesa una parrocchia ove esistesse solamente il sacerdote ma neanche l’ombra di un fedele. Si rispondeva affermativamente perché si credeva che il ministro sacro rendesse presente la chiesa nella sua interezza. Salta subito all’evidenza come simile concezione sia pretestuosa in quanto la Chiesa non esiste per se stessa ma per veicolare la salvezza. Questo modo di pensare ha dato anche impulso alle messe senza popolo dove il celebrante è rappresentante della chiesa assente. In tal modo si supera l’altrettanto assurdo vezzo di equiparare l’episcopato ad un titolo onorifico (i cosiddetti vescovi senza diocesi). È pur vero che, secondo l’ecclesiologia cattolica, il concilio ecumenico non rappresenta Cristo perché solo il singolo vescovo può farlo ma è altrettanto vero che il concilio rappresenta la Chiesa la quale non può agire separatamente da Cristo suo sposo e capo.

Ora, “la Lumen Gentium 23,1 afferma che la Chiesa universale si realizza nella e dalle chiese particolari” per cui la sinodalità ha “la propria genesi non nel rapporto dei vescovi tra loro, ma nel loro rapporto con il romano pontefice”[11]. L’intenzione della  Lumen Gentium è quindi subordinare la sinodalità all’unione con il Papa. Certo, il pontefice come simbolo di unità può ben essere considerato come elemento di rapporto con il sinodo ma rapporto di unità e comunione non di potestà. Il Romano Pontefice non è al di sopra o al di fuori della Chiesa quale suo monarca assoluto ma è nella Chiesa come primus inter pares e non come unico detentore del potere ecclesiale effettivo. Vi sono elementi di partecipazione legislativa ma in definitiva la ratifica finale spetta sempre al Papa stabilendo così de facto et de iure un’autorità assoluta e insindacabile. È bene ribadire che la Chiesa non è composta solo dalla gerarchia ma anche e soprattutto dal popolo di Dio di cui la gerarchia è ministra e servitrice e non unica attrice attiva di ogni manifestazione ecclesiale. Nel passato frase ricorrente soleva  affermare che il popolo santo di Dio era solamente da ammaestrare ma non poteva in alcun modo insegnare (discendi sed non docendi) stabilendo un predominio clericale assoluto.

La teologia cattolica insegna che “del collegio dei vescovi si può affermare che esercita il pieno e supremo potere di ordine nel senso che tutti i vescovi, membri del collegio, posseggono tutto il potere di ordine”[12].  Senza voler necessariamente collegare l’esercizio della sinodalità, rientrante nelle facoltà del potere di ordine insito nel ministero episcopale, alla sacramentalità della persona del vescovo, si può benissimo porre questa esigenza della sinodalità nella struttura stessa della Chiesa. Come il papato è funzionale alla Chiesa cattolica senza per questo essere la figura del pontefice rientrante nei tre gradi dell’ordine sacro (che è bene ricordare composto dal diaconato, presbiterato e episcopato), così la dimensione sinodale della Chiesa può benissimo coesistere con la sacramentalità della medesima senza però restarne coinvolta.


Sinodalità presbiterale e laicale


Abbiamo visto come la sinodalità nella Chiesa latina è stata nel corso dei secoli subordinata all’autorità primaziale del pontefice. Ma allora come è possibile parlare ancora di sinodalità soprattutto in una chiesa che ha sempre accentuato il divario tra clero e laicato?

La costituzione dogmatica Lumen Gentium del Vaticano II ha dichiarato che nella chiesa particolare si deve realizzare tutta la chiesa universale. Il problema di fondo dell’ecclesiologia cattolica è che essa slega la dimensione teologica da quella storica, cosa molto strana in una chiesa sempre attenta alla storicizzazione del messaggio di salvezza. Ancorando la chiesa locale alla celebrazione eucaristica e al ministero sacerdotale si evince che la rappresentanza ecclesiale fa capo non alla struttura della chiesa, che si articola in comunità locali, ma all’unione sacramentale con il vescovo. Chiaramente tale visione ecclesiologica riflette l’aspetto verticistico assunto dalla Chiesa Cattolica. Anche facendo propria la suddivisione nei tre gradi dell’ordine, si deve ricordare che vescovi e presbiteri formano un’unità sacramentale nella rappresentanza di Cristo (il diaconato ne sarebbe escluso?) mentre il papato ha solo una funzione giuridica, storicamente localizzata, per cui non le si può attribuire una dimensione così assolutizzata. Perché per poter avere legittimo potere all’interno della comunità ecclesiale i tre gradi dell’ordine devono essere necessariamente in comunione con il Papa, la quale è una figura funzionale e non,ripetiamo, sacramentale?

La partecipazione dei laici alla sinodalità della Chiesa non può essere concepita solo come concessione del clero ma è un pieno diritto derivato loro dall’essere chiesa e iscritto nel battesimo. Di fatto nell’antichità la partecipazione dei laici era avvenimento normale mentre nel medioevo la loro funzione divenne come rappresentanza del potere secolare. Attualmente la prassi sinodale stenta a riconoscere che anche il laicato ne ha pieno diritto derivato dai tre munera Christi escludendo qualsiasi pretesa esclusiva ministeriale.

