martedì 17 aprile 2012

Paolo e il messaggio cristiano.

Paolo e il messaggio cristiano.   

Il primo incontro di Paolo con il messaggio di Gesù avvenne nella comunità di lingua greca. Sicuramente fu istruito ad Antiochia dove Anania prima e Barnaba poi lo resero edotto sugli insegnamenti del Maestro i quali, essendo inseriti in una comunità di lingua greca, purificarono il messaggio evangelico da quelle che consideravano impurità giudaiche come la dipendenza dalla Legge, la circoncisione, la fedeltà ai culti templari. Questo retroterra culturale e la provenienza da una comunità ellenistica segnarono il nuovo pensiero di Paolo e tracce di questa rielaborazione sono evidenti nelle sue lettere. In esse sono presenti materiali più antichi, delle forme arcaiche, risalenti certamente alle comunità ove egli soggiornò e formò il suo pensiero. Gli studi di Kuss hanno evidenziato le difficoltà nel distinguere ciò che Paolo ha ricevuto dal cristianesimo giudeo-ellenistico da ciò che gli è stato tramandato dalle comunità di lingua aramaica[1].
Paolo mostra di conoscere la tradizione relativa all’Ultima Cena (1Cor 11,23-25; cfr Lc 22,19-20) e alla risurrezione (1Cor 15,3;); conosce la prassi battesimale (Rm 6,1-7; cfr At 2,41); i carismi (1Cor 12-14; cfr At 2,4; 10,46; 19,6). Sembra condividere la preferenza di Gesù per il celibato a favore della missione (1Cor 7,26; cfr Mt 19,12) e dell’indissolubilità del matrimonio (1Cor 7,10-11; cfr Mc 10,11).
Inoltre, Paolo sembra ignorare fatti importanti della vita di Gesù quali il suo battesimo, le tentazioni, i miracoli, le parabole,   le controversie con i farisei, non parla della passione pur facendo della morte di Gesù il tema portante della sua teologia. Ancora, pur attribuendo molta importanza alla sua visione di Gesù tanto da indicarlo come l’inizio della sua vocazione apostolica al pari degli altri Dodici, non menziona affatto le varie apparizioni post-mortem ai discepoli. Su Gesù Paolo fa solo affermazioni generiche: Gesù è ebreo (Rm 9,5), il re Davide è un suo antenato (dando prova così di conoscere le genealogie), ponendolo nella dinastia regale (Rm 1,3), è sottoposto alla Legge Mosaica ed ha avuto origine umana (Gal 4,4), Giacomo è il fratello di Gesù ed è a capo della Chiesa di Gerusalemme (Gal 1,19; 2,9.12; 1Cor 15,7), che Gesù ha dei fratelli (1Cor 9,5).[2] Sembra riconoscere a Pietro un ruolo preminente quale capo del gruppo dei Dodici (1Cor 1,12; 3,22; 9,5; 15,5; Gal 1,18; 2,7-14). Una volta menziona Giovanni (Gal 2,9). Paolo afferma che Gesù istituì la Santa Cena la notte in cui venne tradito (1Cor 11,23), che morì in croce (Gal 3,1; 1Cor 2,2ss) e che, dopo essere stato sepolto, risuscitò il terzo giorno (1Cor 15,6).  Ciò che gli studiosi non riescono a spiegarsi è il silenzio di Paolo su particolari importanti della vita di Gesù che ben avrebbe dovuto conoscere e perché non abbia utilizzato la tradizione evangelica che, sebbene agli inizi, era comunque vincolante. Si può ipotizzare una differenza di catechesi tra la comunità di Gerusalemme, di stampo giudaico, e la comunità di Antiochia, di stampo ellenico. L’episodio dell’istituzione dei diaconi narrato dagli Atti degli Apostoli mostra come tra i due gruppi ci fosse qualche attrito[3]. Bisogna dire che tra Paolo e Gesù si inserisce la comunità cristiana primitiva, dunque Paolo ha una conoscenza mediata di Gesù. Egli, non avendo sperimentato il Maestro di persona, non si interessa ai suoi aspetti biografici come invece fanno i  Sinottici; si preoccupa, al contrario, di dare un significato alla sua morte e risurrezione. È anche possibile che la credenza di Paolo nell’imminente fine del mondo, come si evince dalla sua prima lettera ai Tessalonicesi, derivi dalla sua fede nella risurrezione. Infatti i farisei ritenevano che la fine del mondo sarebbe giunta allorché i morti avrebbero cominciato a risorgere; ora Paolo è fariseo e la sua fede nella risurrezione di Gesù lo porta di conseguenza a ritenere prossima la fine del mondo.
Paolo nelle sue lettere riporta varie espressioni liturgiche aramaiche, segno che le ha ricevute dalle comunità di lingua aramaica: αμήν (Rm 1,25; 1Cor 14,16ss); Μαραναθά (1Cor 16,22); Аββά (Gal 4,6; Rm 8,15). Paolo si serve anche di formule utilizzate nelle assemblee comunitarie: alcune sono delle omologie, ossia delle solenni dichiarazioni di fede in Gesù (1Cor 8,6; 12,3; Fil 2,11;); altre sono professioni di fede riguardanti il passato (1Tess 1,9b-10; 4,14a; 1Cor 15,3-5; Rm 1, 3-4; 4,25; 14,9;).
