lunedì 14 maggio 2012

Noè uomo giusto e irreprensibile

Noè uomo giusto e irreprensibile.[1]

Nel brano di Ge 6,9-13 Noè, da solo, viene messo a confronto con la totalità del mondo; nello stesso tempo parlare del solo Noè non sarebbe corretto perché egli non compare come individuo, ma è presentato in relazione alla “storia della famiglia” (genealogia, in ebraico toledot) descritta già nel cap. 5. Il passo recita:
“Questa è la posterità di Noè. Noè fu uomo giusto, integro, ai suoi tempi; Noè camminò con Dio (con la divinità[2]). Noè generò tre figli: Sem, Cam e Iafet. Or la terra era corrotta davanti a Dio; la terra era piena di violenza. Dio guardò la terra; ed ecco, era corrotta, poiché tutti erano diventati corrotti sulla terra. Allora Dio disse a Noè: Nei miei decreti, la fine di ogni essere vivente è giunta poiché la terra, a causa degli uomini, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò (ed ecco, io sono la sua rovina), insieme con la terra”.
Noè fa qui la sua comparsa e la sua condotta di vita viene messa confronto con quella di ogni “carne”: ma come viene descritto questo personaggio? Per quanto riguarda il testo nel suo complesso, la caratterizzazione di Noè fornisce una spiegazione relativa all’ultima frase del passo precedente, in cui si diceva che egli trovò benevolenza agli occhi di Dio, perché apparve al Signore così com’era al suo sguardo. La “grazia” di Dio non è né un atto di arbitrio, né una conseguenza prevedibile della virtù di Noè. Le affermazioni su Dio e su Noè sono affermazioni di relazione, e ciò risulta anche dalle parole che definiscono il cammino di Noè e che lo descrivono innanzitutto come saddiq, termine che per lo più viene tradotto con “giusto”. Questa traduzione non è errata ma non mette sufficientemente in risalto che si tratta di una categoria di relazione: saddiq, infatti, è colui che si comporta in modo conforme ai costumi della comunità, che dimostra solidarietà verso il prossimo e che perciò ha diritto anche alla solidarietà e alla fedeltà della comunità. Giuseppe, padre di Gesù, è detto uomo giusto  inserendosi in questa linea (cfr 1,18-19). La giustizia biblica, più che una norma, è una prassi, quella di coloro che prendono le parti dei più deboli e li aiutano a ottenere giustizia. Noè, evidentemente, non si è comportato in modo giusto solo una volta, ma è definitivamente diventato uomo giusto: ciò distingue il suo cammino, in cui egli fu tamin, affidabile, irreprensibile, e proprio in questo senso “devoto”. Un’ulteriore precisazione mostra qualcosa di enigmatico: Noè è stato tale “nelle sue generazioni”. Perché il plurale? Un uomo non appartiene soltanto ad una generazione, cioè alla propria? Ci sono varie possibilità di lettura su cui il plurale “generazioni” può richiamare l’attenzione. Forse esso intende esprimere il fatto che un uomo vive nell’ambito di diverse generazioni e spesso conosce nonni e genitori e, forse più tardi anche i propri figli e nipoti; inoltre vive a contatto con più generazioni. Nella tradizione esegetica rabbinica si fa riferimento a un’altra relazione e queste parole vengono lette come se Noè fosse stato un uomo eccellente in confronto alle sue generazioni. Da una parte possiamo affermare che Noè fu uomo straordinariamente buono rispetto agli esseri umani delle diverse generazioni che vissero al suo tempo, ma in altre epoche, per esempio quella di Abramo o di Mosè, la sua virtù non sarebbe emersa in modo così evidente; da questo punto di vista il testo conterrebbe una notevole limitazione e lascia adito ad una critica a Noè, soprattutto riguardo al fatto che egli si sia adoperato poco per gli altri esseri umani. L’altra possibile lettura sostiene invece il contrario ed interpreta quest’affermazione come una lode più grande, perché nelle sue generazioni, ossia in un mondo sempre più malvagio, il cammino di Noè fu segnato da giustizia e devozione: in altre epoche sarebbe stato più facile ma Noè riuscì ad essere uomo giusto ed integro persino in quelle. Quale di queste possibili letture è quella giusta? Non è  questa la domanda da porre. Quello che conta è richiamare l’attenzione sulle diverse possibilità che il testo offre; esso resta sostanzialmente aperto. Per quanto riguarda l’uso del plurale nell’espressione “nelle sue generazioni”, ci sono altre significative possibilità di lettura e di interpretazione che pongono l’accento su diversi aspetti del personaggio Noè. Quest’uomo visse in due millenni ma, soprattutto, in due eoni; l’epoca precedente e quella successiva al diluvio. Egli è l’unico padre di una famiglia per cui valga tale particolarità. La suddivisione della vita di Noè in un’epoca anteriore e in una successiva al diluvio, espressa esplicitamente da Ge 9,28, prende