È sorprendente notare come la partecipazione del laicato alla sinodalità venga ribadita in un’epoca di notevole diminuzione di clero. Molto spesso la tanto osannata apertura al laicato è soltanto un tipo di reclutamento lì dove il clero ha subito forti riduzioni. Questa apertura apparentemente democratica resta influenzata dalla natura gerarchica della Chiesa che si riflette nell’istituto del voto: esso è deliberativo per la gerarchia mentre è consultivo per il laicato. Infatti “le strutture sinodali non sono fondate sul principio parlamentare moderno della rappresentanza o delega del potere, ma sull’ufficio ecclesiale; solo la testimonianza di chi è investito di un ministero è vincolante giuridicamente”[13]

Conclusioni



A nostro giudizio la sinodalità è propria di una Chiesa democratica, così come si caratterizzava nei primi due secoli della sua vita. Democrazia non è sinonimo di anarchia perché, come si è visto, queste comunità si scambiavano reciprocamente i dispositivi presi nei vari sinodi ma lasciavano libertà di accogliere o meno nei loro canoni tali disposizioni. Solo una Chiesa organizzata gerarchicamente non rende possibile un reale esercizio di questa libertà anche se nel suo interno prevede organi collegiali. La sinodalità diventa così “la modalità giurisdizionale attraverso la quale viene garantita, a livello di interpretazione autoritativa della parola, l’unità dei vescovi all’interno della communio ecclesiarum”[14]. L’ecclesiologia cattolica però fa derivare questa interpretazione autoritativa della comunione con il Papa e dunque è questa comunione con il Romano Pontefice il vero fondamento della sinodalità e non la comunione dei vescovi fra loro. Sappiamo dalla storia dei concili come questo fondamento si sia compreso solo nel tempo, attraverso il suo divenire storico. Ora a noi sembra che la sinodalità preceda questa unione dei vescovi con il papa in considerazione dell’autonomia delle chiese particolari che liberamente decisero di convocarsi in concili. Appare evidente, quindi, che fu il sinodo a fare per prima la sua comparsa nel tempo e, in seguito all’affermarsi dell’autorità del Papa, lentamente cadde in disuso. Chi segue non può essere fondamento di ciò che precede.

Il Vaticano II ha intuito questo aspetto debole dell’ecclesiologia cattolica per questo ha limitato i poteri delle conferenze episcopali evitando ogni velleità di democrazia nella organizzazione della Chiesa. Infatti: “dal momento che la conferenza è solo un’istanza gerarchica intermedia, ultimamente subordinata alla S. Sede, sarebbe stato possibile dal profilo strettamente teologico investirla di una competenza collegiale generale. Tuttavia non si può prescindere dal fatto che, non essendo strutturata internamente in modo gerarchico, sarebbe costretta ad applicare in modo esclusivo il criterio maggioritario, nella sua unilateralità ultimamente estraneo alla sostanza dell’ecclesiologia cattolica. Dal profilo di una politica legislativa si tratta di scegliere tra i vantaggi, indubbi, offerti da una gestione collegiale generalizzata del potere ecclesiale in una società dai nessi sempre più complessi, e gli svantaggi che il possibile equivoco democratico può far nascere nella coscienza della base ecclesiale”[15].

Le chiese orientali e riformate al contrario di quella latina hanno saputo conservare meglio la collegialità episcopale e l’elemento democratico della partecipazione ecclesiale. Partendo da una ecclesiologia più ancorata al dato rivelato e radicandosi nel modello trinitario, la Chiesa ortodossa ha sviluppato una teologia dell’ordine episcopale completamente sganciata dalla sfera giuridica; ne risulta che i vescovi ortodossi sono veramente uguali fra loro. Tale ecclesiologia “si è tradotta in un sistema costituzionale paritario e acefalo, in cui la competenza ultima non spetta mai ad una autorità individuale, ma ad un collegio di vescovi”[16].

Il sinodo endemusa fu l’espressione di questa collegialità episcopale particolarmente democratica. Infatti “il suo regime è paritario poiché il patriarca, essendo semplicemente il primus inter pares, non ha lo stesso potere primaziale di cui gode il papa all’interno del concilio ecumenico e il metropolita all’interno del concilio provinciale”[17]. Tra patriarca e sinodo vi è un rapporto di reciproca dipendenza: “se il sinodo non può procedere senza patriarca, quest’ultimo non può prendere nessuna decisione importante senza di esso”[18].

Dal canto loro le Chiese Riformate mantengono forte autonomia locale caratterizzandosi per incontri periodici in conferenze ove discutere di problemi comun i ma senza imporre decisioni assolute.

Da ultimo, si evince come il carattere partecipativo delle Chiesa orientali  e riformate sia più marcato di quella latina. Queste varie chiese hanno sviluppato modelli ecclesiologici e giuridici diversi pur partendo dallo stesso dato rivelato, la Sacra Scrittura.











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[1] Dizionario di Teologia, voce Sinodalità, pag. 1432.
[2] Op. cit., pag. 1433.
[3] Op. cit., pag. 1434.
[4] Op. cit., pag. 1435.
[5] Op. cit., pag. 1437.
[6] 2 a Nicea, 4 a Costantinopoli, 1 a Efeso e 1 a Calcedonia.
[7] Op. cit. pag. 1443.
[8] Op. cit., pag. 1444.
[9] Op. cit., pag. 1445.
[10] Op. cit., pag. 1447.
[11] Op. cit., pag. 1448.
[12] Op. cit., pag. 1449.
[13] Op. cit., pag. 1455.
[14] Op. cit., pag. 1450.
[15] Op. cit., pag. 1450.
[16] Op. cit., pag. 1451.
[17] Op. cit., pag. 1451.
[18] Op. cit., pag. 1451.

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