Per quanto riguarda l’inno contenuto in Fil 2,5-11 la sua origine è controversa. La maggioranza degli studiosi ritiene che l’inno sia proprio di Paolo mentre Lohmeyer fu il primo a sostenere l’origine prepaolina di questo brano[4].
b) Paolo e il suo retaggio culturale.
Molti studiosi hanno ravvisato nel pensiero di Paolo influssi provenienti dalle religioni misteriche greco-orientali ove i salvatori, denominati appunto κυριοι, abbondavano. Questi culti erano aperti anche a infiltrazioni di tipo gnostico. Le affinità del linguaggio paolino con terminologie proprie di questi culti favorirebbe tale ipotesi. Il dio salvatore (σωτήρ) era già contemplato nelle religioni pagane; la stessa comprensione dei sacramenti come mezzo per comunicare misticamente alla morte e risurrezione di Cristo trova analoghe corrispondenze nei riti pagani che celebravano la morte e risurrezione della divinità e comunicavano salvezza e immortalità agli adepti tramite il pasto sacro. L’insistenza paolina sull’incarnazione, l’unione mistica con Cristo, i sacramenti, la stessa divinità di Cristo sono concetti estranei al giudaismo e che Paolo prendere a prestito dagli ambienti misterici orientali e greci. Lo studioso Wendland fu il primo a stabilire un nesso tra il pensiero di Paolo e la gnosi orientale e che il cristianesimo può comprendersi solo sulla base di una mistica pagana[5]. Anche in ambito liturgico è possibile una comprensione del culto cristiano solo basandosi sui culti misterici: gli studi condotti dal monaco Odo Casel sono illuminanti sulla questione.
Indubbiamente vi sono profonde similitudini con il pensiero gnostico se molti maestri di questa scienza nascosta elessero l’Apostolo delle genti a loro campione. La teologia della redenzione, tipica di Paolo, offre sorprendenti somiglianze con l’idea gnostica della salvezza tramite una sapienza divina che consente di giungere alla conoscenza del vero io e che permette di risvegliare quella parte spirituale (la scintilla divina) che abita in ogni uomo. Altri autori invece ipotizzano una diversa derivazione del pensiero paolino, ravvisando in esso tratti caratteristici del mondo giudaico. Secondo questi studiosi Paolo attinge alla sua formazione rabbinica gli elementi dominanti della sua teologia esprimendoli e adattandoli nell’orizzonte della sua azione in ambienti ellenici. Forti sono i parallelismi con temi presenti nell’apocalittica giudaica. Nei suoi scritti abbondano i midrashim su Abramo, Adamo e altre figure-tipo dell’Antico Testamento. Gli studi di Sanders hanno sottolineato come, confrontando l’ambiente religioso giudaico con la teologia di Paolo, emerge che il primo privilegia il «nomismo del patto» ossia la fedeltà alla Legge come condizione necessaria alla salvezza mentre nel secondo predomina l’«escatologia partecipazionista» ossia l’essere in Cristo mediante la fede come unica via di salvezza[6].     
Dunque, Paolo radicherebbe il suo messaggio nella tradizione religiosa di Israele, ma se ne distaccherebbe anche. È illuminante un passo dello studioso Romano Penna: “In parte L’Antico Testamento per Paolo è obsoleto e da rifiutare (AT come legge); in parte , esso è preannunzio,cioè preparazione e quindi valorizzazione in senso positivo (AT come promessa); in parte, conserva intatta l’autorità di libri ispirati e divini (AT come Scrittura); infine, e come conseguenza, esso fornisce a Paolo in maniera determinante abbondanza di materiale concettuale e lessicale, come imprescindibile mezzo espressivo (AT come linguaggio)”[7]. Insomma, Paolo sembrerebbe tradire una certa dipendenza dalle comunità di origine aramaica. La scoperta di manoscritti a Qumran ha permesso di gettare nuova luce sull’apostolo, rivelando somiglianze con ambienti esseni. Sicuramente la figura di Paolo è talmente complessa che racchiuderlo in uno degli schemi dedotti da quanto sopra detto opererebbe un’ingiusta riduzione della genialità di questo discepolo di Cristo.
c) Paolo rilegge l’Antico Testamento.
Paolo rilegge l’Antico Testamento utilizzando l’esegesi rabbinica: la benedizione di Abramo (Gal 3,6-14); Agar (Gal 4,21-31); l’esempio di Abramo (Rm 4); il deserto (1Cor 10,1-5). Paolo impiega anche le categorie proprie delle correnti apocalittico-escatologiche (1Tess 4,13-5,10; 1Cor 15,51-53; 2Cor 5,1-10; Fil 3,11.20-21). Dagli esseni di Qumran, Paolo sembra trarre le opposizioni luce/tenebre e carne/spirito, la dottrina della corruzione dell’uomo, l’interesse per la conoscenza, l’attesa escatologica. Egli, così, sostituisce tematiche ormai antiquate con nuove riflessioni teologiche.