il posto di quella che per gli altri patriarchi è data dalla distinzione tra l’anno che precede e quello che segue la generazione del primogenito (cfr Ge 5,4.7.10.13.16.19.22.26.30 con il punto su Noè in Ge 9,28). Per la vita di Noè, tuttavia, non è il fatto di diventare padre che contraddistingue in modo decisivo un “prima” e un “dopo”, bensì il diluvio. Egli visse pertanto in due epoche del mondo e, in questo senso, in due generazioni. Proprio per queste ragioni Noè va annoverato tra i patriarchi che vissero prima del diluvio e tra quelli postdiluviani; emerge una simmetria generazionale tra le due epoche: ai dieci patriarchi (da Adamo a Noè) di Ge 5 corrispondono i dieci patriarchi (da Noè a Tera) di Ge 11. Queste indicazioni meritano di essere approfondite perché raramente vengono prese in considerazione dalla tradizionale lettura ed esegesi cristiana della Bibbia: esse mostrano chiaramente come il testo biblico possa richiamare l’attenzione su determinati aspetti per poi convogliarla su altri particolari. Inoltre, tutto questo mostra come ogni testo biblico possa entrare in dialogo con altri dando avvio a interpretazioni sempre più complesse. La vita di Noè, quale appare nelle brevi indicazioni del testo biblico, diventa allora più ricca ma anche più contraddittoria; in altre parole è nei testi che Noè inizia a vivere realmente. Noè viene messo a confronto con un mondo corrotto, ma anche a questo riguardo dobbiamo esaminare attentamente le parole e i loro riferimenti trasversali: il termine “corrompere” (verbo shahat che nei vv. 11-13 compare quattro volte) è una parola chiave del passo, presentandosi in forme grammaticali precise, che evidenziano una relazione interna tra la terra corrotta e la distruzione che Dio vi porta. Il termine compare una prima volta in forma riflessiva: la terra si è corrotta perché tutto è pieno di violenza. Nel versetto successivo questa condizione è caratterizzata da un participio: Dio vede che la terra è corrotta. Subito dopo, lo stesso verbo si presenta in una forma che sembra indicare una responsabilità: la corruzione della terra consiste nel fatto che ogni essere vivente (ogni carne) ha corrotto il proprio cammino, al propria vita. La violenza è diventata epidemica ed ha contagiato tutto, perciò anche gli animali vanno sterminati, non perché cattivi in sé, perché contagiati dalla violenza. Al momento della creazione, in Ge 1, uomini e animali non si uccidono a vicenda perché vegetariani. Al v. 29ss ad essi vengono assegnati alimenti diversi, quasi occupassero spazi diversi nella casa della creazione. La violenza, però, ha abbattuto le pareti divisorie ed ora tutta la terra ne è contaminata: per questo tutto deve essere cancellato. Con il diluvio Dio porta alle estreme conseguenze la condizione che già regna sulla terra: dal punto di vista linguistico ciò è indicato dal fatto che nell’ultimo versetto Dio stesso si definisce “la rovina” e precisamente con un participio del verbo shahat, che in precedenza era stato usato per definire un tipo di azione cui segue un effetto[3]. Dio manda in rovina ciò che è corrotto. Ma chi ha causato questa corruzione? È possibile che essa fosse già insita nella creazione stessa? La risposta va cercata in quell’azione dei “figli di Dio” descritta in Ge 6,1-4? La storia biblica lascerebbe spazio a più di una risposta, ma in questo preciso contesto una sola è possibile: la causa della corruzione è, secondo Ge 6,5ss, la malvagità di tutto ciò che è prodotto dall’essere umano. Soltanto Noè fa eccezione: con lui tutto deve ricominciare e rinnovarsi. Sarà l’umanità a rinnovarsi, oppure Dio si accorge della dignità della propria terra e delle sue creature e non le colpirà più? Il racconto non è ancora giunto al momento della decisione, e non  vi è giunto neppure Dio. Per ora, la questione importante è che un'unica divinità deve conciliare in sé e con sé entrambe le cose: la distruzione e la salvezza.


[1] Liberamente tratto da J. Ebach,Noè, la storia di un sopravvissuto, ed. Claudiana, 2002.
[2] Il termine ebraico che indica Dio (Elohim), che non va confuso con il nome proprio del Dio d’Israele compare qui con l’articolo. Questa espressione usata a riguardo di Dio esprime una grande distanza, che viene espressa nella traduzione “la divinità”. Il fatto che essa venga tradotta al femminile è un utile ricordo del fatto che Dio, nella Bibbia, non è affatto ridotto ad un essere maschile.
[3] In Es 12,23 ricompare la stessa radice linguistica nella denominazione dello sterminatore (mashit) che uccide i primogeniti egizi. Anche qui il motivo della salvezza si collega in modo drammatico a quella distruzione, ed entrambi questi motivi a Dio.

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