Contrario, invece, al mondo giudaico è appunto la sua polemica nei confronti della Legge Mosaica. Paolo qui opera una scissione nella sua rappresentazione della Legge data a Mosè: estrapola da questa le opere e le prescrizioni fino a farne una realtà a sé stante  contrapposta alla Legge stessa. Secondo la sua concezione i giudei confidano più nelle opere che non nel potere salvifico della Legge. Ora, nel giudaismo ufficiale non si conosce un simile problema: la Legge va osservata in quanto espressione dell’alleanza con Dio. Essa è, per citare Rm 7,12 “santa e santo e giusto e buono è il comandamento” e va seguita onde permanere in stato di amicizia con Jhwh; in caso di trasgressione l’istituto dell’espiazione permette al peccatore di riscattarsi e di ripristinare l’alleanza infranta. Anche se l’obbedienza alla Legge può sembrare un atto puramente umano alla base vi è sempre la libera elezione da parte di Dio, dunque un atto di grazia. Infatti solo Dio può rinnovare un’alleanza infranta. Per questo in molti profeti è frequente l’esortazione ad osservare l’alleanza mentre  Geremia va oltre preconizzandone una nuova. Tutto questo non deve distogliere l’attenzione dal fatto che si tratti solo dell’intervento gratuito di Dio. La LXX mostra molto bene questo importante punto traducendo  l’espressione ebraica kārat berit (tagliare un’alleanza) con l’espressione greca διαθήκην διατιθεμαι (stabilire un’alleanza) ponendo l’accento sull’azione divina che l’uomo può solo accettare. L’alleanza tra Dio e l’uomo, perciò, non è tra due contraenti di pari dignità e diritti ma tra un re e un suo vassallo. La gratuità dell’alleanza è sottolineata nel racconto della sua istituzione in Ge 15: Abramo non compie nessun rito, prende solo atto della volontà divina.
La posizione di Paolo nei confronti della Legge è tanto più incomprensibile se confrontato con l’atteggiamento assunto verso Israele, suo popolo. Se la salvezza deriva dalla fede in Cristo e Israele non ha aderito a questa fede, come potrà il popolo eletto giungere alla salvezza? Per Paolo l’abolizione della Legge non significa che Dio abbia rigettato completamente Israele anche se il popolo eletto è stato sostituito dal nuovo Israele, ossia la Chiesa. Il capitolo 11 della lettera ai Romani illustra questo punto, sotto certi aspetti oscuro, del pensiero paolino. Il sogno dell’Apostolo è che anche il popolo ebraico giunga alla salvezza perché inserito nell’alleanza abramitica, alleanza in cui è immessa anche la Chiesa, e i patti di Dio non possono essere invalidati[8]. Vi è stato un forte dibattito, ormai sopito e dimenticato dalla teologia cattolica,  tra due studiosi gesuiti il primo di origine bretone, padre Vhanoi, il secondo di origini tedesche, padre Lofink, sulla questione se l’alleanza con Israele sia ancora in vigore e che renderebbe l’antico popolo ancora strumento di salvezza. 
Ora, nelle lettere ai Galati e ai Romani, Paolo affronta la questione della superiorità della fede sulla Legge Mosaica. Punto di forza del ragionamento paolino è la storia del patriarca Abramo il quale fu giustificato senza conoscere le opere della Legge, che all’epoca non era ancora stata data a Mosè. Dunque per Paolo la fede viene prima della Legge ed è a questa superiore. Nel midrash sui due figli in Gal 4,22-26 Paolo mostra come l’alleanza sinaitica non può produrre la salvezza al contrario dell’alleanza abramitica: “Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello dalla schiava è nato secondo la carne; quello dalla donna libera, in virtù della promessa. Ora, tali cose sono dette per allegoria: le due donne infatti rappresentano le due Alleanze; una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, rappresentata da Agar – il Sinai è un monte dell’Arabia –; essa corrisponde alla Gerusalemme attuale, che di fatto è schiava insieme ai suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre”. Paradossalmente la storia del patriarca Abramo verrà usata per giungere a conclusioni opposte da uno degli avversari di Paolo, l’apostolo Giacomo il fratello del Signore.
Paolo considerando il Cristo come il salvatore trae da questo postulato le conclusioni logiche, sostituendo il Maestro alla Legge. Potremmo dire che per Paolo ora è Cristo la Legge. Mentre per i giudei l’osservanza della Legge realizza la comunione con Dio attualizzando l’alleanza non solo per tutto il popolo ma anche per il singolo che si pone in essa appunto nel momento in cui osserva i precetti, per Paolo è l’essere in Cristo a  realizzare la comunione con Dio. Per Paolo aderire alla Legge significa instaurare un rapporto di do ut des con Dio: “A chi lavora, il salario non viene calcolato come un dono, ma come debito; a chi invece non lavora, ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede gli viene accreditata come giustizia” (Rm 4,4; cfr. 10.3). Rinunciando alla Legge, invece, l’uomo rinuncia alla sua autosufficienza per consegnarsi totalmente nelle mani di Cristo Signore; scrive infatti l’Apostolo: “… e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede” (Fil 3,9).
La salvezza abbraccia anche la nostra esistenza terrena, ossia il nostro corpo che attende la risurrezione: “Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui” (1Tes 4,14); “E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8,11; cfr. 1Cor 15,12-20). L’uomo può accedere alla salvezza mediante la fede. È la fede la chiave di accesso al valore soteriologico del sacrificio di Cristo. La salvezza operata dal Cristo non riguarda soltanto l’uomo ma assume in Paolo proporzioni cosmiche: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,19-21). 
Da buon giudeo, Paolo è l’uomo della parola. Scrive nella sua Introduzione generale alle lettere paoline, Piero Rossano: “Volendo fare una diagnosi della parola di Paolo sulla base del suo epistolario e degli Atti degli Apostoli, si possono assumere come punti di riferimento tre termini significativi della sua fraseologia. La sua predicazione è παράδοσις, cioè tradizione, trasmissione di un annuncio codificato dagli Apostoli; ad essa si aggiunge una σοφία, cioè una sapienza, una specie di intelligenza spirituale della fede; e tutte e due, tradizione e sapienza, stanno in rapporto con una realtà che Paolo chiama spesso il mio vangelo, con la quale espressione sembra indicare ciò che è tipico e caratteristico del suo insegnamento”[9].
Come abbiamo avuto modo di considerare, Paolo radica il suo insegnamento nel filone veterotestamentario in cui vi scorge numerose prefigurazioni del Cristo. Questa abbondante messe di materiale tradizionale viene riletta in chiave cristologica: questa è la sapienza propria di Paolo. La ricchezza culturale ellenistica dell’Apostolo e il suo retaggio ebraico possono sintetizzarsi nella nuova esperienza religiosa vissuta da Paolo, fariseo convertitosi alla causa di Cristo. Questa sapienza per l’apostolo non è per tutti; egli distingue fra i credenti chi può esserne depositario e chi ne è escluso: “Tra i perfetti parliamo, si, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo…” (1Cor 2,6ss; 3,1-2). E ciò causerà grossi problemi con lo gnosticismo. Il parlare di una sapienza nascosta e rivelata solo a pochi perfetti ha dato vita a tutta una serie di ipotesi circa il carattere esoterico della sapienza paolina. Gli gnostici si approprieranno delle parole dell’Apostolo per dimostrare come l’origine della gnosi cristiana risalga proprio a lui. E qui veniamo al terzo aspetto illustrato dall’esimio Rossano e cioè l’espressione “mio vangelo”. La rilettura che Paolo opera dell’Antico Testamento alla luce dell’evento Cristo lo porta ad affermazioni  che, pur contrastando con la fede condivisa fino a quel momento, asserisce essere verità tali da definirsi addirittura vangelo. La tecnica di Paolo è di adattare il suo messaggio all’uditorio che ha di fronte. Con gli ebrei Paolo si ricollega alla tradizione dei padri utilizzando la tecnica del midrash, come abbiamo illustrato poco più sopra; con i greci fa appello alla loro cosmogonia mostrando come Dio pur nella sua trascendenza può farsi immanente nel creato. Il discorso dell’areopago di Atene, anche se nella versione tramandataci da Luca, è esempio di ciò. Ma è nella lettera ai Colossesi che lo sfondo gnostico di Paolo si fa presente in modo prepotente.
d) Paolo e Gesù a confronto.   
Paolo vede tutta la sua esperienza non solo di uomo ma anche di credente alla luce dell’evento Cristo. Egli, nelle sue lettere afferma di essere stato sedotto da quest’uomo che considera divino e che lo ha eletto quale suo annunciatore di salvezza. Tutto ormai per Paolo è orientato verso il Cristo. Ma Paolo ha conosciuto di persona il Gesù terreno? Possiamo dire subito di no, Paolo non ha mai conosciuto di persona Gesù nel corso della sua missione terrena. Ma allora il messaggio che l’Apostolo pretende gli sia stato affidato direttamente dal Signore è frutto di sue speculazioni razionali o si radica nel messaggio del Gesù terreno? Facciamo rispondere a questa domanda da uno studioso di Paolo, Giuseppe Barbaglio: egli afferma nel suo libro: “Al quesito se e in quale visione Paolo dipende dal Gesù storico o terreno o meglio dalle tradizioni evangeliche su Gesù, si impone una risposta sorprendente eppure inoppugnabile: solo in minima parte e con peso insignificante sul vangelo paolino… Non sembra dunque esserci alcun ragionevole dubbio in proposito: la predicazione di Gesù ha inciso poco o nulla su Paolo e in esso la teologia paolina non ha trovato la sua matrice storica”[10]. Dunque, sembrerebbe esserci una profonda frattura tra il messaggio gesuano e quello paolino. Ma quali sono queste differenze?
Differenza fondamentale tra il messaggio di Gesù e quello di Paolo è che il primo è teso verso il futuro, il secondo annuncia un evento salvifico già accaduto. Ciò che per Gesù è ancora da venire per Paolo è già compiuto[11]. Gesù è teso ad annunciare una novella ai soli ebrei innestandosi così nel particolarismo ed esclusivismo  tipico del giudaismo del suo tempo. Paolo, al contrario, è aperto ad un universalismo che coinvolge tutte le genti, universalismo in linea con il suo essere  un cosmopolita. Paolo rispetto a Gesù è un ebreo che appartiene al mondo intero quale cittadino romano e uomo di cultura. La sua genialità consiste nell’aver staccato il cristianesimo primitivo quale propaggine dell’ebraismo e averlo reso una religione mondiale, aprendosi ai Gentili. Già studiosi cristiani del passato quali Bultman, Baur e Wrede consideravano Paolo come il “secondo fondatore del cristianesimo”, colui che avrebbe trasformato il messaggio morale del Vangelo in un culto misterico.
Per illustrare l’opera soteriologica del Cristo risorto, Paolo fa uso delle categorie veterotestamentarie quali la redenzione, il sacrificio di espiazione del rito del propiziatorio, il riscatto, la riconciliazione, l’agnello pasquale, il servo sofferente.  Nell’idea della redenzione propria di Paolo si ritrova l’usanza prettamente greca del riscatto dello schiavo che pagava il prezzo presso un tempio ma soprattutto il grande ideale di liberazione desunto dall’epopea dell’esodo[12]. La redenzione per Paolo è Cristo stesso, il quale la compie pagando il prezzo del nostro riscatto sulla croce. L’Apostolo collega così la redenzione con la morte e risurrezione del Cristo e tutto viene interpretato secondo gli schemi propri del giudaismo e dell’Antico Testamento, ma anche ricorrendo a categorie misteriche. La morte in croce corrisponde nella teologia paolina al rito dell’aspersione del “propiziatorio”[13] quando il sommo sacerdote nel giorno dello jom kippur aspergeva il coperchio dell’Arca dell’Alleanza. Scrive difatti Paolo nelle sue lettere: “Infatti siete stati comprati a caro prezzo…”  (1Cor 6,20); “Siete stati comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi degli uomini” (1Cor 7,23); “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto:Maledetto chi pende dal legno” (Gal 3,13); … per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,5).
Collegare la morte di Cristo al grande tema del sacrificio proprio della teologia biblica giudaica è il passo seguente che compie l’Apostolo: Cristo morto è l’agnello pasquale che oltre a liberarci dalla schiavitù del peccato e dalla legge, ci libera anche dalla morte gustando la morte stessa al posto dell’umanità. Scrive Paolo: “Infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato” (1Cor 5,7). Questo sacrificio pasquale di Cristo è un atto di obbedienza al Padre che riscatta la prima disobbedienza della storia: quella di Adamo. Si legge in Rm 5,19: “Similmente, come per la disobbedienza di uno solo [Adamo] tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo [Cristo] tutti saranno costituiti giusti”.
Il pessimismo antropologico tipicamente paolino contrasta con l’atteggiamento comprensivo di Gesù. Più che nella sua opera Gesù sembra porre molta importanza al suo insegnamento che introduce l’uomo nel regno di Dio; Paolo, al contrario, marca l’accento sull’opera e sulla morte di Cristo come origine di salvezza. Paolo legge Cristo anche in chiave metafisica: Egli è preesistente, quasi divino e si è incarnato per salvarci per poi ritornare in cielo dove attende i salvati[14].
Vi è un passo nel vangelo di Matteo che può aiutarci nel comprendere come l’asse teologico di riferimento riguardo al perdono di Dio si sia spostato nel confronto tra il pensiero gesuano e quello paolino: è la preghiera più famosa della tradizione cristiana ossia il Pater noster. In questa preghiera, insegnata direttamente da Gesù, la remissione dei peccati pare subordinata dalla disposizione a voler a nostra volta perdonare coloro che ci hanno offeso o fatto subire un torto. il biblista Mauro Pesce da questa spiegazione delle parole di Gesù: “Gesù insegna ai suoi discepoli a dire «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Poiché è indubbio che sia stato Gesù a formulare questa preghiera,la frase mostra chiaramente quale concezione egli avesse della remissione dei peccati. I peccati vengono rimessi non in virtù della sua morte, bensì attraverso un rapporto triangolare fra l’uomo, Dio e il suo prossimo… Gesù non dice: Dio rimette i peccati perché io Gesù morirò per i peccato degli uomini. E’un ulteriore elemento che ci fa capire la differenza fra il Gesù ebreo e il Gesù cristiano: il Gesù cristiano è quello di cui san Paolo dice: Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture. Il Gesù ebreo dice: è Dio che rimette i peccati. C’è un’evoluzione non piccola come si vede fra Gesù ebreo e Gesù come lo hanno rappresentato i primi cristiani. Quando ha insegnato il Padre nostro, egli non pensava di dover morire per i peccati degli uomini”[15].
La lunga citazione ci consente di riflettere sugli sviluppi che le parole di Gesù potevano avere nelle intenzioni dei primi discepoli che li adattavano a nuovi contesti e nuove situazioni modificando, talvolta in modo estremo, l’originalità del messaggio gesuano. È bene ricordare che in questa fase del cristianesimo non esiste ancora il Nuovo Testamento così come lo conosciamo noi; soprattutto non esistono i Vangeli ma al massimo delle raccolte di loghia, i detti di Gesù, e di fatti da lui compiuti. Sarebbe doveroso fare un accenno alla storia della redazione e delle forme per mostrare come i Vangeli siano una raccolta  di documenti preesistenti e collazionati dagli autori secondo il preciso disegno teologico che ognuno di essi si prefiggeva. Ad esempio è possibile risalire ad una raccolta di parabole, di miracoli, di ammaestramenti di Gesù, che nel modo in cui sono stati inseriti testimoniano la loro preesistenza come raccolta a parte. Anche se oggi molti biblisti preferiscono non utilizzare più la famosa teoria della fonte Q, essa ha aiutato molto la comprensione della storia della redazione dei vangeli.
Detto questo è possibile risalire al  nucleo centrale della predicazione apostolica, ossia al kerigma: Gesù è Signore (ό κύριος) ed è morto e risorto per i nostri peccati, da lui viene la salvezza. È questo che si evince da un confronto tra gli Atti degli Apostoli e i Sinottici. Paolo si impossessa di questo nucleo e lo sviluppa secondo la sua personalità geniale. In questo senso può ben essere definito il fondatore del cristianesimo. Gran parte del Nuovo Testamento sarà opera sua o si ispirerà alla sua azione. È errato, però, pensare che in Paolo vi sia una teologia sistematica come da manuale; essa deve essere estrapolata dalle sue lettere e da quelle che la tradizione gli attribuisce.
Come abbiamo già detto  il nucleo fondamentale dell’annuncio cristiano, il kerigma, ricavato dal Nuovo Testamento ossia dai Vangeli sinottici, dalle lettere paoline autentiche e dagli Atti è: Gesù morto per i peccati, risorto dopo tre giorni, asceso alla destra del Padre e divenuto Signore (κύριος). Questo è l’evento salvifico a cui bisogna aderire tramite la fede e il battesimo ed essere aggregati all’assemblea dei santi, l’εκκλησία.  Dalle fonti summenzionate è possibile tracciare gli avvenimenti successivi alla morte di Gesù. I discepoli, adunati da Gesù nel corso del suo ministero terreno, hanno seguito il Maestro durante i suoi tre anni circa di attività. Sono stati a stretto contatto con lui, hanno vissuto con lui, mangiato con lui, assistito alle sue azioni, ascoltato le sue parole, appreso i suoi insegnamenti sia pubblici che quelli rivolti a loro in privato, hanno assistito alle sue guarigioni e ai suoi miracoli. Sono stati presenti all’Ultima Cena, con tutto il suo simbolismo. Hanno presenziato alla sua  cattura e lo hanno visto morire crocifisso. Presi, poi, dalla paura per possibili ritorsioni da parte dei giudei si nascosero ed attesero gli eventi. In seguito racconteranno di aver visto il Maestro risorto. Durante la festa di Pentecoste ricevono il dono dello Spirito e, dopo aver sostituito Giuda Iscariota nel gruppo dei Dodici Apostoli, iniziarono la predicazione. È chiaro che i seguaci di Gesù devono aver riflettuto sul senso di quanto accaduto. L’episodio dei discepoli di Emmaus raccontato da Luca è sintomatico del tentativo di reinterpretare gli avvenimenti della morte di Gesù in chiave nuova. Quanto fosse necessario al nuovo movimento definire la figura e l’opera del Maestro lo mostra il voler far risalire tale tentativo nientemeno che al Gesù storico[16]. Il movimento dato vita dal Maestro non poteva finire con la sua morte, occorreva continuare la sua opera. Il “mi sarete testimoni in tutta la terra, battezzando nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”[17] diviene l’imperativo di questo gruppo di discepoli  tanto da essere incluso nei vangeli stessi. Si tratta della formula trinitaria che accompagna il rito del battesimo, formula che soppianterà quella cristologica già presente negli Atti, segno di una evoluzione nel pensiero teologico. Essi, però, restano ancora legati alla tradizione giudaica, frequentano il Tempio nelle ore della preghiera, si astengono dai cibi vietati dalla Legge, seguono le Scritture ebraiche che cercano di reinterpretare alla luce degli insegnamenti di Gesù e in base alla sua vita. L’episodio della conversione del centurione Cornelio può ben essere posteriore e inserito solo dopo che Paolo ebbe esteso la sua opera ai Gentili. Lo scontro di Antiochia tra Paolo e Pietro e il concilio di Gerusalemme, presieduto da Giacomo e non da Pietro, ben mostrano la difficoltà del neonascente cristianesimo a staccarsi dalla corrente giudaica. Paolo, epigone di questa svolta storica, soffrirà sempre a causa di chi non condivide questa sua scelta.
Per poter stabilire un nesso di comunione tra Paolo e Gesù unica fonte disponibile sono le sue lettere autentiche e i Vangeli, anche se sorge il problema sull’attendibilità  della testimonianza evangelica circa gli insegnamenti di Gesù. Ad esempio Gesù non si è mai attribuito titoli messianici né ha mai preteso di definirsi Figlio di Dio o Signore preferendo per se stesso il più generico titolo di “figlio dell’uomo” (bar nāšā) nel senso di uomo, appartenente al genere umano ma avente anche il significato dell’io che parla . Questo titolo è presente in Daniele ed Ezechiele e nel libro apocrifo di Enoc. Nei Vangeli compare ben 82 volte: 14 in Marco, 30 in Matteo, 25 in Luca, 13 in Giovanni ed  è sempre usato da Gesù. L’uso di questo titolo da parte di Gesù crea qualche problema infatti “Il figlio dell’uomo è una figura trascendente e divina, mentre il nome aramaico indicherebbe semplicemente una figura umana, un uomo. È una figura gloriosa, ma che, secondo la reinterpretazione posteriore, deve arrivare alla gloria attraverso la sofferenza. L’ambiguità più arcaica si trova in Lc 12,8 in cui il figlio dell’uomo sembra diverso da Gesù, anche se strettamente legato a lui, in quanto giudica gli uomini secondo il loro atteggiamento nei confronti di Gesù”[18].   Eppure Paolo non esita ad appropriarsi di questi titoli cari alla tradizione ebraica applicandoli al profeta galileo.
Inoltre, se i docetisti consideravano Gesù un semplice uomo su cui però lo Spirito di Dio inabitava in modo permanente era perché propendevano per la spiegazione letterale del titolo “figlio dell’uomo” senza vedere in essa alcun recondito significato teologico. Interpretazione che aleggia anche nel vangelo di Giovanni, il quale sembra ritenere Giuseppe il vero padre di Gesù e non un semplice custode del figlio di Dio. D’altronde lo stesso Gesù preferiva per sé questo titolo che, come abbiamo visto, trae più dal profeta Ezechiele che non dai testi di Baruc e Daniele. Da considerare che l’idea di incarnazioni di esseri divini o semidivini è tipica della mentalità pagana mentre per gli ebrei un uomo anche se afferrato dallo Spirito di Dio, come accadde per Mosè, per Giosuè, per i giudici, per i profeti, per il re Davide, resta pur sempre un uomo. Anzi, il re in virtù della sua rappresentanza del popolo verso la divinità era considerato figlio di Dio ma restando pur sempre un uomo, soggetto a tutto quello che è comune alla specie umana. Era naturale, pertanto, considerare Gesù un uomo per quanto straordinario fosse. Per questo nei vangeli troviamo tracce di questa umanità di Gesù perfino nella parentela, cioè nell’elenco dei suoi fratelli e sorelle, con buona pace dei teologi che si affrettano a parlare di cugini distorcendo il significato originale del vocabolo.
Anche la presa di posizione nei confronti della Legge Mosaica sottolinea differenze di atteggiamenti tra Gesù e Paolo: Gesù la relativizza ponendola quale aiuto per l’uomo e non come strumento di oppressione, per Paolo essa è da abolire totalmente in quanto ostacolo all’ingresso dei Gentili nella nuova fede. Per Paolo, infatti, la Legge è come un muro di separazione che divide Ebrei e Gentili impedendo loro di poter stabilire proficui contatti. Sicuramente questa tendenza gli deriva dall’aver viaggiato e dai suoi studi che lo hanno portato ad avere contatti con culture diverse. Secondo il pensiero di Paolo, Cristo con la sua morte ha abbattuto questo muro in modo che Ebrei e Gentili possano convivere nella stessa fede in Gesù Signore[19]. In tal modo le opere del giudaismo non sono più necessarie alla salvezza ma solamente la fede in Cristo. Dalla relativizzazione della Legge Mosaica al rango di pedagogo del Cristo discese l’idea che tutto l’Antico Testamento ne era una semplice prefigurazione.
Come abbiamo visto, Gesù ha nei confronti della Legge un atteggiamento non facilmente definibile: non si oppone ad essa ma neanche si limita a farla osservare. Egli intende andare oltre la lettera per infondere ad essa il giusto spirito di osservanza: “Non pensiate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17). “La solenne dichiarazione indica che per Gesù la legge restava norma fondamentale di condotta… A volte l’attenua fino all’abrogazione di osservanze rituali (Mc 2,23-28; 3,1-6; 7,1-23); a volte inasprisce il rigore di prescrizioni morali (cfr. Mt 5-7)… Davanti al suo pubblico e anche ai suoi discepoli Gesù è costantemente esposto alla febbre messianica e alla tentazione zelota, sempre attento a tracciarsi una linea di demarcazione accurata e sottile tra il religioso e  politico e a sottolineare che il potere romano era instaurato da Dio e verso di esso vi era l’obbligo della fedeltà”[20]. La posizione di Gesù nei confronti dei fermenti sociali del suo tempo e nei confronti della potenza dominante danno origine ad una serie di fraintendimenti da parte di chi lo ascolta e anche da parte dei suoi discepoli. I vangeli spesso riportano i dubbi e le perplessità dei suoi collaboratori. Il fatto, poi, che molti detti di Gesù somigliano in modo sorprendente a insegnamenti rabbinici del tempo può significare che “si tratta di espressioni cronologicamente incerte e attribuite non alla stessa personalità, ma estratte dai ricordi di molte persone; altre volte tali detti si trovano in contesti che ne cambiano il significato e la somiglianza è solo apparente”[21]. È possibile allora che durante la fase di stesura dei vangeli molti detti di Gesù siano stati inseriti in situazioni in cui il Maestro non aveva pronunciato quelle parole. Basta vedere le differenze di contesto tra i vangeli di Matteo e Luca, le diverse redazioni delle Beatitudini, del Sermone della Montagna, della preghiera del Padre Nostro, i diversi elenchi degli apostoli, le diverse arringhe contro i farisei, per avere un qualche esempio.


[1] O. Kuss, Paolo. La funzione dell’apostolo nello sviluppo teologico della Chiesa primitiva. Ed. Paoline, Cisinello Balsamo (MI), 1974.
[2] Paolo, “nella prima lettera ai Corinzi (9,5) dice che i «fratelli del Signore», viaggiando per predicare il vangelo, portavano con sé una donna, probabilmente la moglie. Mi sembri significativo che Paolo accenni all’esistenza di questi fratelli, senza specificare mai in alcun modo che non si tratterebbe di veri figli di Maria. Come già osservato, Paolo non dà grande importanza alla tesi affacciata da Matteo e da Luca, secondo la quale Gesù sarebbe nato miracolosamente da una vergine”. C. Augias, M. Pesce, op. cit. pag. 112. 
[3] Atti cap. 6.
[4] J. Heriban, Inno cristologico (Fil 2,6-11), pp. 381-395.
[5] P. Wendland, La cultura ellenistico-romana nei suoi rapporti con giudaismo e cristianesimo, (Biblioteca di Storia e storiografia dei tempi biblici), Paideia, Brescia 1986, pagg. 243-244.
[6] E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio compartivo su modelli di religione. Paideia, Brescia 1986, pp. 576-588.743-760.
[7] R. Penna, Atteggiamenti di Paolo verso l’Antico Testamento, RivBib 32 (1984) pp. 175-210.
[8] Cfr. Gal 3,15-18: “Fratelli, ecco vi faccio un esempio comune: un testamento legittimo, pur essendo solo un atto umano, nessuno lo dichiara nullo o vi aggiunge qualche cosa. Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: «e ai tuoi discendenti», come se si trattasse di molti, ma e alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo. Ora io dico: un testamento stabilito in precedenza da Dio stesso, non può dichiararlo nullo una legge che è venuta quattrocentotrenta anni dopo, annullando così la promessa. Se infatti l’eredità si ottenesse in base alla legge, non sarebbe più in base alla promessa; Dio invece concesse il suo favore ad Abramo mediante la promessa”.
[9] P. Rossano, Introduzione generale alle lettere di S. Paolo, in Nuovissima versione dai testi originali, Edizioni Paoline, 1977, vol. II, pag. 217.
[10] G. Barbaglio, Paolo di Tarso e le origini cristiane, Cittadella editrice, Assisi 1989, pagg. 241.243.
[11] La signification du Jesus historique pour la theologie de St. Paul in Foi et comprehension, I, Parigi 1970, pp. 211-238.
[12] Cfr. Sal 130,7-8 con Ti 2,14 dove il verbo tradotto “riscattarci” nella versione dei LXX è reso “redimerci” dal greco λυτρώσηται e dal latino” redimeret”, secondo quanto riporta la versione tratta da Novum Testamentum Græce et Latine a cura di A. Merk, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1992.
[13] Cfr. Lev 16,15-19: “Poi immolerà il capro del sacrificio espiatorio, quello per il popolo, e ne porterà il sangue oltre il velo; farà con questo sangue quello che ha fatto con il sangue del giovenco: lo aspergerà sul coperchio e davanti al coperchio. Così farà l’espiazione sul santuario per l’impurità degli Israeliti, per le loro trasgressioni e per tutti i loro peccati… Uscito dunque verso l’altare, che è davanti al Signore, compirà il rito espiatorio per esso, prendendo il sangue del giovenco e il sangue del capro e bagnandone intorno i corni dell’altare…”. 
[14] Cfr. l’inno ai Filippesi, (Fil 2,5-11).
[15] C. Augias, M. Pesce, op. cit., pag. 29.
[16] Lc 24,26-27,32.45; Gv 5,39; 10,35; 17,12.
[17] Mt 28,28.
[18] G. Segalla, La cristologia del Nuovo Testamento, ed. Paideia, Brescia 1985.
[19] Cfr. Lettera ai Galati.
[20] Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, a cura di P. Rossano, G. Ravasi, A. Ghirlanda, ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, voce Giudaismo, pag. 705.
[21] Op. cit., pag. 705.

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